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V. 148. Ms. Vital. Onde il dan dispietato (A). v. 149. Ms. Vital. Al lacrimar ne invito (A). v. 153.

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* Esagerazione dell'esagerazion pe-
trarchesca Fiume che spesso del mio
pianger cresci. » v. 155. Oscu-
rità. Così hanno tutti i testi: ma a
noi sembra che Oscurita sia la vera
lezione (Nota dell' ediz. Silv.).
v. 159-162. Imit. da quel di Mosco
nell' epitaf. di Bione: « Flebilmente
gemetemi, o clivi, o dorica onda; e,
o fiumi, lamentate l'amabile Bione:
ora, o piante, lacrimatemi, e, o bo-
schi, ora deplorate: ora imporpora-
tevi, o rose, dal lutto, ora, o anemo-

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ni. » E Bione: « I monti tutti dicono e le quercie, ahi Adone; e i fiumi compiangono i lutti di Venere; e le fonti Adone su' monti lacrimano» (N). — v. 166-167. Cat. : « veluti prati Ultimi flos, prætereunte postquam Tactus aratro est. » Virg. : « Qualem virgineo depressum pollice florem Seu mollis violæ seu languentis hyacinthi, » altrove: « Purpureus veluti cum flos succisus aratro Languescit moriens,>> cosi trad. dall'Ariosto: « Come purpureo for languendo muore, Che il vomero al passar tagliato lassa. » Petr.:

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Fatto è quel viso esangue,
Che solía di beltade

La nostra etade far si glorïosa.

Quella lucida lampa or è nascosa,
La qual soleva il mondo alluminarc.
L'aria di pianti s'oda risuonare.
Chi canterà più mai sì dolci versi?
Chè a'suoi soavi accenti

Si quetavano i venti;

E in tanto danno spirano a dolersi.
Tanti piacer son persi,

Tanti gioiosi giorni,

Con gli occhi adorni che la morte ha spenti.
Ora suoni la terra di lamenti,

E giunga il nostro grido al cielo e al mare.
L'aria di pianti s'oda risuonare.

UNA DRIADE.

Orfeo certo è colui che al monte arriva
Con la cetera in man, si dolce in vista;
Che crede ancor che la sua ninfa viva.
Novella gli darò dolente e trista:

E più di doglia colpirà nel core,
Se è subita ferita e non prevista.
Disgiunto ha morte il più leale amore
Che mai giugnesse al mondo la natura,
E spento il foco nel più dolce ardore.
Passate voi, sorelle, alla pastura.

V. 168. Ms. Vital. Ratto è (A). v. 174. Ms. Vit. Chi conterà (A). v. 179. A modo mio ho voluto acconciar questo verso guasto in ambi i codici. Il Regg. dice Tanti giorni giorni, e il Vit. Tanti gloriosi giorni (A). v. 180. Petr. Ei più begli occhi spenti» (N). v. 189. Così sembra

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doversi leggere nel Ms. Vit., e mi par meglio che nel Regg. ove si ha Si subila ferita (A). Avea detto Cicerone Minus iacula feriunt quæ prævidentur, così trad. da Dante « Chè saetta prevista vien più lenta: » e Petr. Chè piaga antiveduta assai men duole» (N).

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ORFEO.

Musa, triumphales titulos et gesta canamus
Herculis, et forti monstra subacta manu;
Ut timidæ matri pressos osten lerit angues,
Intrepidusque fero riserit ore puer.

DRIADE.

Crudel novella ti riporto, Orfeo.

«

La tua ninfa bellissima è defunta.

Ella fuggiva avanti ad Aristeo:
Ma, quando fu sopra la ripa giunta,
Da un serpente venenoso e reo

Ch'era fra l'erbe e' fior nel piè fu punta:
E fu si diro e tossicato il morso,
Che ad un tempo finì la vita e 'l corso.

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V. 194. Ms. Vit. Mort' è oltre al monte la (A). v. 195. Virg. VI Æn. : Manibus oh date lilia plenis; e nell' Eel.: humum foliis. v. 197-200. Da Claudiano, Præfat. in II de Rapt. Pros.: « Ille novercales stimulos actusque canebat Herculis et forti monstra subacta manu; Qui timidæ matri

POLIZIANO.

