Immagini della pagina
PDF
ePub

dei comici fiorentini: ma quanta conoscenza della sciocchezza e della depravazione umana non v'è da notare nella Mandragola del Machiavelli e quanto brio di dialogo e qual tesoro di lingua viva, non solo in cotesta commedia, ma in quelle del Bibbiena, del D'Ambra, del Cecchi, del Firenzuola, del Grazzini! e in quelle anche di Pietro Aretino, così vivo e potente descrittore di quanto il secolo ha di più corrotto nelle Corti e nei conventi, presso i prelati e fra le cortigiane. Copiosa è pure la schiera dei narratori di novelle; gioconde nel Firenzuola e nel Grazzini, moralizzanti nel Giraldi, di ogni genere e forma nel novelliere del Bandello. Dove poi lasciare quel bizzarro Cellini, così indipendente nella vita dalle norme della comune moralità, come nello scrivere dalle regole della grammatica, e pure narratore così schietto ed efficace? E, d'altro lato, quanta gravità di dottrina e bontà di sentenze nel Cortegiano del Castiglione e nel Galateo del Della Casa! E quanta ricchezza d'indagini nelle Vite di artisti di Giorgio Vasari; del quale i posteri ingrati troppo affettarono disdegnar l'opera, ma che ad ogni modo diede il primo saggio di lavoro in un campo nuovo ed inesplorato! Ogni aspetto della vita, ogni forma del pensiero, ogni atteggiamento del costume è riprodotto pertanto dalla letteratura del secolo XVI. E se spesso la trattazione vi è troppo larga e un po' retorica, e il periodo si svolge con solenne ampiezza, egli è a dire che sia come una veste signorile e ricca, la quale cuopre e drappeggia convenientemente un corpo ben conformato e robusto. Quei nostri vecchi del Cinquecento, avvezzi alle corti imperiale e papale e a quelle dei duchi e signori che ne imitavan la pompa, sdegnavano di mandar fuori le loro scritture in umile farsetto. Non consiglieremmo ai giovani di riprodurre quella forma: ma essa sta bene alla letteratura di quell'età, in che l'Italia, se non era regina negli ordini della politica, era maestra a tutte le genti, in ogni maniera di dottrina e d'arte.

La maggioranza degli scrittori di questo secolo è tuttavia fiorentina, o almeno toscana; ma già si vede dal numero non piccolo di nativi d'altre parti della penisola, quanto si fosse in tutta Italia diffuso uno stesso linguaggio. Il vero è che, sebbene in teorica si facessero gran dispute sul nome e sull'essenza della lingua, anche dai dissenzienti si seguiva, in fin de' conti, l'uso dei fiorentini studiato nei maggiori scrittori, e niuno saprebbe scoprire in che propriamente consista lo scrivere lombardo del Castiglione. E il più perfetto scrittore non toscano di quell' età, e quanto a forma uno dei maggiori del secolo, Annibal Caro, nell'Apologia risolutamente affermò di seguire l'uso di Firenze, e di attingere ad esso la proprietà e vivezza del dettato.

Ma in tanto splendore di cultura, in tanta raffinatezza del costume, e mentre l'arte giungeva al suo fastigio con Michelangiolo e Raffaello, cui fan corona il Tiziano, il Correggio e tanti altri, è doloroso notare come nel secolo XVI cominci e rapidamente

progredisca la decadenza d'Italia: nella vita sociale, per corruzione della coscienza e indebolimento di concetti morali: e di qui, per necessario effetto, negli ordini politici e militari. Questo videro allora due acuti intelletti, italiano l'uno, francese l'altro. Il Machiavelli scriveva già circa il 1520: « Credevano i nostri principi italiani, prima ch'egli assaggiassero i colpi delle oltremontane guerre, che ad uno principe bastasse sapere negli scrittoj pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne' detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d'oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co'sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nell'ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare, se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oracoli; nè si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava. » (Arte della Guerra, in fine.) E poco dopo il Montaigne: « Quand nostre roy Charles huictiesme, quasi sans tirer l'espee du fourreau, se veit maistre du royaume de Naples et d'une bonne partie de la Toscane, les seigneurs de sa suitte attribuerent cette inesperee facilité de conqueste, à ces que les princes et la noblesse d'Italie s'amusoient plus à se rendre ingenieux et sçavants, que vigoreux et guerriers.» (Essais, I, 24, in fine).

Giusto ammaestramento circa i pericoli di una raffinata cultura intellettuale scompagnata dalla rettitudine della vita e dal vigore delle membra: colpe e difetti, che l'Italia dovette scontare con lunghi secoli di obbrobriosa servitù.

