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secoli d'ignoranza successe, come lingua scritta, alla latina. Ma questa lingua, come avvertimmo, era parlata in più dialetti, non solo in Italia dai discendenti degli Etrusci, dei Veneti, dei Galli, dei Liguri e di tant'altre stirpi disparate; ma eziandio nella penisola ibèrica dai nipoti dei Lusitani, dei Turdetani, dei Cantabri, dei Bàstuli; in Francia dalle numerose tribù gaèliche e cambriche, e più tardi dai Franchi, dai Goti e dai Burgundi; e tutte queste varietà di dialetti, passando dall'una all'altra generazione, comparvero distinte nella lingua scritta delle varie provincie, come scòrgesi di leggeri se si confrontano le poesie dei Trovatori provenzali con quelle dei Trovieri della Francia settentrionale, o l'idioma dei Giullari catalani con quello dei poeti italiani di quell'età. Perciò abbiamo riputato necessario, nella nostra classificazione delle lingue d'Europa, raccogliere tanti dialetti in varii gruppi, distinguendoli coi nomi di romanzo itàlico, gàllico, ispànico, rètico e valacco. Forse perchè sentiva la necessità di questa distinzione, lo Speroni, parlando dei primi saggi degli scrittori d'Italia, chiamò la lor lingua romanzo italico; e Brunetto Latini, dicendo nel Tesoro, che preferiva la lingua franzesca all'italiana, non poteva alludere se non ai dialetti romanzi dei due paesi, dappoichè le due lingue italiana e francese non èrano ancora ben determinate. Egli è vero bensì che, essendosi prima d'ogni altro sviluppati i dialetti occitànici, sotto gli auspicj delle corti di Barcellona e di Tolosa, molti poeti italiani e francesi li preferirono nei loro componimenti; ma questo non toglie, che i dialetti delle altre provincie fossero diversi. Nella Spagna, sin dai tempi delle Crociate, veggiamo distinto il

romanzo castigliano dal catalano; nè possiamo comprendere, come tanti scrittori àbbiano potuto risguardare come una stessa lingua quella dei tanti scritti di quell'età!

Di più: le lingue parlate, per loro natura, non sono mai stazionarie; ma fedeli intèrpreti dello spirito delle generazioni, ne sèguono tutte le vicende; e perciò anche i dialetti romanzi, in quel tempo di transizione, nella bocca di popoli risurti a nuova vita, e puliti da scrittori inesperti, la cui sola norma era il natural senso e più sovente l'arbitrio, dovettero subire una lunga serie di modificazioni. Ogni anno del medio evo, come osservò anche il Lanzi, era un passo verso un nuovo linguaggio, e perciò non vi fu lingua stabile in tutta l'Europa latina fin dopo il milletrecento, quando cominciarono a determinarsi gli idiomi moderni.

Distingueremo per último la vera lingua romanza dalla favella arbitraria di certi antichi monumenti, che si suole talvolta confondere dagli scrittori sotto lo stesso nome. E noto che, mentre zelanti scrittori s'adoperàvano a dar forma stabile alla lingua vulgare, altri, sebbene ignari d'ogni elemento, vollero scrivere latino, ed apponendo latine desinenze a voci triviali, ed inserendo fra le romanze qualche latina locuzione, impastarono una lingua bastarda, che non fu mai scritta, nè parlata. Si distinsero in questo numero i notaj ed i chièrici dei bassi tempi, i quali, nella generale ignoranza, si diedero sovente maestri di latinità, e ci tramandàrono gran copia di documenti, confusi a torto da alcuni coi pretti romanzi. Così a torto fu proposto dagli scrittori a saggio di lingua romanza il giuramento di Lodovico il Germanico, nel quale si ravvisa appena il

linguaggio d'un Teutono, che tenta invano staccarsi dall'intima costruzione e dalle forme della lingua nativa.

Ad accrescere la corruzione dei dialetti romanzi contribuirono altresì le migrazioni dei popoli settentrionali, parte dei quali fondàrono regni nella nostra penisola, e dopo varii secoli di dominio si sommersero fra gli indigeni. Goti, Vandali, Longobardi e Normanni inserirono quindi alcune straniere voci nei nostri dialetti, e li rèsero alquanto forse più discordi; e le politiche vicende, che più tardi frastagliàrono la penisola in piccioli Stati, perpetuàrono le dissonanze.

