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A M. Federigo Fregoso, Arciv. di Salerno (in Francia). Lettera. Essendo io in quella noia con l'animo per la dolorosa novella della presura e sacco della patria vostra, nella quale potete da voi stimare ch'io fossi, e tanto ancora maggiore, quanto di voi e del sig. Ottaviano non si sapea ben quello che ne fosse addivenuto, variamente ragionandosene, mi sopravvenne m. Benedetto Tagliacarne vostro, al quale piacque, passando egli a Vinegia, pigliar sinistro di divertir fin qui per vedermi e ragionarmi di quelle cose, delle quali egli pensava che io fossi, siccome io era, desiderosissimo di saperle. E veramente in questo tempo non so qual cosa altra mi fosse potuta così grata giugnere, come è stata la sua venuta. Chè, come che io da alcuna altra parte avessi potuto intendere dello stato vostro, pure non credo che fosse potuto venire a me persona, che così a pieno me ne avesse renduto conto, e così particolarmente, come ha fatto egli. Chè non solo delle fortune vostre, ma eziandio degli studj e de' pensieri e degli animi vostri m'è egli prudente e discreto recitatore stato. Di che io glie ne sento grande obbligo. Ma lasciando questo da parte stare, e d'altro ragionando; quanto al caso della patria vostra non piglierò a consolarvi, il quale e per la prudenza natural vostra, e per la sperienza degli umani avvenimenti so che non ne avete bisogno, e sapetevi con lo essere innocente consolar da voi stesso. Quanto alla vostra perdita, e' mi piace assai, che quello che avete perduto, era da voi amenduni stimato tale, che per poco l'areste rifiutato, e sarestevene spogliati volontariamente voi stessi. Nella qual cosa una sola ingiuria avete dalla fortuna ricevuta, che ella non ha permesso, che abbiate potuto mostrare al mondo questo vostro cotale animo. Il che è tuttavia da curar poco, quando la vera virtù di sè sola si contenta, senza altro. Rimane ora, che siete libero di quella servitù, che in vista parea regno, che pensiate di vivere a voi stesso: anzi pure che mandiate ad effetto esso pensiero, che pensato a ciò avete voi molto prima che ora, siccome io da me istimava che faceste, e come m'ha detto m. Benedetto che pensavate e ragionavate di voler fare molto spesso. Sallo Iddio, che io da Roma mi diparti', e da Papa Leone, in vista chiedendogli licenza per alcun breve tempo per cagione di risanare in queste contrade, ma in effetto per non vi ritornar più, e per vivere a me quello, o poco o molto, che di vita mi restava, e non a tutti gli altri più che a me stesso. Non dico già ciò, a fine che pigliate voi esempio da me, ma perchè volentieri vi confermiate nel vostro generoso proposito, vedendo altri ancora, aver saputo sprezzar delle cose, che sono universalmente

1 Incomodo di divergere ec.
2 A consolar voi, il quale ec.

desiderate e cercate molto. Sommi fermato in Padova per istanza, città di temperatissimo aere, in sè molto bella, e sopra tutto e comoda e riposata, ed attissima agli ozj delle lettere e degli studj, quanto altra che io vedessi giammai, anzi pur molto più. E stommi ora in città, e quando in villa, di tutte le cure libero e se pure alcuna ne ho, chè nel vero il mio stato per non essere egli più largo e abbondevole de' beni della fortuna di quello che egli è, alcuna me ne dà alle volte, elle sono leggiere ed agevolmente si portano, nè turbano l'animo o gli studj suoi per questo. Non posso dirvi quanto io disideri, che pensiate di venire a riposarvi ancor voi qui, ed a fermarvici, non solo per la soddisfazione e contentezza mia, che sarebbe senza fallo la maggiore che io aver potessi, ma ancora molto più per quella, che io crederei che voi aresti per molti conti. Come che quel solo, e ciò è, che qui sono alquanti di quegli ingegni e di quegli uomini, che altrove non si troverebbero di leggiere, dovrebbe potervi muovere e persuadere al venirvici. Chè non posso istimar per niente, che pensiate di far la vostra vita in quel paese, la vita degli uomini del quale non è in parte alcuna a quella di voi somigliante: e meravigliomi ancora come il nostro Mons. di Bajus vi possa dimorar si lungamente, come che egli non sia tanto oltre negli studj quanto voi siete. A' quali studj non so qual vento possa essere più contrario, e più dal porto loro gli allontani, che quello di codesta Corte, più ad ogni altra cosa volta, che alle carte ed agli inchiostri. O quanto fareste bene amenduni voi a venirvene in queste contrade a riposare e a vivere oggimai una volta! La qual cosa se io avessi potuto fare, come voi potete, molto prima che ora l'arei fatta, nè arei gittati poco meno che dieci anni dei migliori della mia vita; gittati dissi per ogni altro rispetto, solo che in quanto eglino m'hanno procacciato un poco di fortuna e di libertà. Quantunque tutto questo anno io stato sono travagliato, prima per un mese da febbre continua, che m'ebbe a levar la vita, poscia per otto da una quartana nojosa molto, e gli tre sono stati dispensati in guardia e in cura di ricuperar le forze, per le passate febbri perdute, che ancora non mi sono potute ritornar compiutamente. Ma tornando al sig. Ottaviano, del quale sa Dio quanto mi duole che egli sia prigione, essendo egli massimamente cosi cagionevole della persona, come egli è, se per lo allagamento, che è in Lombardia, di soldati e d'eserciti mi fosse ciò concesso, io sarei ora in cammino per andare a vederlo, e starmi un mese prigione con esso lui, e farollo, se mi si concederà poterlo fare. Quello, che io per lui posso, se cosa alcuna posso, io l'ho proferto a m. Benedetto: V. S. mi spenda, senza risparmio. Chè il mio debito con lui e con voi è molto maggiore, che non è tutta la mia fortuna. Priego ben voi, che alle volte mi diate al

