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della sicurtà o del timore suo. Perchè di ventisei Imperadori che furono da Cesare a Massimino, sedici ne furono ammazzati, dieci morirono ordinariamente; e se di quelli che furono morti ve ne fu alcuno buono, come Galba e Pertinace, fu morto da quella corruzione che lo antecessore suo aveva lasciata ne' soldati. E se tra quelli che morirono ordinariamente ve ne fu alcuno scellerato come Severo, nacque da una sua grandissima fortuna e virtù, le quali due cose pochi uomini accompagnano. Vedrà ancora per la lezione di questa istoria come si può ordinare un Regno buono; perchè tutti gl' Imperadori, che succederono all' Imperio per eredità, eccetto Tito, furono cattivi, quelli che per adozione, furono tutti buoni, come furono quei cinque da Nerva a Marco. E come l' Imperio cadde negli eredi, ei ritornò nella sua rovina. Pongasi adunque innanzi un Principe i tempi da Nerva a Marco, et conferiscagli con quelli che erano stati prima, e che furono poi ; e dipoi elegga in quali volesse esser nato, o a quali volesse esser preposto. Perchè in quelli governati da' buoni, vedrà uu Principe sicuro in mezzo de' suoi sicuri cittadini, ripieno di pace e di giustizia il mondo, vedrà il Senato con la sua

autorità, i magistrati coi suoi onori, godersi i cittadini ricchi le loro ricchezze, la nobiltà e la virtù esaltata, vedrà ogni-quiete, ed ogni bene; e dall'altra parte, ogni rancore, ogni licenza, corruzione e ambizione spenta, vedrà i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e difendere quella opinione che vuole. Vedrà in fine trionfare il mondo, pieno di riverenza e di gloria il Principe, d'amore e di sicurtà i popoli. Se considererà dipoi tritamente i tempi degli altri Imperadori, gli vedrà atroci per le guerre, discordi per le sedizioni, nella pace e nella guerra crudeli, tanti Principi morti col ferro, tante guerre civili, tante esterne, l'Italia afflitta, e piena di nuovi infortunj, rovinate e saccheggiate le città di quella. Vedrà Roma arsa, il Campidoglio dai suoi cittadini disfatto, desolati gli antichi templi, corrotte le cerimonie, ripiene le città di adulterj, vedrà il mare pieno di esilj, gli scogli pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire innumerabili crudeltadi; e la nobiltà, le ricchezze, gli onori, e sopra tutto la virtù essere imputata a peccato capitale. Vedrà premiare li accusatori, essere corrotti i servi contro al signore, i liberti contro al padrone, e quelli a chi fussero mancati i

nimici, essere oppressi dagli amici. E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia, e il mondo abbia con Cesare. E senza dubbio se e' sarà nato d'uomo si sbigottirà da ogni imitazione dei tempi-cattivi, e accenderassi d' uno immenso desiderio di seguire i buoni. E veramente cercando un Principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per riordinarla come Romolo. E veramente i cieli non possono dare agli uomini maggiore occasione di gloria, nè li uomini la possono maggiore desiderare. E se a volere ordinare bene una città, si avesse di necessità a deporre il principato, meriterebbe quello che non la ordinasse per non cadere di quel grado, qualche scusa. Ma potendosi tenere il principato e ordinarla, non si merita scusa alcuna. E in somma considerino quelli a chi i cieli danno tale occasione, come sono loro proposte due vie; l'una che gli fa vivere sicuri, e dopo la morte gli rende gloriosi; l'altra gli fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di se una sempiterna infamia.

CAPITOLO UNDECIMO.

Della Religione de' Romani

Ancorachè Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da quello abbi a riconoscere come figliuola il nascimento e la educazione sua, nondimeno giudicando i cieli che gli ordini di Romolo non bastavano a tanto Imperio, messono nel petto del Senato Romano di eleggere Numa Pompilio per successore a Romolo, acciocchè quelle cose che da lui fossero state lasciate in dietro, fossero da Numa ordinate. Il quale trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle ubbidienze civili con le arti della pace, si volse alla Religione, come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà, e la costituì in modo, che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella Repubblica; il che facilitò qualunque impresa, che il Senato o quelli grandi uomini Romani disegnassero fare. E chi discorrerà infinite azioni, e del popolo di Roma tutto insieme, e di molti dei Romani di per se, vedrà come quelli cittadini temevano più assai rompere il giura

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mento che le leggi, come coloro che stimavano più la potenza di Dio, che quella degli uomini, come si vede manifestamente per gli esempi di Scipione e di Manlio Torquato; perchè dopo la rotta che Annibale aveva dato a'Romani a Canne, molti cittadini si erano adunati insieme, e sbigottiti e paurosi si erano convenuti abbandonare l'Italia, e girsene in Sicilia; il che sentendo Scipione, gli andò a trovare, e col ferro ignudo in mano gli costrinse a giurare di non abbandonare la patria. Lucio Manlio, padre di Tito Manlio, che fu dipoi chiamato Torquato, era stato accusato da Marco Pomponio Tribuno della plebe, e innanzi che venisse il dì del giudizio, Tito andò a trovar Marco, e minacciando d'ammazzarlo se non giurava di levare l'accusa al padre, lo costrinse al giuramento, e quello per timore, avendo giurato, gli levò l'accusa. E così quelli cittadini, i quali l'amore della patria e le leggi di quella non ritenevano in Italia, vi furon ritenuti d'uno giurato che furono forzati a pigliare; e quel Tribuno pose da parte l'odio che egli aveva col padre, la ingiuria che gli aveva fatta il figliuolo, e l'onore suo, per ubbidire al giuramento preso; il che non nacque da al

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