Immagini della pagina
PDF
ePub

Melissa, per arte magica, fa venire da Costantinopoli il padiglione di Costantino, nel quale l'antica Cassandra aveva ricamate le imprese future di Casa d'Este. L'ultimo giorno di festa all'ora del convito ecco arrivar Rodomonte, che, uscito dalla caverna in cui dicemmo che si era ritratto dopo che Bradamante lo ebbe vinto, viene a sfidar Ruggiero (ivi, st. 111):

Donne e donzelle con pallida faccia
Timide a guisa di columbe stanno,
Che da' granosi paschi ai nidi caccia
Rabbia de' venti che fremendo vanno
Con tuoni e lampi, e 'l nero aër minaccia
Grandine e pioggia, e a' campi strage e danno:
Timide stanno per Ruggier; che male

A quel fiero Pagan lor parea uguale.

Così a tutta la plebe, e alla più parte

Dei Cavallieri e dei Baron parea;

Che di memoria ancor lor non si parte
Quel ch'in Parigi il Pagan fatto avea;
Che, solo, a ferro e a fuoco una gran parte
N' avea distrutta, e ancor vi rimanea

E rimarrà per molti giorni il segno:

Nè maggior danno altronde ebbe quel regno.

Non paventa per altro Ruggiero. La pugna s'incomincia a cavallo; ma non molto dopo i duellanti si trovano a piedi, e combattono colle mani più che coll' armi. Finalmente è riuscito a Ruggiero di atterrar il nemico (ivi, st. 135):

Del capo e de le schene Rodomonte
La terra impresse, e tal fu la percossa,
Che da le piaghe sue, come da fonte,
Lungi ando il sangue a far la terra rossa.
Ruggier c'ha la Fortuna per la fronte,
Perchè levarsi il Saracin non possa,

L'una man col pugnal gli ha sopra gli occhi,
L'altra alla gola, al ventre gli ha i ginocchi.
Come talvolta, ove si cava l'oro

Là tra` Pannoni o nelle mine Ibere,
Se improvisa ruïna su coloro

Che vi condusse empia avarizia, fere,
Ne restano si oppressi, che può il loro
Spirto a pena, onde uscire, adito avere;
Cosi fu il Saracin non meno oppresso
Dal vincitor, tosto ch'in terra messo.

Alla vista de l'elmo gli appresenta
La punta del pugnal ch'avea già tratto;.
E che si renda, minacciando, tenta,
E di lasciarlo vivo gli fa patto.
Ma quel, che di morir manco paventa,

Che di mostrar viltade a un minimo atto,
Si torce e scuote, e per por lui di sotto
Mette ogni suo vigor, nè gli fa motto.

Come mastin sotto il feroce alano
Che fissi i denti ne la gola gli abbia,
Molto s'affanna e si dibatte in vano
Con occhi ardenti e con spumose labbia,
E non può uscire al predator di mano,
Che vince di vigor, non già di rabbia:
Così falla al Pagano ogni pensiero
D'uscir di sotto al vincitor Ruggiero.

Pur si torce e dibatte sì, che viene
Ad espedirsi col braccio migliore,
E con la destra man che 'l pugnal tiene,
Che trasse anch'egli in quel contrasto fuore,
Tenta ferir Ruggier sotto le rene:

Ma il giovene s'accorse de l'errore
In che potea cader, per differire

Di far quell'empio Saracin morire.

E due e tre volte ne l'orribil fronte,
Alzando, più ch'alzar si possa, il braccio,
Il ferro del pugnale a Rodomonte
Tutto nascose, e si levò d'impaccio.
Alla squallide ripe d'Acheronte,

Sciolta dal corpo più freddo che giaccio,
Bestemmiando fuggi l'alma sdegnosa,
Che fu si altiera al mondo e sì orgogliosa.

(Secondo l'ediz. di Pietro Papini, Firenze, Sansoni, 1903.)

GIOVANNI RUCELLAI.

