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Farai i vincitori correnti con i capelli e altre cose leggiere sparse al vento, con le ciglia basse, e caccino contrarie membra innanzi, cioè se manderanno innanzi il piè destro, che il braccio manco ancor esso venga innanzi; e se farai alcuno caduto, gli farai il segno dello sdrucciolare su per la polvere condotta in sanguinoso fango, ed intorno alla mediocre liquidezza della terra farai vedere stampate le pedate degli uomini e de'cavalli di lì passati. Farai alcuni cavalli strascinar morto il lor signore, e di dietro a quello lasciare per la polvere ed il fango il segno dello strascinato corpo. Farai i vinti e battuti pallidi, con le ciglia alte nella loro congiunzione, e la carne che resta sopra di loro sia abbondante di dolenti crespe. Le faccie del naso sieno con alquante grinze, partite in arco dalle narici, e terminate nel principio dell'occhio. Le narici alte, cagione di dette pieghe, e le labbra arcuate scoprano i denti di sopra. I denti spartiti in modo di gridare con lamento. Una delle mani faccia scudo ai paurosi occhi, voltando il di dentro verso il nemico, l'altra stia a terra a sostenere il levato busto. Altri farai gridanti con la bocca sbarrata, e fuggenti. Farai molte sorte d'armi infra i piedi de combattitori, come scudi rotti, lance, spade rotte, ed altre simili cose. Farai uomini morti, alcuni ricoperti mezzi dalla polvere, ed altri tutti. La polvere che si mischia con l'uscito sangue convertirsi in rosso fango, e vedere il sangue del suo colore correre con torto corso dal corpo alla polvere. Altri morendo stringere i denti, stravolgere gli occhi, stringer le pugna alla persona, e le gambe storte. Potrebbesi vedere alcuno, disarmato ed abbattuto dal nemico, volgersi a detto nemico, e con morsi e graffi far crudele ed aspra vendetta. Potriasi vedere alcun cavallo leggiero correre con i crini sparsi al vento fra i nemici, e con i piedi far molto danno, e vedersi alcuno stroppiato cadere in terra, farsi coperchio col suo scudo, ed il nemico chinato in basso far forza per dargli morte. Potrebbersi vedere molti uomini caduti in un gruppo sopra un cavallo morto. Vedransi alcuni vincitori lasciare il combattere, ed uscire della moltitudine, nettandosi con le mani gli occhi e le guance, ricoperti di fango, fatto dal lacrimar dell'occhio per causa della polvere. Vedransi le squadre del soccorso star piene di speranza e di sospetto, con le ciglia aguzze, facendo a quelle ombra colle mani, e riguardare infra la folta e confusa caligine per essere attente al comandamento del capitano; il quale potrai fare col bastone levato, e corrente inverso al soccorso mostrandogli la parte, dov'è bisogno di esso. Ed alcun fiume, dentrovi cavalli correnti, riempiendo la circostante acqua di turbolenza d'onde, di schiuma e d'acqua confusa saltante inverso l'aria, e tra le gambe e i corpi de cavalli. E non far nessun luogo piano, senza le pedate ripiene di sangue. (Dal Trattato della Pittura, Roma, Unione cooperat. edit., 1890, pag. 61 e segg.)

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ANGELO POLIZIANO.

Angelo Poliziano (Politianus ei si chiamò dal luogo di nascita) nacque in Montepulciano il 14 luglio del 1454, maggiore di cinque figli di Benedetto Ambrogini dottore in legge e di Antonia Salimbeni. Mandato a studiare in Firenze frequentò lo Studio (dal 1469) ed ebbe maestri il Landino, il Ficino, l'Argiropulo, Andronico di Tessalonica ed altri. Presentato a Piero de' Medici, fu da lui dato compagno di studj al figlio Lorenzo, che gli era maggiore di sei anni. Lorenzo divenne amico e protettore del Poliziano e gli affidò poi l'educazione del proprio figlio Piero; ed egli a tutta la famiglia de' Medici restò sempre affezionatissimo. A ventisei anni diventò professore di eloquenza latina e greca nello Studio fiorentino, e vide le sue lezioni (1480-94) frequentate da eletto pubblico e anche da quelli che gli erano stati maestri. Nel 1485 andò con Piero de' Medici oratore a Innocenzo VIII, il quale gli commise