cuna contezza di voi e di lui, che nessuna cosa mi potrà giugner più cara, e mi raccomandiate a Mons. di Bajus ed a m. Benedetto, se il vederete, che stimo di sì, ed a voi stesso. A' 20 di luglio 1522. Di Villa nel Padovano.

A messer Agostin Foglietta (a Roma). Lettera. Benchè io creda che e dal mio Avila e da messer Agostin Beazzano voi averete inteso il progresso del mio viaggio, pure almeno per avere occasione di ragionar con voi, voglio che ancora da me lo intendiate. Io montai a cavallo, siccome V. S. vide, assai debole dal male, che Roma mi donò in merito del mio essere venuto a rivederla. Tuttavia, così come io andai cavalcando, andai eziandio ripigliando e vigore e forza, di modo che a fine del cammino mi sono sentito esser quello che io soglio; o la voglia del fuggir di Roma che io avea (essendo stato male da lei ricevuto e trattato), o la mutazion dell'aere, o l'esercizio che se l'abbia operato, o per avventura tutti e tre. Feci in Bologna i giorni santi e le feste della Pasqua; dove visitai monsignor di Fano, il quale governa così bene quella città, e nella giustizia e nelle altre parti del suo uffizio, che non si potrebbe lodarlo a bastanza. Giunto che io in Padova fui, visitai gli amici, e da essi visitato, me ne son venuto qui alla mia villetta, che molto lietamente m'ha ricevuto, nella quale io vivo in tanta quiete, in quanto a Roma mi stetti e travaglio fastidj. Non odo noiose e spiacevoli nuove. Non penso piati. Non parlo con procuratori. Non visito auditori di Rota. Non sento romori, se non quelli che mi fanno alquanti lusignoli d'ogn' intorno gareggiando tra loro, e molti altri uccelli, i quali tutti pare che s'ingegnino di piacermi con la loro naturale armonia. Leggo, scrivo, quanto io voglio; cavalco, cammino, passeggio molto spesso per entro un boschetto, che io ho a capo dell' orto. Del quale orto, assai piacevole e bello, talora colgo di mano mia la vivanda delle prime tavole per la sera, e talora un canestruccio di fragole per la mattina; le quali poscia m'odorano non solamente la bocca, ma ancora tutta la mensa. Taccio che l'orto e la casa ed ogni cosa tutto 'l giorno di rose è pieno. Nè manca oltre a ciò che con una barchetta, prima per un vago fiumicello, che dinanzi alla mia casa corre continuo, e poi per la Brenta, in cui dopo un brevissimo corso questo fiumicello entra, e la quale è bello ed allegrissimo fiume, ed ancora essa da un'altra parte i miei medesimi campi bagna, io non vada la sera buona pezza diportandomi, qual ora le acque più che la terra mi vengono a grado. In questa guisa penso di far qui tutta la state e tutto l'autunno; tale volta fra questo tempo a Padova ritornandomi a rivedere gli amici per due o per tre di, acciò che per comparazione della città la villa mi paia più graziosa. Ho ragionato con V. S. più lungamente che

