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che m'è stato grandissima grazia di Dio, ma con grave mio danno e infinito dolore. La grazia è stata, che dove in vita mi teneva vivo, morendo m' à insegnato morire, non con dispiacere, ma con desiderio della morte. Io l'ò tenuto ventisei anni, e òllo trovato realissimo e fedele; e ora ch'io l'avevo fatto ricco, e che io l'aspettavo bastone e riposo della mia vecchiezza, m'è sparito; nè m'è rimasto altra speranza che di rivederlo in paradiso. E di questo n'à mostro segno Iddio per la felicissima morte ch'egli à fatto, e più assai che 'l morire, gli è incresciuto il lasciarmi vivo in questo mondo traditore con tanti affanni; benchè la maggior parte di me n'è ita seco, nè mi rimane altro che un'infinita miseria. E mi vi raccomando.... Roma, a dì 23 di febbrajo 1556.(Ibid., pag. 239.)

JACOPO NARDI.

Di famiglia nobile originaria di San Felice a Ema, venuta in città nel secolo XIV, onorata d'ufficj nella Repubblica e sempre di parte antimedicea, nacque Jacopo Nardi di Salvestro e di Lucrezia di Bardo in Firenze il 21 luglio 1476. Fu de' partigiani del

Savonarola, e tenne varie cariche durante il governo popolare di Firenze: provveditore de' beni de' ribelli pisani nel 1508 e di quelli dei Capitani di Parte Guelfa nel '12; priore di libertà, nel 1509; uno de' sedici gonfalonieri nel 1511. Ma ritornati nel 1512 i Medici, aderendo al nuovo governo, fu degli approvatori degli statuti delle arti nel 1513 e de' 16 gonfalonieri più volte, e cantò le feste e le glorie della fortunata famiglia. Nel tumulto del 1527, quando la Signoria ebbe decretato il bando de' Medici, fu primo a tirare su gli assa

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litori del Palazzo, dove i nemici de' Medici s'eran rinchiusi, le pietre de' parapetti de' ballatoj. In tale frangente, dice il Varchi, « fu cagione la prudenza ed animosità di quest' uomo veramente buono, e della libertà non per ambizione, nè per cupidigia di gua

1 Vedi la descrizione di questi fatti in una lettera del N. al Varchi, pubblicata da V. Fiorini, in Miscell. fiorentina, I, 132.

dagno, ma solo per viver libero e per la salute pubblica difenditore, che il palazzo preso non fosse: il che, se avveniva, chi starà in pensiero che quei cittadini, che dentro si trovavano, tutti a fil di spada iti non fossero?» Era cancelliere dell'ufficio delle tratte quando cadde la Repubblica. Dalla moglie Lena di Pietro Bellini aveva avuti molti figliuoli: e per la numerosa famiglia si trovò poi in grandi strettezze, ed ebbe anche molti dispiaceri da' figliuoli medesimi. Dal nuovo governo nel '30 fu proscritto con altri, prima a due miglia, nella sua villa di Pitigliolo, poi nel '33 confinato a Livorno colla confisca de' beni. Spirato il termine e non essendo venuta la revoca del bando, ruppe il confine e riparò a Venezia e poi a Roma, e con altri fu scelto come rappresentante de' fuorusciti a Carlo V, davanti al quale parlò, nel 1535 in Napoli, accusando Alessandro de' Medici, cui osò difendere il Guicciardini. Tornato a Venezia, dopo esser stato podestà a Cingoli (1536), visse poveramente, campando specialmente colla mercede di lavori di traduzione e sempre anelando alla patria, e sperando un oblio del passato, che Cosimo, dal quale è falso ch'egli avesse una provvisione, non volle concedergli. Nel 1555 ebbe incarico con altri di riformare gli statuti della Fraternità de' fiorentini dimoranti a Venezia. Morì addì 11 marzo 1563.2

De' suoi primi anni è la commedia Amicizia, composta tra il 1509 e il 1512: deriva da una novella boccaccesca (Decameron, X, 8); fu rappresentata davanti la Signoria. L'altra commedia I due felici rivali, pur essa in relazione col Centonovelle (VI, 5), fu scritta per Lorenzo duca d'Urbino e recitata il 17 febbraio 1513 nel palazzo mediceo. N'era edito solo il prologo, finchè fu pubblicata per intero da A. Ferrajoli. Sono tutt'e due in versi polimetri. Scrisse pure Canti Carnascialeschi, nei quali il seguace del Savonarola s'astiene dalle licenze troppo solite in tali poesie. A Tullia d'Aragona inviò la traduzione dell'orazione di Cicerone Pro Marcello (1536). Più celebre è la traduzione delle storie di T. Livio, fatta per altro assai liberamente e su un testo molto scorretto (1a ediz., Venezia, Giunti, 1540). Compose nel '34 due Discorsi politici sui fatti e le condizioni di Firenze, e nel 1549 scrisse la Vita di Antonio Giacomini (1a ediz., Firenze, Sermartelli, 1597), che aveva conosciuto intimamente: questa scritturra di che egli faceva gran conto, fu poi lodatissima

1 Su questo punto della vita del Nardi, vedi L. A. FERRAT, Lorenzino de' Medici, Milano, Hoepli, 1891, pag. 203, 396: e cfr. A. Rossi, F. Guicciardini e il governo fiorent., Bologna, Zanichelli, 1896, II, 92.

