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OSSERVAZIONI

DEL PADRE IRENEO AFFO

SOPRA VARII LUOGHI

DELL' ORFEO.

OSSERVAZIONE I.

DEL TITOLO DI TRAGEDIA DATO ALL' ORFEO.

[Pag. 133.]

Nascer può dubbio se il Poliziano desse il titolo di tragedia a questo suo dramma. Alcuno potrebbe forse non crederlo, persuaso in contrario dalla lettera diretta a Carlo Canale in cui contentossi di chiamarlo favola. Ma io dico

non

essere questo tale argomento che convincer ne possa. La denominazione di favola è comune ad ogni poema epico e drammatico: ma il denominarli così non toglie che non possano avere il loro specifico titolo. Il Poliziano stesso chiamò favola la Medea d'Euripide ove di essa parlando scrisse: Sic igitur in ea fabula cum matronis Corinthi loquens inducitur Medea. E chiamò pur favola i Menemmi di Plauto, così scrivendo al Comparino: Rogasti me superioribus diebus ut, quoniam fabulam Plauti Menæchmos acturi essent auditores tui, prologum facerem genere illo versiculorum qui sunt comœdiæ familiares. Ciò non ostante

1

1 Centur. Miscellan., cap. 27.

2 Epistolarum, lib. 7, epist. 15.

sapeva ben egli che la prima era una perfetta tragedia, e gli altri una commedia. Del pari potè dar all' Orfeo il titolo di tragedia; ed occorrendogli poi di averne famigliarmente a ragionare in una lettera potè chiamarlo favola, onde servirsi di un vocabolo generico e comune. E ben mi quadrano qui le parole molto a proposito di Luigi Riccoboni: Il s'est donc contenté de donner à sa pièce le nom général de Favola, qui se donnait de son temps à presque toutes les espèces de poëme:1 e mi giova molto nel tempo stesso il vedere un autore, cui sebbene noto non fosse l'Orfeo salvo che nella maniera onde si è stampato finora, tuttavia ebbe tanto lume di collocarlo nel catalogo delle tragedie italiane. Di fatti, quantunque non possa dirsi l'Orfeo una tragedia del tutto perfetta, non può negarsi però che il soggetto non sia tragico e di funesto fine; nè può dissimularsi che non abbia parti bellissime, le quali, se piaciute sono finora così com' erano guaste e rotte, molto più incontreranno in appresso l' aggradimento de' letterati ridotte alla loro natía bellezza ed integrità. Dovremo pertanto credere che il titolo dato all' Orfeo dall' autor suo sia quello di tragedia, siccome i nostri codici ne hanno abbastanza chiarito. Però non converrà concedere al Quadrio che i primi drammi usciti ora con titolo di tragedia ora con titolo di atto tragico siano il Filolauro di Demone Filostrato o veramente il Filostrato e Panfila d'Antonio di Pistoia; poichè queste e simile indigeste farse piuttosto che tragedie vennero senza dubbio composte dopo l' Orfeo, siccome io sono di costantissimo parere: ma farà d'uopo segnar l'epoca della prima origine della tragedia italica coll' Orfeo dell'ingegnosissimo Poliziano. E perchè questo dramma è misto ancora di pastorale, se pure tutto dir non si voglia di tal natura, lascerò ch' altri si vegga se giustamente Agostino Beccari ferrarese pretendesse il primato nello scrivere favole pastorali per quella intitolata Sacrificio ch' ei pubblicò l'anno 1555. Ma il Beccari non solo era stato prevenuto dal Poliziano bensì ancora da Giambatista Giraldi Cintio, che dieci anni prima avea dato fuori l' Egle, cioè nel 1545, intitolandola Satira pei Satiri che v'introdusse, ma vera favola pastorale

in essenza.

2

1 Histoire du Théât. Ital., Catalog. des Trag., pag. 123.
2 Stor, e Rag. d'ogni Poes., vol. 3, lib. I, pag. 58.

OSSERVAZIONE II.

DELL' ARGOMENTÓ.

[Pag. 133, v. 1-16.]

Questo egli è argomento e prologo insieme, o sia uno di que' prologhi i quali manifestano la traccia della favola. Se al Castelvetro giunse mai sotto l'occhio l' Orfeo stampato, dovette piacergli il veder questo prologo messo in bocca a Mercurio; poichè egli fu di parere che i prologhi, pe' quali si manifesta la serie dell' avvenire, non potessero mai essere detti da uomini mortali ma doversi riputar fatti dagli dii, come coloro che stendono anche sul futuro il loro vedere. Per questo fu ch'egli biasimò Terenzio che sempre da uomini fece prologizzare; e lodò assai Plauto, perchè servissi de' numi. Io però, avendo mente a quel precetto d' Orazio

Nec Deus intersit, nisi dignus vindice nodus
Inciderit, 1

dirò parermi cosa molto impropria il condurre senza necessità un dio sulla scena ad annunziar ciò che avvenir debba fra i mortali. Osservo che il principe de'tragici, Euripide, di diecinove tragedie che di lui ci rimangono, non ne ha che cinque in cui prologizzino i dèi; e sono l'Ippolito, l' Alceste, le Baccanti, le Troiane, e il Gione: ma rifletto altresì che que' numi che operano di tale guisa sono anche impegnati ed hanno interesse ed azione in tutta la favola. Nell' altre vediamo sempre dagli uomini far il prologo. Ciò posto, chi non vede che l'ingegnosissimo Poliziano non poteva guidar Mercurio sul teatro ad annunziar gli avvenimenti tragici di Orfeo, poichè Mercurio non avea che far nulla entro l'azione? Diremo forse noi ch'ei non sapesse tra i molti esempi scegliere i migliori? Lo dica chi vuol dirlo; ch'io per me ho troppo concetto del mio autore: e tanto più mi fermo nel pensiero ch' ei non facesse dir questo prologo a Mercurio, quanto i due manoscritti non fanno cenno veruno di ciò. Può confermarci nella sicurezza del- . l'opinione ch'egli aver dovea de' prologhi quello che spedì al Comparino da premettersi ai Menemmi di Plauto, che non altramenti posto in bocca a verun dio si scorge ma bensì apparisce recitato da un giovane studioso. Qui le stampe ed

