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Quando risposi, cominciai: O lasso,

Quanti dolci pensier, quanto disio
Menò costoro al doloroso passo!

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Poi mi rivolsi a loro, e parla' io,

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E cominciai: Francesca, i tuoi martiri

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Al lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri,
A che e come concedette amore,
Che conoscesti i dubbiosi desiri?
Ed ella a me: Nessun maggior dolore,
Che ricordarsi del tempo felice

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Nella miseria; e ciò sa il tuo dottore.

Ma se a conoscer la prima radice

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Del nostro amor tu hai cotanto affetto,
Farò come colui che piange e dice.
Noi leggevamo un giorno per diletto

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Di Lancelotto, come amor lo strinse:
Soli eravamo e senza alcun sospetto.

Per più fïate gli occhi ci sospinse

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Quella lettura, e scolorocci il viso:

Ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso

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Esser baciato da cotanto amante,

Questi, che mai da me non fia diviso,

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L'altro piangeva sì, che di pietade Io venni meno sì com'io morisse; E caddi, come corpo morto cade.

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A

L tornar della mente, che si chiuse
Dinanzi alla pietà de' due cognati,
Che di tristizia tutto mi confuse,

Nuovi tormenti e nuovi tormentati
Mi veggio intorno, come ch'io mi mova,
E ch'io mi volga, e come ch'io mi guati.
Io sono al terzo cerchio della piova

Eterna, maledetta, fredda e greve:
Regola e qualità mai non l'è nuova.

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Grandine grossa, e acqua tinta, e neve
Per l'aer tenebroso si riversa:
Pute la terra che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa,

Con tre gole caninamente latra

Sopra la gente che quivi è sommersa.

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Gli occhi ha vermigli, la barba unta ed atra,
E il ventre largo, e unghiate le mani;
Graffia gli spiriti, scuoia, ed isquatra.
Urlar gli fa la pioggia come cani:

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Dell'un de' lati fanno all'altro schermo;
Volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo
Le bocche aperse, e mostrocci le sanne:
Non avea membro che tenesse fermo.
E il duca mio distese le sue spanne;

Prese la terra, e con piene le pugna
La gittò dentro alle bramose canne.
Qual è quel cane che abbaiando agugna,
E si racqueta poi che il pasto morde,
Che solo a divorarlo intende e pugna;

Cotai si fecer quelle facce lorde

Dello demonio Cerbero che introna
L'anime sì, ch'esser vorrebber sorde.

Noi passavam su per l'ombre che adona
La greve pioggia, e ponevam le piante
Sopra lor vanità che par persona.
Elle giacean per terra tutte e quante,
Fuor ch'una che a seder si levò, ratto
Ch'ella ci vide passarsi davante.

O tu, che se' per questo inferno tratto,
Mi disse, riconoscimi, se sai:
Tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto.

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Ed io a lei: L'angoscia che tu hai
Forse ti tira fuor della mia mente,

Sì che non par, ch'io ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se', che in sì dolente
Loco se' messa, ed a sì fatta pena,
Che s'altra è maggio, nulla è sì spiacente.
Ed egli a me: La tua città, ch'è piena
D'invidia sì, che già trabocca il sacco,

Seco mi tenne in la vita serena.
Voi, cittadini, mi chiamaste Ciacco:
Per la dannosa colpa della gola,

Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco;

Ed io anima trista non son sola,

Chè tutte queste a simil pena stanno Per simil colpa: e più non fe' parola. Io gli risposi: Ciacco, il tuo affanno

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Mi pesa sì, che a lagrimar m'invita: Ma dimmi, se tu sai, a che verranno Li cittadin della città partita?

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S'alcun v'è giusto: e dimmi la cagione
Perchè l'ha tanta discordia assalita.

Ed egli a me: Dopo lunga tenzone

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Aerran no al sangue, la parte selvaggia
Caccerà l'altra con molta offensione.

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Come che di ciò pianga, e che ne adonti. Giusti son due, ma non vi sono intesi:

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Superbia, invidia ed avarizia sono
Le tre faville che hanno i cori accesi.

Qui pose fine al lagrimabil suono.

Ed io a lui: Ancor vo' che m'insegni,

E che di più parlar mi facci dono.
Farinata e il Tegghiaio, che fur si degni,
Jacopo Rusticucci, Arrigo e il Mosca,
E gli altri che a ben far poser gl'ingegni,
Dimmi ove sono, e fa ch'io li conosca;

Chè gran desio mi stringe di sapere,

Se il ciel gli addolcia o lo inferno gli attosca.
E quegli: Ei son tra le anime più nere;

Diversa colpa giù li grava al fondo:
Se tanto scendi, li potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
Pregoti che alla mente altrui mi rechi:
Più non ti dico e più non ti rispondo.
Gli diritti occhi torse allora in biechi:
Guardommi un poco, e poi chinò la testa:
Cadde con essa a par degli altri ciechi.
E il duca disse a me: Più non si desta
Di qua dal suon dell'angelica tromba;
Quando verrà la nimica podesta,
Ciascun ritroverà la trista tomba,

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Ripiglierà sua carne e sua figura,

Udirà quel che in eterno rimbomba.

Si trapassammo per sozza mistura

Dell'ombre e della pioggia, a passi lenti,
Toccando un poco la vita futura:
Perch'io dissi: Maestro, esti tormenti
Cresceranno ei dopo la gran sentenza,
O fien minori, o saran sì cocenti?
Ed egli a me: Ritorna a tua scienza,

Che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
Più senta il bene, e così la doglienza.

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