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199

201

pressos ostenderit angues Intrepi dusque fero riserit ore puer» (N). -v. 203. Var. fuggiva innanti : Ms. v. 204. Var. sopra a la: Ms. Vit. (A.) v. 205-206. Virg. Georg. IV: «Immanem ante pedes hydrum moritura puella Servantem ripas alta non vidit in herba. >>

10

Vedi come dolente

MNESILLO.

Si parte quel tapino

E non risponde per dolor parola,
In qualche ripa sola

E lontan dalla gente

Si dolerà del suo crudo destino.

Seguir lo voglio per veder la prova
Se al suo lamento il monte si commova.

ORFEO.

Ora piangiamo, o sconsolata lira;

Chè più non ci convien l'usato canto:

Piangiam mentre che'l ciel ne' poli aggira, E Filomena ceda al nostro pianto.

200

217

O cielo, o terra, o mare, o sorte dira!
Come soffrir potrò mai dolor tanto?
Euridice mia bella, o vita mia,

Senza te non convien che al mondo stią.

V. 209-216. Il Satiro è un attore non ancora veduto far comparsa in questo dramma, Manca questo nelle antecedenti st.: ma era troppo necessario qui un terzo attore su la scena. Orfeo, a pena udito il fatale annunzio, dovca rimaner cosi attonito che, perdendo ogni lena, abil non fosse a schiuder la voce per lamentarsi; come avviene a chiunque, cui dolorosa novella recata sia. Intanto dunque che Orfeo sopraffatto dall' aspra doglia se 'n tace, perchè la scena vota non resti e interrotta, parla il Satiro, maravigliandosi appunto e commiserando lo stato dell' infelice Orfeo. Su i passi di lui s' aggira e va spiando i suoi movimenti per veder poi se al canto di esso voglia moversi il monte, come di lui si favoleggia. Anche Euripide introdusse i Satiri nel suo Ciclope.

Quest'uso nelle favole boscherecce e pastorali fu ritenuto dal Giraldi, dal Tasso, dal Guarini e da altri (A).

v. 209-212. Simile a quel che dice il coro nell' Edipo tiranno: «Or come si parti, stimolata da selvag gio dolore, la moglie di Edipo! temo non da questo silenzio prorompa in alcun male »> (N). * Sola. Ricorda il virgiliano

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Te, dulcis coniux, te solo in litore secum, Te veniente die, te, decedente, canebat »

Georg., IV. E solo in forza di romito, disabitato, deserto, come notò primo il Leopardi (Annotaz. alle Canzoni, Bologna, 1824), usarono fra gli italiani il Petr.: « fien le cose oscure e sole, >> il Casa: « selve oscure e sole, e molti altri che cita. Noi aggiungiamo l'Ariosto, XXVII: a le rive più sole."

Andar intendo alle tartaree porte

E provar se là giù mercè s' impetra.
Forse che volgerem la dura sorte
Co'lagrimosi versi, o cara cetra.
Forse ne diverrà pietosa morte;

Chè già cantando abbiam mosso una pietra,
La cerva e il tigre insieme abbiam raccolti
E le selve tirate e i fiumi svolti.

MNESILLO.

Non si volge sì lieve

Dell'empie Parche il fuso

Ne l'aspra porta del ferrato inferno.
Ed io chiaro discerno

Che 'l suo viver fia breve:

Se là giù scende, mai non torna suso.
Nè meraviglia è se perde la luce

Costui che 'l cieco Amor preso ha per duce.

V. 225. * Tænarias etiam fauces, alta ostia Ditis,... Ingressus manesque adiit » Virg. Georg. IV. « Ad Styga Tænaria est ausus descendere portà » Metam. X. - v. 229. Var. forse che ne diverrà: Ms. Vit. (A). v. 230. Var. mossa una pietra: Ms. Regg. (A). v. 230-232. Virg.

225

255

Georg. «Mulcentem tigres et agentem
carmine quercus » di Orfeo; e Orazio,
dello stesso:« Arte materna rapidos
morantem Fluminum lapsus celeres-
que ventos, Blandum et auritas fidi-
bus canóris Ducere quercus » (N). -
v. 238. Anacr. « .... è acconcio non
risalirle chi una volta v'è sceso » (N).

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