1 De Arte Poetica, vers. 191.

il manoscritto chisiano variano di titolo all' Orfeo; chè, dore prima era stato chiamato favola, ora lo vediamo denominato festa, dicendosi : Mercurio annonziatore della festa. Questo nuovo titolo non potè uscir dalla penna del Poliziano; chè le feste non erano altrimenti della natura di questo nostro dramma, consistendo la principal forza di esse in balli, moresche, giostre, torneamenti e macchine; servendo la poesia più d'intermezzo che d' altro. Ma nell' Orfeo abbiamo un'opera veramente teatrale, esclusiva di quelle sollazzevoli rappresentanze che per lo più negli steccati far si solevano : e laddove la poesia che accompagnava le feste consisteva per lo più in qualche cantata o dialogo di due o tre attori, come sarebbe, per cagion d' esempio, mezzo il Tirsi di Baldassar Castiglione e di Cesare Gonzaga, noi nell' Orfeo scorgiamo una vera favola, di principio e fine tragico, rappresentata da'vari interlocutori, distinta in atti, e accompagnata da cori; talmente che non debbasi ella confondere colle semplici feste.

OSSERVAZIONE III.

DELLA DISTINZIONE IN ATTI

[Pag. 134, v. 15-16.]

Parmi di sentir qualche critico a mettere in dubbio se così potesse scrivere il nostro Poliziano. E chi non sa (odo sussurrarmi all' orecchio) che il celebre Mureto riconobbe cotesta distinzione di atti ne' drammi per una capricciosa invenzion de' moderni, e condannolla? Tu che allegasti in un tratto della tua prefazione il padre Bianchi, non ti ricordi d'aver letto presso di lui che la division degli atti che si scorge nell'Ezzelino tragedia latina di Albertino Mussato il quale fiori tra il secolo XII e XIII,2 non può mai essere stata fatta dall'autore che la compose, sapendosi che questa distinzione di scene e divisione di atti non solo non fu usata dagli antichi Greci e Latini ma neppure da' nostri poeti toscani che furono i primi a compor tragedie in nostra lingua; come apparisce dalla Sofonisba del Trissino, dall' Oreste del Rucellai, dall' Edipo del Giustiniano, dalla Merope del Torelli. Prova questo

1 Epist. 95 ad Hieron. Zoppium, et Epist. 78 ad Petrum Lupicum.
2 Veramente nella prima metà del sec. XIV. (Gli Edd. fior.)
3 Vizi e Difetti del moderno Teatro, par. I, ragionam. 4, pag. 185,

nelle note.

scrittore l'opinion sua con addurre varie antichissime stampe di Terenzio e di Plauto che non hanno tale divisione: onde non è probabile che il Poliziano così distinguesse l'Orfeo. Ma andiamo un poco a bel bello con questa critica. Chi è mai tra gl'iniziati a pena nella poetica scuola che non abbia letto il precetto d'Orazio, in cui severamente comanda che ogni dramma non abbia nè più nè meno di cinque atti?

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Neve minor quinto neu sit productior actu

Fabula quæ posci vult et spectata reponi. 1

A chi note non sono le esposizioni di Asconio Pediano coiltemporaneo di Virgilio sopra alcune orazioni di Tullio? Egli scrive fuori di enimma: Fabula sive tragica sive comica quinque actus habere debet. 2 Come dunque può dirsi che gli an tichi non conoscessero punto la distinzione impugnata? Nè mi si dica che Acrone comentatore antico di Orazio, il quale visse verso il secolo VII dell' era volgare, interpretò gl' indicati versi così: Idest, non loquatur in fabula plus quinque personis poichè certamente egli errò, mentre degli attori quivi non parla Orazio, il quale si riserbava a dirne più a basso ove poi scrisse: Nec quarta loqui persona laboret. Acrone senza dubbio si servì d'esemplari corrotti; o, a dir meglio, non fu egli autore di que' commenti, come dottamente a provar diedesi Giano Parrasio in una sua lettera a Gaetano Tiene. Così non ispiegarono quel passo l'Ascensio, Enrico Glareano, e tanti altri antichi e moderni scrittori che le cose d'Orazio illustrarono; giacchè è tanto chiaro, che nulla più; e congiunto poi coll' autorità di Asconio giunge all' ultimo grado di evidenza. Non può dunque dubitarsi che i Latini non conoscessero la distinzione degli atti, la quale tolsero ad imitare da' Greci, avendola costantemente usata Euripide fin nella Satira del Ciclope, come osserva il dotto Quadrio. Io veggo che Aristofane, giusta la versione latina che delle sue commedie intraprese Andrea Divo Giustinopolitano, divise il Pluto in otto atti; la qual cosa, benchè sia fuori di regola, non lascia di confermare l'assunto. Con qual sicurezza poi pretendasi affermare che Albertino Mussato non potesse dividere il suo Ezzelino in cinque atti, io

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1 De Arte Poetica, vers. 189, 190.

2 Super quartam in Verrem.

3 Acron. Comment. in Poet. Horatii.

* Epist. 5; apud Gruterum, Thesaur. Critic., tom. I, sylloge 4 pag. 734.

5 Vol. 3, par. I, dist. 5, cap. I, partic. 1, pag. 308.

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