alcune traduzioni dal greco; ed egli a lui dedicò (1487) la traduzione delle storie di Erodiano. Godè di benefizj e prebende ecclesiastiche, ma non fu mai sacerdote: priore secolare di San Paolo, nel 1486 fu fatto canonico della Metropolitana in quel canonicato stesso del quale poi (1533) fu investito il Berni: forse sarebbe stato creato cardinale se non fosse morto così immaturamente. Vagheggiò la giovinetta Ippolita Leoncina da Prato, e la poetessa Alessandra figlia di Bartolommeo Scala, che fu dipoi sposa di Michele Marullo. Ebbe favori e segni di benevolenza da Mattia Corvino re d'Ungheria, da Ludovico Sforza e da altri principi; fu amico di Luigi Pulci e di Pico della Mirandola. Ebbe anche molte inimicizie, e dove sostenere fiere controversie, che cadono negli ultimi anni della sua vita, con Giorgio Merula, con Bartolommeo Scala,* col Marullo, col Lascaris e con altri. Restano anche due velenosi epigrammi del Sannazaro contro di lui. Mori il 28 settembre

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1 Vedi per la serie dei corsi filologici del P., I. DEL LUNGO, Florentia, Firenze, G. Barbèra, 1897, pag. 176.

2 Vedi I. DEL LUNGO, Tra lo Scala e il Pol., in Miscell. stor. della Valdelsa, IV, pag. 179 80.

del 1494, e fu sepolto, vestito dell'abito domenicano, nel cimitero della chiesa di San Marco.1

Tra il 1459 e il '70 attese alla traduzione dell' Iliade in esametri latini, vincendo quanti precedentemente vi si erano provati. Cominciò seguitando l'opera del Marsuppini dal secondo libro, e poi tradusse anche i tre seguenti dedicandoli a Lorenzo de' Medici. Per tal lavoro fu chiamato dal Ficino omerico giovinetto. Tra il 1470 e il '78 compose anche poesie latine e greche (ricordiamo particolarmente l'elegia in morte di Albiera degli Albizzi), alcune all'improvviso; in latino lasciò anche Epistolæ, Coniurationis Pactianæ Commentarium (1478), Prælectiones, delle quali le quattro Silvæ in esametri (1482-1486). E poi, Miscellanea (la prima centuria fu stampata nel 1489), raccolta di osservazioni e controversie desunte dalle lezioni, che attesta il valore suo grande nella critica filologica. E veramente al rinnovato studio de' classici e dell'antichità ei contribui molto e si dedicò tutto con emendazioni di codici, con collezioni d'iscrizioni, di monete. Promosse anche gli studj giuridici coi suoi lavori sul famoso codice fiorentino delle Pandette. Tradusse pure in latino da Mosco, Callimaco e da altri poeti greci e fece latine, come dicemmo, le storie di Erodiano.* Tra coloro che scrissero in greco e in latino è uno de' più eccellenti, e pure imitando largamente seppe essere spesso nuovo ed originale. Ci restano di lui anche i latini con i volgari corrispondenti dettati a Piero de' Medici (1481), e il prologo ai Menæchmi, rappresentati in Firenze il 12 maggio 1488.

