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DELLA

LETTERATURA ITALIANA.

Groj 2

SECOLO DECIMOQUINTO.

NOTIZIE STORICHE.

La morte di Gian Galeazzo Visconti duca di Milano (3 settembre 1402) mutò la condizione delle cose, e fors' anche i destini dell'Italia superiore: la quale pareva prossima a unirsi e quietare nel dominio di un solo, e fu in quella vece più che mai divisa, sconvolta da guerre intestine, e corsa da eserciti forestieri.

Cagione di questi mali fu innanzi tutto lo stesso Visconti, che divise il suo Stato, e ne assegnò una parte al primogenito Giovanni Maria colla città di Milano e il titolo di Duca, un'altra parte al secondogenito Filippo Maria col nome di Conte di Pavia, e la città di Pisa con altre terre a Gabriele suo legittimato. Oltracciò, per la giovinezza di questi eredi, bisognò commettere i pubblici affari ad una Reggenza; alla quale Gian Galeazzo medesimo deputò alcuni de' suoi consiglieri e generali, facendone capo sua moglie Caterina. Costoro furono ben presto discordi; e Caterina acerebbe quel male secondando l'arroganza di Francesco Barbavara, pochi anni addietro cameriere del duca, ma allora tanto innanzi con lei, che disponeva di ogni cosa a suo arbitrio.

Già subito dopo la morte di Gian Galeazzo i Fiorentini, collegati con papa Bonifazio IX (Pietro Tommacelli, 1389-1404), avevano obbligata la Reggenza a cedere Bologna, Perugia ed Assisi. Le discordie intestine poi incoraggiarono parecchie città lombarde a liberarsi; e la pertinacia di Caterina a favorire il Barbavara fu cagione che i condottieri delle milizie, per non rovinare con lei, voltisi al privato vantaggio, usurpassero quelle provincie che avrebbero dovuto difendere. In breve ai figli di Gian Galeazzo rimasero le sole città di Milano e Pavia; nè quivi pure poterono

dirsi padroni e sicuri: perchè in Pavia prevalevano i Beccaria coi loro fautori: in Milano una parte della cittadinanza, dicendosi guelfa, sosteneva colle armi le pretensioni di Caterina; la quale poi, vinta e imprigionata in Monza, finì di vivere il giorno 17 ottobre 1404, secondo alcuni di angoscia e terrore, secondo altri di veleno.

Giovanni Maria, principe crudele ed inetto, faceva sbranare da mastini a ciò ammaestrati chiunque venivagli in odio, e comportava frattanto che lo Stato fosse in balia d' uomini ambiziosi, ai quali non aveva nè coraggio nè abilità di opporsi; e mentre con oltraggi incessanti attiravasi l'odio delle principali famiglie, perdeva sempre più l'amore del popolo, che i disordini del suo governo rendevano infelicissimo. Però alcuni giovani d'alta condizione, parenti delle vittime da lui sacrificate, gli congiurarono contro e l'uccisero (16 maggio 1412) nella chiesa di San Gottardo: e il popolo, senza curarsi di lui, corse ad uccidere Squarcia Girami suo canettiere, e stromento delle sue crudeltà.

Nel medesimo giorno morì in Pavia anche il più fortunato e forse il più accorto tra i condottieri di Gian Galeazzo, cioè Facino (Bonifacio-Bonifacino) Cane, che da qualche tempo aveva saputo far sì che tutti e due i fratelli Visconti lo eleggessero governatore dei loro Stati: perciò nel tempo del quale parliamo avrebbe potuto osare qualche gran cosa, se la morte non lo avesse tolto di mezzo.