[Intorno a questo periodo, oltre alla ricordata Storia del GASPARY, la quale si arresta al capitolo su La commedia, si può vedere, U. A. CANELLO, Storia della lett. ital. nel sec. XVI, Milano, Vallardi, 1880, libro errato nel disegno ma ricco di acute osservazioni, sostituito ora da quello più meditato e ricco, e ordinato meglio, di F. FLAMINI, Il Cinquecento, Milano, Vallardi, 1903. Vedi anche SYMONDS, op. cit., parte II, London, 1881; J. BURCKHARDT, op. cit. a pag. 27; G. ROSCOE, Vita e pontificato di Leone X, trad. con note e documenti da L. BOSSI, Milano, Sonzogno, 1816, vol. 12; e la Vita Italiana del Cinquecento, Milano, Treves, 1894, che contiene le seguenti Conferenze: L. A. FERRAI, Francesco I e Carlo V; E. MASI, Le Riforma in Italia; I. DEL LUNGO, L'Assedio di Firenze; A. JEHAN DE JOHANNIS, Le condizioni dell'Economia politica nel Cinquecento e la Scoperta d'America; G. RONDONI, Siena nel sec. XVI; C. PAOLI, Gli scrittori politici del Cinquecento; G. CARDUCCI, L'Orlando Furioso; E. NENCIONI, Il Tasso; G. MAZZONI, La lirica del Cinquecento; E. PANZACCHI, Raffaello Sanzio da Urbino; A. SYMONDS, Michelangelo; T. SALVINI, Il teatro nel Cinquecento; G. A. BIAGGI, La musica del

252

SECOLO XVI.

NOTIZIE LETTERARIE.

Cinquecento. Per le forme della poesia lirica, vedi A. GRAF, Attraverso il Cinquecento, Torino, Loescher, 1888, e per l'imitazione di quelle in Francia, F. FLAMINI, Studi di stor. letter., Livorno, Giusti, 1895, pag. 197 e segg. Per il teatro, il vol. II, pag. 61 e segg. delle cit. Origini del Teatro di A. D'ANCONA; non che V. DE AMICIS, L'imitaz. latine nella comm. ital. del XVI secolo, Pisa, Nistri, 1871 (2a ediz., Firenze, Sansoni, 1897) e A. AGRESTI, Studi sulle comm. ital. del sec. XVI, Napoli, tip. Univers., 1871 (cfr. A. D'ANCONA, in Nuov. Antol. del 1871, pag. 669); G. B. PELLIZZARO, La comm. del sec. XVI, Vicenza, Raschi, 1901, e G. A. GALZIGNA, Fino a che punto i commediogr. del Risorgim. abbiano imitato Plauto e Terenzio, Capodistria, Cobol, 1889: sui quali vedi V. CIAN, in Rass. bibliogr. d. lett. ital., X, 17, e A. SALZA in Giorn. stor. d. lett. ital., XL, 397 e segg.; M. BIANCALE, La tragedia ital. nel Cinq., Roma, tip. Capitolina, 1901 (cfr. F. NEGRI, in Giorn. stor. d. lett. ital., XLI, 147). - Per le controversie sulla lingua, A. CRIVELLUCCI, Le controversie della lingua nel Cinq., Sassari, Dessì, 1880; V. VIVALDI, Una polemica nel Cinq., Napoli, Morano, 1891, e Le controversie int. alla nostra lingua, Catanzaro, Caliò, 3 vol., 1894-97; L. LUZZATTO, Pro e contro Firenze, Saggio storico sulla polemica della lingua, Verona, Drucker, 1893. - Per la controversia del primato fra l'Ariosto e il Tasso, vedi V. VIVALDI, La più grande polemica del 500, Catanzaro, Caliò, 1895. Per la produzione letteraria del secolo, è da consultare specialmente S. BONGI, Annali di Gabriele Giolito de' Ferrari, Roma, 1891-95.-Per la storia dell'Arte, E. MüNTZ, Hist. de l'Art pendant la Renaissance, vol. II, III. Paris, Hachette, 1891-95; J. BURCKHARDT, Der Cicerone, Leipzig, 1893.]

[ocr errors]

253

GALEAZZO DI TARSIA.