« A requisizione del cardinale mantovano (Francesco Gonzaga) in tempo di dui giorni, in tra continui tumulti, in stilo vulgare, perchè dagli spettatori meglio fosse intesa », come dice in una lettera a messer Carlo Canale, compose La fabula di Orfeo. Fu recitata tra il 18 e il 20 o 22 luglio 1471 in Mantova, in occasione della venuta del duca Galeazzo Maria Sforza. Ne rimangono due lezioni: la prima, sola sicuramente del Poliziano, stampata per la prima volta nel 1494 il 9 agosto (Bologna, per i torchi di Platone de' Benedetti). Nel 1766 il P. Ireneo Affò pubblicò a Venezia la seconda forma dal titolo: Orphei tragœdia, divisa in cinque atti: e in tal modo si crede fosse rimaneggiata da Antonio Tebaldeo. Nella rappresentazione di Mantova ebbero parte Baccio Ugolini (Orfeo) e uno schiavone della corte. Dell'ode saffica latina cantata da Orfeo

1 Vedi I. DEL LUNGO, op. cit., pag. 187, 275-79.

2 Ne abbiamo una recente traduz. italiana di L. GRILLI, Città di Castello, Lapi, 1902.

3 Vedi F. BUONAMICI, Il P. giureconsulto, Pisa, Nistri, 1863.

Vedi A. RUBEGA, Studio sulla vers. lat. di Erodiano fatta da A. P., Venezia, Cordella, 1897.

5 Per lo stile del P., vedi R. SABBADINI, nella Storia del ciceronianismo, Torino, Loescher, 1886, pag. 32; L. DOREZ, L'hellénisme d'A. P., în Melang. d'archéol. et d'histoire, Paris, 1894.

era scritta e non fu recitata allora che la prima strofa. La Favola d'Orfeo mista di ottave e terzine ed altri metri, mantiene l'andamento ordinario delle Sacre Rappresentazioni; l'azione è più narrata che rappresentata: la novità consiste nella scelta d'un argomento profano e mitologico-classico, che accenna alla tendenza di richiamare il teatro italiano alle forme antiche. La maestria dello stile è grande, e con certo sapore dell'ecloghe di Teocrito e di Virgilio. Che dovette esser popolare lo dimostra il fatto che parecchie stanze ne furono introdotte nel poemetto Orfeo dalla dolce lira, il quale ancor oggi si ristampa ad uso del popolo.

Per celebrare la giostra del 28 gennaio 1475, anzichè come alcuno credette quella del 1478, e per intero o in parte dopo il 26 aprile 1476 (giorno della morte di Simonetta Cattaneo amata da Giuliano), cominciò a scrivere le Stanze, delle quali ci rimane il primo libro contenente centoventicinque ottave, e il secondo interrotto alla quarantesimasesta, molto probabilmente a causa della morte di Giuliano, ucciso nella congiura de' Pazzi il 26 aprile 1478. La narrazione della giostra in quel che ci resta non è ancor fatta; vi si racconta invece l'innamoramento di Giuliano per la bella Simonetta. Il legame del racconto è artificioso e puramente esterno; e forse il poemetto, se anche fosse stato condotto a termine, sarebbe stato una serie di episodj, simile alla descrizione in cinquanta stanze della Reggia di Venere, nel quale si sarebbe mostrata tutta la finezza dell'arte e tutta la facoltà assimilatrice dell'autore. Qua e là abilmente si cantano le lodi della casa Medici. Modelli all'autore sono stati Ovidio, Stazio e specialmente Claudiano, che aveva adoperato tutta la mitologia per celebrar feste e solennità nella seconda parte è facile avvertire anche l'esempio del Petrarca. In questa poesia, tutta descrittiva del resto, senza profondità nello studio di caratteri e di sentimenti, la forma è di grande eccellenza e l'ottava vi ha organismo metrico quasi perfetto. Inoltre il Poliziano compose in volgare rispetti, canzoni, ballate, canzonette, strambotti, non tutti però di sicura attribuzione (e quella di alcuni sonetti 2 è dimostrata erronea), con molta maggior grazia del Pulci e del Magnifico trattando con classico magistero la materia popolare, senza volgerla in burla, come gli altri due, ma derivando da sì larga vena motivi e ispirazioni per la sua arte fina ed elegante. Ci restano anche tre Sermoni 3 recitati in una compagnia di dottrina (1467-1478), e lettere familiari.*

1 Vedi B. ZUMBINI, Le stanze del P., in Rass. crit. d. lett. ital., I (1894), pag. 23; E. PROTO, Elementi classici e romanzi nelle stanze del P., in Studi di lett. ital., Napoli, Giannini, I, 318.