Filippo Maria assunse immantinente il titolo di Duca. In Milano per altro erano intanto gridati Signori Ettore e Gian Carlo Visconti, il primo figliuolo naturale, il secondo nipote di Bernabò; ed anche in Pavia facevano i Beccaria ogni sforzo per volgere a loro profitto quell'improvviso disordine. Per sottrarsi a tante difficoltà Filippo Maria sposò Beatrice Lascari contessa di Tenda, vedova di Facino Cane; del quale così, sotto nome di dote, creditò i possessi, le ricchezze, e fin anco gli ufficiali e i soldati. In poco tempo, coll' opera principalmente di Francesco Bussone, uscito, come Muzio Attendolo, da famiglia di contadini, e nato a Carmagnola nel 1390, riacquistò gran parte di quello che avevano posseduto i suoi antenati. Ricuperata la Lombardia, e compostosi con Firenze e Venezia, che sole gli si potevano opporre, volse i suoi pensieri a Genova, datasi nella fine del secolo scorso al re di Francia, deludendo le arti e le speranze di Gian Galeazzo. Il re francese vi aveva mandato (1401) come suo luogotenente il maresciallo Gian Francesco di Boucicaut; il quale, comportandosi da tiranno, diventò odiosissimo: e nondimeno, quando in Milano cominciarono le discordie e le gare già mentovate, Giovanni Maria aveva creduto di poter trovare in lui un sostegno; ed egli aveva accolto l'invito, e vi era accorso col meglio delle sue milizie in qualità di Governatore. Genova, traendo profitto da quell' assenza, ne uccise il Vicario, e si dichiarò indipendente; e il Boucicaut, non potendo

nè riacquistare quella città nè tenere Milano, aveva dovuto ritornarsene scornato in Francia. Ma i Genovesi ricaddero tosto nelle antiche loro discordie: e le fazioni che successivamente prevalsero indebolirono lo Stato per tal maniera, che nel 1421 dovettero vendere Livorno ai Fiorentini collegatisi contro di loro col nuovo duca di Milano, sottomettersi al Duca stesso, e ricevere il conte di Carmagnola come suo rappresentante (28 ottobre 1421).

Durò ancora per qualche tempo la prosperità di Filippo Maria; nè da altro poi che dalla sua stolta ingratitudine fu interrotta. Già nell'anno 1418 (13 settembre), recatosi a noia la moglie, principio di tutta la sua fortuna, l'aveva fatta ignominiosamente morire, accusandola d'infedeltà con un paggio di nome Michele Orombello. Ora poi, abbandonatosi alle suggestioni di parassiti e di astrologi, coi quali era solito vivere, diventò sospettoso del Carmagnola: il quale non volendo tollerare l'ingratitudine e sapendo fin dove avrebbe potuto trascorrere quel tiranno, allontanossi repentinamente da lui, per mettersi al soldo della repubblica di Venezia. Le vittorie del Carmagnola si stesero in breve fino a Brescia ed a Bergamo la repubblica veneta parve in procinto di far sua tutta la Lombardia pel valore e la felicità di quel condottiero. Ma dopo una segnalata battaglia vinta a Maclodio (11 ottobre 1427) il Carmagnola rimandò liberi ottomila prigionieri, che riforniti di armi ritornarono in campo. Questa, forse non altro che generosità militare allora in uso, parve al senato veneto sempre sospettoso un indizio di mutata fede; e poichè le sorti della guerra dopo quel fatto non corsero più così prospere come prima, il sospetto diventò sempre maggiore: il Carmagnola, chiamato a Venezia sotto onorevol pretesto, fu invece accusato di tradimento e decapitato (5 maggio 1432); nė abbiamo certezza se fosse reo; i più autorevoli lo ritengono innocente.

Filippo Maria, abbandonato dal Carmagnola, gli aveva sostituito Francesco Sforza, figlio di Muzio Attendolo: del quale dovremo parlare più sotto, bastandoci dire per ora che il duca fu ingrato anche verso di lui; e costringendolo a cercare salvezza presso i suoi nemici, ridusse più volte sè stesso in termine di perdere ogni cosa. E così sospettando sempre di tutti, e pur costretto per la sua inettezza a fidarsi di qualcheduno, continuò malamente la sua signoria fino all'anno 1447, nel quale cessò di vivere il giorno 17 agosto. Di due mogli (Beatrice di Tenda e Maria di Savoia) non ebbe alcun figlio; però fu l'ultimo dei Visconti; e i possessi di questa casa passarono, come diremo tra breve, a Francesco Sforza; al quale Filippo Maria aveva data in moglie una sua figlia naturale per nome Bianca, avuta dalla sua amante Agnese Del Maino.