Nacque in Firenze il 20 ottobre 1475 di quel Bernardo Rucellai, che fu fondatore degli Orti oricellarj, e di Nannina de' Medici, sorella del Magnifico. Istruito col fratello Palla da Francesco Cattani da Diacceto, fu a Venezia e in Francia; rimpatriato, favori sempre la parte de' Medici suoi parenti. Vesti abito ecclesiastico, e nel 1513 fu de' familiari di Leone X, pur couservando la natura sua gioviale e un po'mondana. Aspirò al cardinalato, ma il papa lo fece soltanto ambasciatore in Francia (1520-22) a Francesco I; dopo la morte di Leone tornò a Firenze, e dimorò di solito nella villa di Quaracchi. Clemente VII lo nominò castellano di Castel Sant'Angelo, e da cotesto ufficio intitolò il Trissino, col quale ebbe grandissima amicizia e molta comunanza d'idee letterarie, il suo Dialogo sulla lingua. Morì in Roma, tra il 2 e il 3 aprile 1525.

1 Vedi G. MAZZONI, Una lettera di G. G. T. a G. R., in Atti Istit. Ven., s. VII, II, 517 (1891).

La scrittura più ricordevole del Rucellai è il poemetto didascalico Le Api, cominciato in villa nel 1523 e compiuto a Roma l'anno seguente: sicchè precede quello dell'Alamanni. De' 1062

versi endecasillabi sciolti che lo compongono, un buon terzo è tradotto dal IV libro delle Georgiche; ma egli v'aggiunse di proprio comparazioni originali e precetti ispirati dalla esperienza (1a ediz., Firenze e Venezia, 1539). Compose anche due tragedie: la Rosmunda in endecasillabi sciolti e metri lirici, scritta tra il 1515 e il 1516, press' a poco quando la Sofonisba del Trissino, e che si modella specialmente sull'Antigone di Sofocle (1a ediz., Siena, 1525) con certa libertà, particolarmente rispetto all'unità di luogo: e l' Oreste,

[graphic]

imitato dalla Ifigenia in Tauride di Euripide, cominciato tra il 1515 e il 1520, e che restò incompiuto. Del Rucellai rimangono anche alcune Lettere, e, in latino, una Oratio ad Hadrianum IV, detta il 1523, a nome della repubblica fiorentina.

[Per la biografia vedi la Prefazione di GUIDO MAZZONI all'edizione de Le opere di G. R., Bologna, Zanichelli 1887, e del medesimo Noterelle su G. R., in Propugnatore, maggio-giugno 1890, N. serie, III, 15.]

Battaglie delle Api.

Ma se talor quelle lucenti squadre
Surgono instrutte ne i sereni campi,
Quando rapiti da discordia ed ira
Son i lor re (poichè non cape il regno
Due regi fin ne i pargoletti insetti)
A te bisogna gli animi del volgo,
I trepidanti petti e i moti loro
Vedere inanzi al maneggiar de l'armi:
Il che dinota un marzïal clangore,

1 Su questo poema è da vedere nel carteggio dell' ALGAROTTI una lettera ad E. Zanotti del 15 maggio 1747.

2 Vedi F. CAVICCHI, Il libro IV delle Georgiche e le Api di G. R., in Riv. abruzzese, XV (1900), 107. Un' ediz. scolastica delle Api dette il prof. E. BICCI, Firenze, R. Bemporad o figlio, 1892.

3 Vedi F, DE SIMONE BROUWER, in Rass. bibliogr. d. lett. ital., I, 246.

Che, come fosse il suon de la trombetta,
Sveglia ed invita gli uomini a battaglia.
Allor concorron trepide, e ciascuna
Si mostra ne le belle armi lucenti;
E col dente mordace gli aghi acuti
Arrotando bruniscon, come a cote,
Movendo a tempo i piè, le braccia el ferro
Al suon cruento de l'orribil tromba;
E stanno dense intorno al lor signore
Nel padiglione, e con voce alta e roca
Chiaman la gente in lor linguaggio a l'arme.
Poi, quando è verde tutta la campagna,
Esconsi fuor de le munite mura,

E ne l'aperto campo si combatte.
Sentesi prima il crepitar de l'arme
Misto col suon de le stridenti penne,
E tutta rimbombar l'ombrosa valle.
Così mischiate insieme fanno un groppo,
E vanno orribilmente a la battaglia,
Per la salute de la patria loro

E per la propria vita del signore.
Spettacol miserabile e funesto!