2 Vedi A. SALZA, La morte di J. N., in Rass, bibliogr. d. lett. ital., V, 223. 3 Roma, tip. del Senato, 1901: vedi su questa pubblicazione, specialmente pei troppo recisi giudizj del F. sulla condotta politica del N., F. FLAMINI, in Rass. bibliogr. d. lett. ital., X, 120 e A. PIERALLI, in Arch, stor. ital., s. V, XXX, 211.

Vedi A. PIERALLI, Le Commedie di J. N., in Rivista universitaria (1896), I.

dal Giordani, che ne ammirava la forma semplice ed efficace.1 Negli anni più tardi, dopo aver somministrato all'amico suo Varchi, gran copia di notizie sugli anni più fortunosi della storia patria, scrisse, quasi a sfogo e conforto dell'animo addolorato, le Istorie di Firenze (1a ediz., Lione, Ancelin, 1582), che vanno dal 1494 al 1532, attingendo in gran parte al Diario di Biagio Bonaccorsi, oltre che ai proprj ricordi, con forma generalmente languida e dimessa, e qualche volta scorretta; frutto, privo anche delle ultime cure, di una gelida e sconsolata vecchiezza, e nella conoscenza dei fatti non sempre sicuro, salvo rispetto a quelli in che era stato attore o spettatore.

[Vedi per la biografia, oltre che la Vita scritta da C. M. NARDI, in Racc. Calogeriana, XXIV, e Napoli, 1737, il discorso premesso da AGENORE GELLI alle Istorie di Firenze, Firenze, Le Monnier, 1858, 2 vol.; A. PIERALLI, La vita e le opere di J. N., parte I, Firenze, Civelli, 1901, con Appendice di Lettere; A. FERRAJOLI, Prefazione alla cit. stampa dei Due rivali, e cfr. su ambedue queste ultime pubblicazioni, F. PINTOR, in Giorn. stor. d. lett. ital., XLI, 113, che aggiunge qualche nuovo particolare alla biografia del Nardi.]

Risposta dei fuorusciti florentini a Carlo V nella causa agitata appresso a lui contro Alessandro de' Medici (1535).— Noi non venimmo qui per domandare a Sua Maestà con quali condizioni dovessimo servire ad Alessandro, nè per impetrare da lui per opera di Sua Maestà perdono di quello che giustamente e per debito nostro abbiamo volontariamente operato in benefizio della patria nostra; nè anche per potere colla restituzione de'nostri beni tornare servi in quella città, della quale siamo usciti liberi; ma ben per domandare a Sua Maestà, confidati nella giustizia e bontà d'essa, quella intera e vera libertà, la quale dagli agenti e ministri suoi, in nome di Sua Maestà, ci fu promessa di conservare, e con essa la reintegrazione della patria e facultà di quei buoni cittadini, i quali contro alla medesima fede ne erano stati spogliati, offerendole tutte quelle recognizioni e sicurtà che ella medesima giudicasse oneste e possibili. Per il che, vedendo al presente per il memoriale datoci, aversi più rispetto alla satisfazione e contento di Alessandro, che alli meriti e onestà della causa nostra, e che in esso non si fa pur menzione di libertà, e poco degli interessi pubblici, e che la reintegrazione de' fuorusciti si fa non libera, come

1 Vita di Antonio Giacomini e altri scritti minori, per cura di CARLO GARGIOLLI, Firenze, Barbèra, 1867.

2 Vedi F. AGNOLONI, Saggio di studj sulla storia del Segni, del Nardi e del Varchi, Massa, Frediani, 1876; L. FALCUCCI, Alcune osservaz. sulle storie del N. e del Varchi, Sassari, Gallizzi, 1899.

per giustizia e per obbligo dovrebbe esser fatto, ma limitata e condizionata, non altrimenti che se ella si ricercasse per grazia; non sappiamo che altro replicare, se non che essendo resoluti vivere e morire liberi, come siamo nati, supplichiamo che parendo a Sua Maestà essere per giustizia obbligata levare a quella misera città il giogo di si aspra servitù, come noi fermamente speriamo, si degni provvedervi conforme alla bontà e sincerità della fede sua; e quando altrimenti sia il giudicio e volontà di quella, si contenti che con buona grazia sua possiamo aspettare che Iddio, e la Maestà Sua meglio informata, provveda a' giusti desiderj nostri: certificandola che noi siamo tutti resolutissimi non maculare per i privati comodi il candore e sincerità degli animi nostri, mancando di quella pietà e carità, la quale meritamente tutti i buoni debbono alla patria. (Dalle Istorie di Firenze, lib. X, § 29.)