Tale era la condizione d'Italia verso il XIII secolo, senza unità nazionale, senza lingua e quasi senza nome. I primi in tutta l'Europa latina, che si adoperassero a coltivare ed illustrare il proprio dialetto, fùrono i Provenzali. La celebrità che raggiunse quella lingua sotto gli auspicj della corte di Tolosa chiamò a sè molti Italiani, che poscia ne trasportarono in pàtria i nùmeri e le grazie. Tra le varie provincie d'Italia prima ne diede il segnale la Sicilia, ove Federico II e Manfredi premiàrono e stipendiarono alla corte loro Trovatori nazionali, che cantarono nel proprio linguaggio ad imitazione dei Provenzali. Carlo d'Angiò re di Napoli segui l'esempio dei re di Sicilia, e dappoichè l'arte di far versi amorosi veniva premiata da tutti i principi, quasi tutte le città d'Italia èbbero ben presto i loro Trovatori. Gènova ebbe Folchetto, Calvi e Doria; Venezia, Giorgi; Padova, Brandino; Faenza, i Pùcciola; Pisa, Lucio Drusi; Mantova, il Sordello; Bologna, Ghislieri e Fabrizio; Torino, Nicoletto; Capua, Pietro dalle Vigne; e sopra tutte si distinsero le città toscane, ove fiorirono Guido, Lapo, Cin da Pistoja, Cavalcanti, Brunetto La

tini ed altri molti. Sebbene però questi scrittori vulgari dessero la prima spinta a stabilire la nuova lingua, egli è certo, che, procedendo di quel passo, l'Italia sarebbe divenuta ben presto una nuova Babele; imperocchè, mentre gli uni polivano il vulgar fiorentino, altri scrivevano il siciliano, altri il napolitano ed altri preferivano il provenzale. La gelosia delle piccole repúbliche imponeva a ciascuna di far uso del proprio dialetto; nè v'era città, che col peso del suo primato dettar potesse una lingua sola a tutta la nazione.

A liberar l'Italia da questa confusione di lingue era d'uopo, che un potente ingegno, spoglio di pregiudizj municipali e rivolto alla patria grande, ne mettesse a contribuzione tutti i dialetti ed, estraèndone la parte nòbile, fondasse una lingua nazionale, cui perciò a buon diritto si addicesse il nome d'itàlica. Si grave assunto adempi Dante Alighieri, verso il principio del secolo XIV; e concepito l'alto disegno, lo espose nel trattato del Vulgare Eloquio e nel Convivio, ponèndolo ad effetto nella Divina Comedia. Tale appunto fu l'origine del nostro idioma, che in sulla prima aurora eclissò le snervate lettere provenzali. Quando l' Alighieri scrisse il poema con parole illustri tolte a tutti i dialetti d'Italia, e quando nel libro del Vulgare Eloquio condannò coloro che scrivevano un sol dialetto, allora diremo ch' ei fondasse la favella italiana, ed insegnasse ai futuri la certa legge d'ordinarla, conservarla ed accrescerla. Cosi avvertiva il Perticari, e così fu; perocchè tutta Italia, invaghita dagli aurei scritti dell'èsule fiorentino, abbandonò l'orgoglio municipale, seguì l'esempio del gran maestro, ed ebbe una sola lingua scritta, la lingua sancita da lui. E perciò nello

studio dei dialetti italiani, meglio che in qualsiasi altra fonte, dobbiamo attingere le origini del nostro idioma, e cercar la ragione, così delle sue leggi, come delle molteplici sue variazioni.

III.

Ciò premesso, ci resta a vedere quali studj venissero instituiti sinora sui nostri dialetti, e quali materiali si apprestassero per determinarne l'indole e le proprietà. Raccogliendo quanto fu publicato sinora su questo argomento, scorgiamo bensì, che parecchi tra i principali dialetti italiani possèggono più o meno vasta letteratura; ma questa generalmente consta di poesie satiriche o dramàtiche, intese a solennizzare municipali avvenimenti, o a reprimere le ridicole tendenze dei tempi. Quasi tutti i municipj italiani hanno pure i loro vocabolarj vernàcoli; ma, oltrechè il lèssico d'un dialetto, come abbiamo avvertito, costituisce uno solo degli elementi che lo compongono, questi vocabolarj furono compilati a fine d'insegnare l'italiana favella alle classi meno culte dei rispettivi municipj, anzichè per raccogliere e mettere in evidenza le radici distintive e proprie di tante lingue diverse; inoltre fùrono per lo più ristretti nell'angusto recinto delle città e dei loro sobborghi, restandone per tal modo escluso il prezioso patrimonio della campagna e dei monti, depositarii tenaci d'ogni avito retaggio.

Meno ancora si è fatto, onde rivelare le proprietà grammaticali dell'una o dell'altra favella, e il rispettivo sistema sonoro, tanto importante nelle linguistiche disquisizioni. Appena qualche saggio grammaticale venne

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