I Tarsia erano un'illustre famiglia cosentina. Si fa questione se le rime che vanno sotto il nome di Galeazzo di Tarsia sieno di Galeazzo II il Reggente, IV barone di Belmonte, o di Galeazzo III il Tiranno, VI barone di Belmonte, nato in Napoli nel 1520, morto a Cosenza nel 1553, e che fu condannato alla deportazione a Lipari per abuso d'autorità baronale. Il primo, che è più probabilmente il poeta, nacque in Cosenza nel 1450 circa, di Jacopo e di Giovanna Cavalcanti; nel 1505 successe come barone al padre; nel 1509 fu creato Reggente della Vicaria. Fu gran partigiano degli Aragonesi, e solo nel 1505 accettò, morto ormai l'ultimo Aragonese, la riconferma de' feudi da Ferdinando il Cattolico. Amò varie donne, e tra queste, secondo la tradizione, Vittoria Colonna e una ch'egli chiama giovinetta schiva ». Morì nel 1513. Le rime che restano, e forse non le sole che compose Galeazzo di Tarsia, sono per la maggior parte di soggetto amoroso: alcune tenerissime alla moglie, che pianse morta; qualcuna poi di argomento politico. Il tono e i motivi sono petrarcheggianti, ma spesso con variazioni originali ed efficaci (1a ediz., Napoli, Vitali, 1617).

2

Sostenne l'opinione che il poeta fosse Galeazzo III specialmente FRANCESCO BARTELLI, che curò una nuova edizione del Canzoniere; l'altra opinione, che ci par preferibile, fu difesa in varie scritture da STANISLAO DE CHIARA, G. d. T., Cosenza, Principe, 1885, e Un altro testamento di G. III di T., Campobasso, Colitti, 1888, e da LUCIO GEREMIA DE' GEREMEI, G. di T. cosentino o napolitano?, Napoli, Priore, 1888, e G. d. T. poeta e reggente, Napoli, 1889.3

All'Italia tornando di Francia.

Già corsi l'Alpi gelide e canute,
Mal fida siepe a le tue rive amate:
Or sento, Italia mia, l'aure odorate,
E l'äer pien di vita e di salute.

Quante m'ha dato Amor, lasso! ferute,
Membrando la fatal vostra beltate,
Chiuse valli, alti poggi ed ombre grate,
Da' ciechi figli tuoi mal conosciute!

1 Vedi R. MAZZONE, Il primo amore di G. di T., in Helios, Castelvetrano, 1899.

2 Cosenza, Vetere, 1888 (cfr. Giorn. stor. d. lett. ital., XII, 279 e 483). 3 Vedi anche Arch. stor. Campano, anno I, fasc. II: Intorno ai due Ga

leazzi di Tarsia; disamina sulle più recenti pubblicazioni.

O felice colui che un breve e colto
Terren fra voi possiede, e gode un rivo,
Un pomo, un antro e di fortuna un volto.
Ebbi i riposi e le mie paci a schivo
(0 giovanil desio fallace e stolto!):
Or vo piangendo, che di lor son privo.

NICCOLÒ MACHIAVELLI.

Nacque ai 3 maggio 1469, in Firenze; tiglio di Bernardo giureconsulto, e di Bartolommea de' Nelli ved. Benizzi, di famiglia antica e che aveva dato molti magistrati alla Repubblica, oriunda del contado di Montespertoli. Non sappiamo nulla della sua giovinezza, nella quale dovette pure frequentare scuole e maestri per procu

rarsi la cultura, che dimostrò poi non scarsa, di cose classiche, se pur anche non conobbe il greco. Le primissime scritture che si conoscono di lui sono una lettera italiana e un brano di lettera latina (decembre 1497), nelle quali difende certi diritti di famiglia su una chiesa del Mugello, ed una di poco posteriore (9 marzo 1497, st. fior.) in cui parla, in modo assai curioso e notevole, della predicazione del Savonarola. Nel 1498, il 19 giugno, fu eletto nel Consiglio maggiore primo segretario della Signoria, nel luogo di ser Alessandro Brac

[graphic]

cesi, e il 14 luglio venne addetto come segretario all'ufficio de' Dieci di libertà e di pace, nel quale durò fino al 1512; e più tardi, nel 1499, fu incaricato anche di reggere la seconda cancelleria, che trattava gli affari del dominio fiorentino, spettando alla prima le relazioni cogli stati stranieri: onde fu poi detto per antonomasia il Segretario fiorentino. Si trovò allora ad avere in certo modo come collega, per quanto in ufficio di molto maggiore importanza e dignità, Marcello Virginio Adriani, preposto alla prima cancelleria e valente uomo di lettere, che dovè probabilmente giovare a'suoi studj; e, amato anche dagli altri ufficiali, strinse singolare amicizia, che durò anche dipoi, con Agostino Vespucci e con Biagio Buonaccorsi. Correvano quegli anni che, come egli scrisse, « feciono mutare forma all'Italia: a Firenze le sètte dei Piagnoni, Compagnacci e Palleschi; la Repubblica sempre in guerra

« IndietroContinua »