Già s'è veduto come per la poca prudenza di Urbano VI (il quale fu papa dal 1378 al 1389) avesse potuto sorgere un antipapa (Clemente VII; di che la Chiesa fu lungamente disordinata e divisa

per quello che fu detto il grande scisma occidentale ». Indarno i Concilj di Pisa e di Costanza (dal 1409 al 1418) studiaronsi di metter fine allo scandalo si videro in un medesimo tempo tre o quattro assumere il nome di papa; si videro due adunanze di prelati contemporanec, l'una in Basilea (1431-1449), l'altra in Ferrara, arrogarsi il titolo di Concilio generale. Nè prima del 1449 potè esservi un pontefice riconosciuto universalmente e senza competitori, nella persona di Tomaso Parentucelli di Sarzana, già precettore di lettere a Firenze nelle case degli Albizi e degli Strozzi, che prese il nome di Nicolò V, e fu munifico protettore di letterati e di artisti, dando opera efficacissima al risorgimento degli studj. Per tutto quel tempo è naturale che la Romagna non fosse nè quieta nè rispettata. Ladislao re di Napoli, aspirando (come già Roberto e Gian Galeazzo Visconti) a far sua tutta Italia, giunse fin anche a impadronirsi di Roma (1404). Il pontefice, o piuttosto uno tra i pretendenti al pontificato, Giovanni XXIII (Baldassare Cossa, napoletano), chiamò in Italia Luigi II d'Angiò, col quale si unì anche la repubblica fiorentina per desiderio di allontanare da' suoi confini un principe di si pericolosa ambizione qual era Ladislao; ma benchè questi non potesse vincere si gran contrasto, e dovesse abbandonare i luoghi occupati, vide poi l'Angioino costretto a ricondursi oltre l'Alpi senza alcun frutto: perciocchè i Genovesi, che allora appunto s'erano liberati dal Boucicaut, aderirono a Ladislao per impedire che fosse in Italia un potentato francese; Giovanni XXIII non si curò più di Luigi dopo che i primi successi gli ebbero aperta la via di Roma; nè i Fiorentini ebbero voglia di continuare una guerra, che non era più necessaria e riusciva loro dispendiosissima, perchè dovevano sostenerla con milizie mercenarie. Ladislao adunque conservò il suo regno: nè tardò poi a ripigliare le armi contro il papa Giovanni, benchè lo avesse riconosciuto pur dianzi, ed occupò Roma di nuovo (1408). Non si astenne altresì dal muover guerra ai Fiorentini; nè può dirsi quale sarebbe stato il fine delle sue imprese (era solito dire: aut Cæsar, aut nihil), se non le avesse improvvisamente interrotte la morte il 6 agosto del 1414, quando egli era nel fiore degli anni e la fortuna arrideva a' suoi ambiziosi disegni.

A Ladislao successe la sorella Giovanna, seconda di cotal nome in quel regno: la quale, trovandosi allora vedova senza figliuoli di Guglielmo d'Austria, prese per secondo marito (1415) Giacomo di Borbone dei reali di Francia, non di sua volontà, ma costretta da' baroni e dai nobili, che sperarono distorla cosi da Pandolfello Alopo, giovane di bassa origine e di più bassi costumi, di cui essa (già matura di quarantasei anni) era perdutamente invaghita. Giacomo ebbe titolo e onori di re, senza che Pandolfello perdesse il favore e la potenza di prima e gli era sostegno Muzio Attendolo Sforza da Cotignola, nato umilmente al pari di lui come già accennammo, ma ormai famoso e temuto condottiero, e marito di

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