io non credetti dover fare, quando presi la penna a scrivere. Resta che io vi prieghi a basciare il santissimo piè di Nostro Signore in mia vece, e raccomandarmi in buona grazia di Sua Santità. A cui riverentemente ricordo, che, come che io abbia l'animo assai riposato, non è che la somma del mio stato e delle mie fortune non sia molto minore che non sono i miei bisogni ; laonde essi nel mezzo della mia quiete mi pungono e fanno sospirare e gemere bene spesso; ai quali miei bisogni Sua Beatitudine promise di dar riparo, dicendomi che essa ne avea più voglia di me. Pregherete ancora Sua Santità ad essere contenta di non lasciare andare in mano altrui il libro che io le donai. Alla quale Nostro Signore Dio presti lunghissima felicità. State sano. A' 6 di maggio 1525. Di Villa.

Per la venuta di Carlo VIII di Francia chiamato in Italia Ida Lodovico il Moro.

O pria si cara al Ciel del mondo parte,
Che l'acqua cigne e 'l sasso orrido serra,
O lieta sovra ogn'altra e dolce terra,
Che 'l superbo Appennin segna e diparte:

Che giova omai se 'l buon popol di Marte
Ti lasciò del mar donna e de la terra?
Le genti a te già serve or ti fan guerra,
E pongon man nelle tue trecce sparte.

Lasso! nè manca de' tuoi figli ancora
Chi le più strane a te chiamando, insieme
La spada sua nel tuo bel corpo adopre.

Or, son queste simili a l'antich' opre?
O pur cosi pietate e Dio s'onora?
Ahi secol duro, ahi tralignato seme!

LODOVICO ARIOSTO.

La vita dell'Ariosto si trova in gran parte raccontata da lui medesimo, particolarmente nelle sue Satire; dalle quali (poichè sono anche ricche di molti pregi) trascriveremo i luoghi più opportuni alla nostra narrazione.

Dal conte Nicolò Ariosto e da Daria Malaguzzi Valeri nacque Lodovico in Reggio agli 8 settembre 1474. Suo padre, allora ca

Su questo cognome e sulla sua derivazione da un nome locale significante bruciato, vedi G. FLECHIA, Del nome Ariosto, Torino, Clausen, 1892. 2 Sugli antenati paterni e materni, vedi L. N. CITTADELLA, Intorno agli Ariosti di Ferrara, Ferrara, Ambrosini, 1874, e F. MALAGUZZI VALERI, La Villa dell' A. e i parenti materni del poeta, nella rivista milanese La Lettura, III, 3.

pitano della cittadella, col favore di Ercole I duca di Ferrara aveva

accresciuta la ricchezza e

la dignità della famiglia, già da più tempo al servizio de' signori da Este, sebbene poi il patrimonio diviso tra molti figliuoli riuscisse scarso a ciascuno. A sette anni andò col padre a Rovigo, quando questi vi fu mandato capitano: indi lo segui a Ferrara, dove, ammesso a corte, entrò presto nelle grazie del duca, che lo accolse nella compagnia de' giovani nobili, da lui stesso ammaestrata a recitar commedie.

Sin da fanciullo fu mani

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festa l'inclinazione di Lodovico alle lettere amene ed alla poesia; ma, dice egli stesso:

Mio padre mi cacciò con spiedi e lancie
Non che con sproni, a volger testi e chiose,1
E me occupò cinque anni in quelle ciancie ;
Ma poi che vide poco fruttuose
L'opere, e il tempo in van gittarsi, dopo
Molto contrasto, in libertà mi pose.

Passar vent'anni io mi trovavo, ed uopo

Aver di pedagogo, chè a fatica

Inteso avrei quel che tradusse Esopo.
Fortuna molto mi fu allora amica,

Che mi offerse Gregorio da Spoleti
Che ragion vuol ch' io sempre benedica:
Tenea d'ambe le lingue i bei secreti,
E potea giudicar se miglior tuba
Ebbe il figliuol di Venere o di Teti.

(Satira VI, v. 157-171.)

Ma io, soggiunge, non curai allora, o per pigrizia o per mala fortuna, d'apprendere il greco (asserzione che alcuni non voglion prender troppo alla lettera):

Chè 'l saper ne la lingua de gli Achei
Non mi reputo onor, s' io non intendo
Prima il parlar de li Latini miei.

Mentre l'uno acquistando, e differendo

Vo l'altro, l'occasion fuggì sdegnata,

Poi che mi porge il crine, ed io no 'l prendo. (Ibid., v. 178-183.)

1 A studiar leggi (1489), in Ferrara.

2 Dotto in greco e in latino, poteva giudicare se meglio fu cantato di Enea o di Achille.

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