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incancellabile. Laonde si può dire sotto generalità degli uomini ciò che dice Virgilio:

O fortunatos nimium, sua si bona norint!

Ma siccome canta Euripide,

Πλείω τὰ χρηστὰ τῶν κακῶν εἶναι βρότοις

(più i beni dei mali sono agli uomini), così al concetto del poeta risponde il senso comune del genere umano. E vedete ancora quanta differenza è nel ragguaglio dei beni e dei mali da uomo a uomo e da popolo a popolo. Allorchè una gente è vigorosa, assennata e forte, essa pone in ciò la virtù suprema di sprezzare i dolori ed i pericoli; quando declina a mollezza, allora smaniosamente va in cerca del piacere, e le acerbità della vita rimpiange con infinita querela. Laonde è manifesto che il dolore non è tanto in se stesso quanto nel giudizio che ne facciamo, e che una educazione virile e generosa può francarci di molti mali o renderli più tollerabili. Oltracciò io vi prego di considerare come il dolore si colleghi necessariamente all'istinto. Il quale essendo un principio spontaneo di agire destituito di riflessione, era mestieri che trovasse nelle cose fuori correlazione, voglio dire indizii che dal nocivo lo ritraessero e al salutare lo indirizzassero. Il che avviene mercè le sensazioni piacevoli e dolorose, per guisa che si può dire ch'elle ci sono prime scorte, e cooperano al tirocinio della nostra infanzia. E procedendo nell' età, notate che il dolore è stimolo all'operare, avvegnachè la puntura del bisogno sia madre e creatrice di tutte le arti. E il desiderio non essendo mai appagato, anzi per gli acquisti moltiplicandosi, ci tiene continuamente intenti e solleciti di progresso maggiore. Ma quante volte gli uomini non fabbricano i loro mali a se stessi? I quali, ove seguissero i

dettami della retta ragione, e non volessero contrariare a natura, quanti disinganni, quante amarezze, quante angoscie potrebbero evitare? Onde l'antico motto

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Lascio stare gli odii, le nimistà, le oppressioni, le ingiustizie che corrono fra gli uomini. E questi sono tutti risguardi diversi del dolore, ai quali altri se ne potrebbero aggiungere. Ma non bastando essi a togliere il velame di quel terribile arcano, e sovrattutto a chiarirne l'origine, la ragione abbisogna di essere integrata da qualche soprannaturale certezza. Ed ecco uno di quei punti, nei quali la filosofia invoca il sussidio della fede et s'intreccia colla scienza teologica, siccome io da principio accennai. Dovunque gli uomini gemettero e si sdegnarono del male sulla terra, dovunque cercarono penetrarne le cagioni, e non potendo colle forze dell'intelletto pervenirvi, si rivolsero alla tradizione, della quale con più o meno alteramento rimaneva presso di loro alcun vestigio. Quindi in tutte le religioni la rimembranza di una primitiva età felice ed innocente; poi lo scadimento dell' umana razza, onde s'introdusse nel mondo il male ed il dolore, la necessità dei sacrifizii e delle purificazioni, la speranza del restauro finale per opera di un divin Riparatore. Ma se la ragione colle sole sue forze non può trovare la dimostrazione evidente di certe verità, ben può scorgerne le attinenze con altri principii dimostrabili, riconoscere l'inverosimiglianza e l'incoerenza del contrario, valutarne le benefiche conseguenze, riconoscere finalmente che l'esistenza del male non repugna all' armonia dell' universo, nè alla suprema bontà del Creatore.

Carmo. Dinanzi alla rivelazione la mente può inchinarsi senza discutere: ma io non posso menarvi buono che alla ragione non appaia contraddittoria l'idea dell' armonia universale con la esistenza del male. Similmente ripugna che la colpa di un solo uomo abbia potuto meritare non solo a lui medesimo punizione e morte, ma lutto perpetuo a tutto l'uman genere. Che se era destinato che l'uomo fallisse e del suo fallo perenne fosse la iattura, la mente nostra si confonde pensando qual poteva essere il motivo della sua creazione. Nè propria dell'uomo solo è la infelicità, ma comune eziandio alle creature inconsapevoli e irrazionali, e quasi direbbesi anche alle inanimate, quando sappiamo che la terra, prima di essere abitata dall' uomo, soggiacque a cataclismi terribili e a pugne intestine, onde più volte la sua faccia fu rimutata. Qui mi corre al pensiero l'infelice Giacomo Leopardi, uno dei più grandi ingegni del nostro tempo. Niuno ritrasse mai con più mirabile e spaventosa efficacia i mali dell' universo. Una disperata tristezza regna per tutte le sue prose ed i suoi versi; e se talora, deposta la lira funebre, ti sembra sorridere, non è quel sorriso che amara e sublime ironia. Imperocchè egli stimò la natura nemica e tormentatrice delle sue creature, e i viventi tutti perpetuamente e inesorabilmente condannati a soffrire. E sentenziò che il dolore solo era vero, e solo la morte desiderabile. Laonde la sostanza della filosofia in ciò per suo avviso consiste, di strappare il manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino, rifiutare ogni consolazione e ogni inganno puerile, sostenere la privazione di ogni speranza, e mirare intrepidamente il deserto della vita. Or che cosa risponderete voi al Leopardi, o che cosa può rispondervi la ragione umana? Come può ella illudersi al cospetto dei fatti, di dimostrare la bel lezza, l'ordine e l'armonia delle cose terrene? Con quali