Antonio Giacomini. - La generosità dell'animo e la severità lo fecero parimente ragguardevole e imitabile negli uffizj della guerra e della pace: sicchè quanto alla generosità, di che parleremo prima, e quanto a quella parte che più si considera in una persona militare, egli congiugneva in maniera l'audacia con la prudenza, che si poteva più ragionevolmente, in ogni caso che avvenuto fusse, chiamar uomo forte e costante, che troppo coraggioso ed ardito. Perciocchè i pericoli nella guerra non cercava; ma dove l'utilità e l'onore suo e della repubblica lo richiedeva, non gli schifava punto..... Nondimeno quantunque egli non si spaventasse de' pericoli, non si dimenticava però di que'savj e lodevoli rispetti che convengono al capitano, secondo il debito decoro di sua persona, sapendo molto bene che al capitano è cosa convenevole il morire come capitano, e al soldato come soldato.

Ma negli uffizj civili, i quali appartengono dentro al governo della repubblica, non fu egli punto di minore grandezza e generosità d'animo; anzi fu molto sua speciale proprietà di natura in ogni sua pubblica o privata azione mostrarsi tutto intero e libero nel consigliare e nel parlare, e anche non dissimulava punto di fare di questa parte una singolare professione. Cosi confessava ingenuamente di mancare di quelle parti che sogliono nelle città procacciare a'cittadini favore e grazia popolare; perciocchè ei non sapeva per natura, e non voleva per arte mai simulare o dissimulare: e così sopportava mal volentieri, e con fatica grandissima ne'magistrati la duplicità e la simulazione de' suoi compagni, e l'audacia sopra tutto e l'arroganza in quelle persone, nelle quali appariva grande l'ignoranza e là imperizia, come molte fiate avvenir suole; e massimamente se ne conturbava dove si trattasse delle cose della guerra: sopra le quali veramente egli parlava e discorreva meglio che altro cittadino; onde la sua compagnia ne'collegi de'ma

gistrati fu qualche volta ad alcuni non molto gioconda. Nondimeno il suo parere le più volte prevaleva agli altri, e specialmente nel consiglio degli Ottanta e de' Richiesti e Pratiche; nelle quali più larghe consultazioni l'autorità de' particolari cittadini cede e dà luogo alle vere e ferme ragioni molto più facilmente, che non fa ne' magistrati di minor numero d'uomini. Il modo del parlare d'Antonio era tutto naturale e non punto ricercato, e piuttosto con una certa eloquenza militare che civile. Era nel parlar breve, la voce era grave e sonora, ma quando era sopraffatto dalla collera (che assai in lui poteva) si convertiva in acuta, e agli orecchi degli ascoltanti era poco grata..

La severità similmente di quest'uomo fu tanta, che l nome solo di lui spaventava i malfattori, sicchè ne' suoi magistrati legittimi e ordinarj (i quali anche furono molti), discostandosi gli sbanditi e condannati e altri uomini di mala vita da luoghi della giurisdizione di esso, non aveva egli quasi più cagione alcuna di fare esecuzione di giustizia: tanto che tra tutti i cittadini, vivente lui, ei fu sempre proposto avanti agli occhi della mente di ciascuno per un chiarissimo specchio d'integrità, e dopo la morte ricordato e allegato per un singolarissimo esempio di giustizia e di severità, quantunque dagli emoli suoi ei fusse in qualche caso calunniato, incolpandolo di crudeltà, benchè immeritamente; perciocchè nel punire i peccati della fragilità umana ei non si discostava dalla compassione e dalla umanità, ma la malvagità perseguitava severamente, e sopra tutto era duro e implacabile nel vendicare le violenze, e specialmente fatte agli impotenti. Era ancora molto severo nel farsi ubbidire e nel conservare la dignità di quel grado e magistrato ch'ei teneva, conoscendo che la facilità e mansuetudine diminuisce la maiestà del magistrato, e di venerabile lo rende sprezzabile. Al qual proposito soleva dire che non i magistrati davano riputazione agli uomini, ma sibbene gli uomini con le loro buone qualità davano e accrescevano la riputazione ai magistrati; e alle importune richieste di coloro che li domandavano per grazia la impunità d'alcun delinquente, allegandogli qualche rispetto o di pericoli o di offensioni di persone, rispondeva senza contesa con quella sola parola fiat jus et pereat mundus, e di questa sola diceva farsi scudo ed elmo contro le disoneste domande di ognuno. Diceva appresso che non ingiuriava gli amici negando loro quello che essi non dovevano chiedere, ma che essi facevano bene ingiuria e onta a lui, chiedendogli quello che ei non doveva loro dare; e che la misericordia e la clemenza si doveva usare nel vendicare le ingiurie private, e non nel castigare le pubbliche..... Ma sopra tutto gli fu bisogno osservare la severità con somma prudenza nel governo degli eserciti, avendo a maneggiare soldati stipendiarj e forestieri e di nazioni diverse:

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