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Ecco per sommi capi il resoconto dell'operato nostro nel ventennio che corse dal 1884 ad oggi. Noi possiamo dichiararci soddisfatti, che le fatiche non furono inutili e che l'opera fu coronata dal successo, il quale è particolarmente notevole perchè esso comprende anche ciò che nell'ora presente è considerato il più importante, vale a dire un contributo largo e prezioso alla conoscenza della civiltà micenea, o a neglio dire egea, in quanto dimostra con prove nuovissime e splendide la parte primaria che Creta ebbe nello svolgimento di quella. Poichè ormai è chiaro (lasciate che io concluda colle parole che terminano il mio studio sul vaso di Haghia Triada) è chiaro che gli antichi, i quali riguardavano Creta come la culla della loro prima divinità nazionale, non avevano torto d'indicarla anche come la sede prima di quella loro civiltà, della quale noi oggi riandiamo le tracce più antiche, e che per essi era rappresentata, nel campo sociale, dalla leggenda di Minos, nel campo artistico dalla leggenda dei Dattili Idei, dei Telchini, di Dedalo; leggende oramai non più vuote affatto di senso. Quelle vie, che diverse e molteplici condussero più tardi allo sviluppo sostanziale ed autonomo dello spirito ellenico, concorsero e s'incontrarono in Creta; e Creta divenne allora il centro di quel mondo insulare, dove la natura e il genio ellenico cominciarono a disvelarsi di tra gli elementi barbarici.

Ma quali e quante furono quelle vie che portarono d'Asia e di Africa i germi diversi ? quali e quanti gli elementi etnici, che concorsero a formare quella civiltà, che fu prodromo dell'ellenica?

Noi invero conosciamo di già molto di quello che stava al di qua, cioè dalla parte di Roma, verso cui guardava il Veglio di Dante, ed ora vediamo anche le vie antiche, che collegavano Roma a Creta e Creta alla Troade, sì che l'Anchise di Virgilio non ci sembra ormai che s'ingannasse di troppo quando voleva in Creta ricercare la culla di sua gente. Dante e Virgilio ebbero ragione dalle recenti scoperte; il genio intuisce, la scienza dimostra. Ma, che cosa conosciamo di quello, che era dietro le spalle del Veglio? Non soltanto sulla via, che mena da Creta a Damiata ed all' Egitto, può la nostra scienza trovare i necessari responsi; ma v'è pure un'altra via il cui sbocco è in un paese, che ci è additato dalle stesse scoperte ultime di Phaestos, e che sta appunto nel continente africano, tra la dantesca Damiata e la città che fu rivale di Roma. Io benedirei quel giorno, in cui la Scuola Italiana si mettesse per quella via, alla ricerca delle sorgenti di una luce più viva.

XXX.

IL PALAZZO, LA VILLA E LA NECROPOLI DI PHAESTOS.

SCAVI DELLA MISSIONE ARCHEOLOGICA ITALIANA A CRETA

(1900-1903).

Conferenza del dott. LUIGI PERNIER.

Nelle precedenti pagine di questo volume (1) il professor L. Savignoni narra le scoperte e gli studî fatti dalla Missione Archeologica Italiana a Creta dal 1884 fino al giorno in cui egli, fra il più vivo interesse degli studiosi d'ogni nazione, jne diede notizia al Congresso Internazionale di Scienze Storiche, in Roma.

Io adunque non ridirò di quante e quali notevoli, inaspettate rivelazioni sia stato fecondo tutto quel periodo di fortunata investigazione archeologica, ma poichè il Savignoni, sospinto dal lungo tema, potè appena fermarsi a rivolgere uno sguardo sui meravigliosi palazzi e sui sepolcri della città antichissima, rivale di Cnossos, tornati alla luce sulle colline festie, sarà cosa per me gradita il richiamare ancora la vostra attenzione, o signori, sopra i risultati delle campagne archeologiche in Creta del 1900-1903 (*), a cui io stesso ebbi la fortuna di prender parte, e con le quali la Missione Italiana, duce e maestro Federico Halbherr, iniziò e proseguì la serie non interrotta e non ancora compiuta delle scoperte di Phaestos.

(1) Cf. n. XXIX.