argomenti può acquetare l'animo straziato dallo spettacolo doloroso dell' umana infelicità che ci sta sempre dinanzi?

Eupronio. Voi mi traete alle più alte speculazioni, e a tali materie che non sono di famigliare discorso, ma di lunghe e ponderate disamine. Quanto a me, io credo che la ragione sia atta a comprendere in gran parte l'ordine universale, e da quella parte che conosce, possa fondatamente argomentare quella che ignora. E all'autorità del Leopardi che voi mi avete addotto, contrappongo quella del Leibnizio, che chiamerei il Platone dei tempi moderni; tanto più volentieri, quanto che parmi di trovare nella Repubblica e nel decimo libro Delle leggi i germi del sistema magnificamente espresso nella Teodicea. Bello e istruttivo argomento sarebbe un paragone fra le dottrine di quei due preclari intelletti (dico il Leopardi e il Leibnizio), l' uno dei quali, pieno di disperazione, non vede nel mondo che la infelicità e la discordia, l'altro contempla con nobile fiducia la bellezza e l'armonia del creato. Ma siccome il subbietto richiederebbe più prolissa trattazione di quella che abbiamo oggimai compiuta, mi contenterò di invitarvi a ripensare fra voi medesimo questi che a me sembrano punti capi. tali della controversia, e con ciò daremo termine al nostro discorso. Nella limitazione delle cose, nell' esser loro finito, ha il male la sua prima radice: imperocchè, riguardato metafisicamente, non è desso un ente, nè un attributo, ma un difetto e una privazione. Nè le cose poterono essere infinite senza esser Dio stesso: ed essendo finite, per ciò solo erano soggette ad imperfezione. La libertà dell' arbitrio è cagione della colpa e del male morale, e per indiretto di molta parte del male fisico. Ma questa facoltà onde l' uomo può chiuder gli occhi al lume del vero e del bene, generatrice di guai infiniti, è

pur quella che lo estolle sopra tutte le creature, e lo avvicina al suo primo fattore. Più nobile adunque fu per l'uomo il possedere questa prerogativa, comecchè essa portasse pericolo, di quello sia il non averla, a simiglianza degli animali bruti, senza responsabilità e senza merito. E se l'innocenza è bella, più bella ancora è la virtù, che conoscendo il bene ed il male, a questo contrasta e quello segue a prezzo delle fatiche e dei dolori. E se ripugna il pensare che il fallo di un uomo si riversi sugli altri e sulla intera specie, la repugnanza vien meno, quando riguardiamo che le attinenze di tutti gli uomini fra loro, e come oggi dicesi la solidarietà del genere umano, dalla sua origine sinò alla fine, è l'argomento più efficace della sua grandezza e de' suoi progressi. Che se Dio potendo creare un mondo senza colpa, ovvero non crearlo, nondimeno il fece, dall'essenza de' suoi attributi si può dedurre che il rimanere nel nulla, o il divenire a quel modo, era men buono della creazione attuale, non ostante le sue imperfezioni. Ma quante cose appaiono disordine a prima giunta che nol sono, e divengono ordine rispetto al tutto? Quante mostrano dissolversi e perire che solo si trasformano in più perfette? Quante dan sembianza di una pugna, che poi si risolve in scambievole accordo? Narrasi che Alfonso re d'Aragona, quegli che promosse le tavole astronomiche, liando parlasse, che se nella fattura del mondo Iddio lo avesse chiamato a consiglio, si affidava di suggerirgli una migliore distribuzione degli astri. Re Alfonso non sapeva appagarsi del sistema tolemaico; ma se avesse presentito il sistema copernicano e le scoperte di Keplero e di Newton, avrebbe dovuto confessare che nulla può immaginarsi di più ordinato e di più stupendo. Tuttavia non si può avere del male una spiegazione adeguata, senza concepire una vita futura dove siano risolute tutte

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