2 Vedi F. FLAMINI, in Spigolature d'erudiz. e di critica, Pisa, Mariotti, 1895, pag. 99, e I. DEL LUNGO, op. cit., pag. 446.

3 Vedi anche B. NERI, Un sermone ined. di A. P. (de sacros. Eucharist.

mysterio) tradotto, Montepulciano, Lippi e Bencini, 1902.

Vedi L. DOREZ, Nota su alcune lettere volgari di A. P., in Rass. bibl. d lett. ital., IV, 90.

Il Poliziano ebbe soprattutto il senso dell'arte, e nella sua larga imitazione de' greci, de' latini e degli italiani, dal Guinizelli al Magnifico, seppe, ben diversamente da altri umanisti,' intimamente trasformare ciò che da altri prendeva, e pur imbevuto com'era di cultura classica, riuscì ad esser nuovo e vivo; nè fu, nel suo classicismo, pedantesco, anzi diede insoliti atteggiamenti al volgare, non mortificandone le forze, ma avvalorandole coll' appropriar ad esso i modi classici, da lui e dagli altri umanisti rimessi in onore. Tentò per lo stile poetico quello che il Boccaccio aveva già tentato per la prosa, e già dal suo tempo fu ammirato e imitato; per esempio, dal Sannazaro. Poeta popolare per mero diletto, fu veramente poeta di corte, e l'arte sua nacque e fiori in onore e servizio de' suoi padroni. La sua adulazione può trovare ragione e scusa nell'affetto sincero che ebbe e dimostrò sempre ai Medici, e che questi ebbero per lui.

[Per le Stanze, l'Orfeo e le Rime vedi l'ediz. del CARDUCCI, Barbèra, Firenze, 1863; del CASINI, Firenze, Sansoni, 1885; per le Prose volgari ec. l'ediz. del DEL LUNGO, Firenze, G. Barbèra, 1867. Per la vita, oltre le opere ormai invecchiate del MENCKEN (Lipsia, 1736) e di N. A. BONAFOUS (Paris, Didot, 1845) e oltre ciò che dicono gli storici della letteratura del Quattrocento, il GASPARY, il Rossi, il MONNIER ec., vedi le pref. cit. del CARDUCCI e del DEL LUNGO, e di quest'ultimo gli sparsi scritti polizianeschi raccolti ora nel cit. vol. Florentia.]

L'Orfeo. La Favola è preceduta da due ottave nelle quali Mercurio annunzia la festa; e poi segue un pastore conchiudendo la seconda ottava:

State attenti, brigata. Buono augurio

Poi che di cielo in terra vien Mercurio.

Il pastore Mopso cercando un vitellino smarrito s'incontra in Aristeo e Tirsi. Quest'ultimo va, per comando di Aristeo, in traccia del vitello. Mopso, invitato a rimanere, resta con Aristeo, il quale rivela all'amico com'egli è innamorato di una ninfa veduta da lui il giorno innanzi. Invano il prudente Mopso, a cui amore non è cosa nuova, vorrebbe persuadergli di spegnere, finchè n'è in tempo, la face amorosa: Aristeo non vuole siffatti consigli, anzi lo prega di fargli tenore colla sua zampogna mentre egli canta un' amorosa canzone. Finito il cantare, ecco di ritorno Tirsi che racconta di aver ritrovato il vitello e ravviatolo nella mandra. Indi seguita a dire:

Ma io ho vista una gentil donzella

Che va cogliendo fiori intorno al monte;

1 Vedi G. MAZZONI, Il P. e l'Umanesimo, in Vita ital, del Rinascim., Milano, Treves, 1893, pag. 234.

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