Per ciò che ad or ad or da l'aere piove
Sopra la terra tanta gente morta,
Quante da i gravi rami d'una quercia
Scossa da i venti vanno a terra ghiande,
O come spessa grandine e tempesta.
I re nel mezzo a le pugnaci schiere,
Vestiti del color del celeste arco,
Hanno ne i picciol petti animo immenso;
Nati a l'imperio, ed a la gloria avvezzi,
Non voglion ceder nè voltar le spalle,
Se non quando la viva forza, o questo
O quello astringe a ricoprir la terra.
Questi animi turbati, e queste gravi
Sedizioni, e tanto orribil moto
Potrai tosto quetar, se getti un pugno
Di polve in aria verso quelle schiere.
Ancora, avanti che si venga a l'armi,
Se il popol tutto in due parti diviso
Vedrai, dal tronco d'una antiqua pianta
Pender, come due pomi o due mammelle
Che si spicchin dal petto d'una madre,
Non indugiar: piglia un frondoso ramo
E prestamente sopra quelle spargi
Minutissima pioggia, ove si trovi

Il mèle infuso ol dolce umor de l'uva;
Chè, fatto questo, subito vedrai

Non sol quetarsi il cieco ardor de l'ira,
Ma insieme unirsi allegre ambo le parti,

E l'una abbracciar l'altra, e con le labra
Leccarsi l'ale o i piè, le braccia e 'l petto,
Ove il dolce sapor sentono sparso,

E tutte inebriarsi di dolcezza.

(Dal poema Le Api, v. 261 e segg.)

MICHELANGIOLO BUONARROTI.

Michel, più che mortale, Angel divino, come lo disse l'Ariosto, nacque il 6 marzo 1475 (st. c.), d'antica e nobile ma non facoltosa famiglia, da Lodovico Buonarroti Simoni e da Francesca di Neri del Sera, nel castello di Caprese in Casentino, dove il padre era

podestà. Della vita, che è così collegata colla sua operosità artistica, non ricordiamo che le date principali. Nel 1488 fu messo al pittore nella bottega del Ghirlandaio; ebbe la protezione di Lorenzo il Magnifico fino al 1492; dal 1501 al '3 scolpi il David, fu poi chiamato a Roma da papa Giulio II. Molte gite e viaggi fece, quasi sempre per ragione de' suoi lavori d'arte. Agli anni dal '21 al '27 si riferisce l'opera mirabile delle tombe medicee in San Lorenzo. Nel 1529 fu eletto del magistrato de' Nove della Milizia fiorentina, e poi

[graphic]

governatore generale delle fortificazioni di Firenze. Nello stesso anno, sospettando già il tradimento di Malatesta Baglioni, fuggi da Firenze dove correva pericolo della vita, senza considerare il rischio a cui poneva la fama sua, ma ritornò nel momento più importante, e, poi, caduta la libertà fiorentina, dimorò la maggior parte del tempo a Roma. Essendo papa Paolo III, colori, fra il 1534 e il '41, il Giudizio Universale nella parete della Cappella Sistina, la cui vòlta aveva preso a dipingere molti anni innanzi. Ammirò e amò Vittoria Colonna come donna e come poetessa, specialmente quando ella, vedova, abitò (dal 1538) a Roma nel chiostro di San Silvestro. Nel 1546 fu fatto cittadino romano,

1 Vedi P. VILLARI, in Saggi storici e critici, Bologna, Zanichelli, 1890, pag. 383; I. DEL LUNGO, L'assedio di Firenze, in Conferenze fiorentine, Milano, Cogliati, 1901, pag. 114.

« IndietroContinua »