(*) Allorchè questa conferenza fu detta al Congresso, la campagna del 1903 ⚫ra appena iniziata. Tuttavia alla spettabile Presidenza è sembrato che non si dovesse qui tacere dei principali risultati ottenuti con la campagna medesima pur dopo l'epoca del Congresso.

Sezione IV.

Archeologia.

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I.

Seguendo le indicazioni topografiche di Strabone, il quale colloca Phaestos a sessanta stadi da Gortyna, a venti dal mare, a quaranta da Matala, si era potuto riconoscere il sito di quell'antichissima città nei pressi del villaggio di San Giovanni di Pirgiotissa. I campi e i colli all'intorno erano sparsi infatti di frammenti di vasi micenei e un vasto altipiano, posto all'estremità orientale di una breve catena montuosa

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che chiude a ovest la piana di Messarà, sembrava aver servito di acropoli a un grande centro abitato.

Ma l'altipiano brullo e ineguale (fig. 1), ingombrato da frequenti mucchi di sassi, non mostrava alcuna traccia sicura di antica costruzione, onde assai ci preoccupava la domanda: Quanti e quali saranno i resti del palazzo miceneo di Phaestos, la città emula di Cnossos? Il 4 giugno 1900 ponemmo le tende fra le rovine d'un monastero veneziano, diroccato dai Turchi, ma ancora sacro a San Giorgio, e cominciammo le ricerche su tutte le alture festie.

Dopo un mese e mezzo di ricerche e di saggi, l'ampia spianata dell'acropoli, intaccata da fosse numerosissime, profonde fino al terreno vergine, ancora non mostrava che brutte e poco significanti rovine d'epoche diverse, e il dubbio stava per subentrare, quando finalmente si scoprì un bel tratto di muro a blocchi enormi di calcare, bene squa

drati, e una pietra col segno inciso della doppia ascia, ch'è proprio, dirò così, la marca di fabbrica micenea.

Allora tornò la fiducia, non ostante il caldo eccessivo e l'aria malsana, si proseguirono alacremente i lavori, e già alla fine della prima campagna i risultati ne parvero superiori ad ogni speranza.

Anche per Phaestos, cui Omero chiama la città ben costrutta, aveva la tradizione un fondo di vero: ivi, come a Cnossos, esistevano i grandiosi avanzi di un palazzo d'epoca preellenica, contemporaneo ai palazzi di Micene, di Tirinto e di Troia e devastato, come gli altri, da un violentissimo incendio.

Con la seconda e con la terza campagna l'opera fu compiuta, ma lo scavo sistematico, per strati orizzontali, s'era protratto lungo e laborioso, perchè aveva incontrato non meno di altri quattro sedimenti archeologici, sovrapposti all'edifizio miceneo; l'acropoli non era stata abbandonata dopo l'incendio e la rovina del palazzo, ma aveva continuato ad essere abitata fino all'epoca veneziana, onde ritrovammo: a fior di terra, alcuni sepolcri bizantini, poscia i resti d'un borgo romano,

sotto, costruzioni del periodo greco, anteriori e posteriori alla conquista di Phaestos da parte di Gortyna,

e, quasi sul piano del palazzo, i resti delle case di quelli che l'avevano distrutto o si stabilirono colà poco appresso alla sua distruzione.

Dopo uno studio accurato, tutte queste rovine incerte e mal conservate furono da noi rimosse; ma sull'edifizio antichissimo si stendeva ancora, come manto funereo, il denso strato delle sue stesse macerie: fra l'argilla e le pietre rovinate dal sommo dei muri, v'erano le travi e i fusti lignei delle colonne carbonizzati, le schegge dei grandi blocchi spaccati dall'incendio, i frammenti degli stucchi dipinti e le scarse reliquie di suppellettile ch'erano sfuggite al saccheggio.

Oggi, tolto anche quest'ultimo involucro, il sole, dopo più di trenta secoli, torna a brillare nell'interno della bella dimora principesca (fig. 2), e noi possiamo entrare a visitarla: ci serviranno di guida, per comprenderne le varie parti, le brevi descrizioni che di edifici consimili ci hanno tramandato i poemi omerici.

Nessuna cerchia di mura racchiudeva la reggia, il principe dominava sicuro in alto e la sua vista spaziava sull'esteso dominio: a ovest il mare libico, a nord la nevosa catena dell'Ida, a sud e ad est l'immensa piana di Messarà, oggi triste e solenne, nella sua solitudine,

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