Immagini della pagina
PDF
ePub

i quali generalmente erano venuti in tanta licenza e corruzione di vita, che piuttosto parevano in campo una ragunanza di scelerati ladroni, che dei soldati esercitati nella milizia, essendo massimamente avvezzi a godersi l'agevolezza o a sbeffare la dappocaggine degli altri commissarj; e perciò a lui fu necessario usare modi estraordinarj, volendo riducere, come soleva dire, tanti disordini a'debiti ordini loro. I quali modi così bene e felicemente gli successero, che negli eserciti nostri governati da lui e di giorno e di notte si conversava non meno innocentemente e sicuramente, che in una ben composta e costumata città.. Soleva nondimeno, acciocchè la sua severità fosse più tollerabile e manco odiosa, preparare gli animi de' suoi soldati ragionando spesso con li capi e condottieri delle lodevoli consuetudini ed esempj degli antichi, ed eziandio d'alcune moderne nazioni; e appresso pregandoli che insieme seco si volessero affaticare per la restaurazione della perduta ubbedienza e dell'altre buone parti della militare disciplina..... Gli pareva che le ingiurie ricevute nel corpo non si potessero ricompensare col pagamento della pecunia..... Ma molto manco stimava quelle parole che dette fuor di lui tornassero contro di sè, massimamente quando ei poteva dissimulare la ingiuria. Onde avendo udito con le proprie orecchie uno che giuocando dietro al suo padiglione aveva detto in collera una parola ignominiosa verso di lui, se ne rise; ma essendo instigato da qualcuno de suoi che lo dovesse castigare, rispose: Se io posso dissimulare di avere ricevuto questa ingiuria, perchè vuoi tu che me l'addossi e ricognosca come cosa mia? E replicando il medesimo, che essendo egli commissario e rappresentando in quel luogo la Signoria di Fiorenza, non doveva chetamente sopportare si fatta cosa in disonore di Marzocco, rispose Antonio sorridendo: E però lasciamola andare, essendo Marzocco animale generoso, che non si cura del grattare degli orecchi, ma solamente quando se gli tocca il naso..... Servivasi in campo volentieri, nelle cure e ne' governi particolari, dei suoi cittadini, i quali non fussero e non facessero, per loro spontanea volontà ed elezione, professione di soldati, parendoli che gli uomini, in quanto soldati, di cittadini diventassero mercenarj e perciò soleva dire che gli uomini da guerra (come dicono gli scrittori di quell'arte) erano propriamente quegli, i quali non sopra tutte l'altre cose amavano e desideravano la guerra, o vero quelli che sopra tutte le cose temevano e aborrivano la guerra, e per la pace erano volontarj e atti strumenti, secondo che alla patria accadeva servirsene ne' bisogni..... Fu Antonio di statura più che mediocre, di corpo robusto e in tutti i membri assai bene

:

1 Il leone, insegna del Comune, chiamato Marzocco.

2 Intendi: ma più tosto quelli; cioè a dire, erano invece quelli,

proporzionato, di colore ulivigno e di complessione collerica declinante alla melancolia, profondo e fisso nelle cogitazioni; nondimeno in tutte le sue azioni presto e risoluto e molto pronto ed efficace e impaziente dell' indugio; perchè credeva è affermava la pigrizia e la tardità essere nimica delle occasioni. Nella gioventù, e mentre era sano, paziente de'disagi. Fu eziandio parco nel vestire, e ridevasi di quegli che si dilettavano de soverchi ornamenti delle vesti, quasi che non avessero altra parte, onde si rendessero riguardevoli nel cospetto degli uomini: fu similmente parco nel suo vivere privato, quanto alla delicatezza delle vivande; ma la mensa voleva che fusse abbondante così nella vita domestica e privata, come quando era ne' reggimenti e negli eserciti, perchè era molto ospitale e largo nel ricevere gli amici, e i medesimi i quali ei comandava in campo, trattandoli secondo la dignità del grado suo, intratteneva poi e accarezzava in casa umanissimamente, secondo le loro qualità, e come si conveniva al privato cittadino: sicchè la familiarità non lo faceva disprezzabile, ma amabile, come la maiesta de magistrati da lui esercitati non lo aveva fatto odioso, ma venerabile..... Antonio con l'astinenza e sobrietà del mangiare e del bere, come che non fusse sano, si rendeva bastante a sopportare le vigilie che nella guerra e ne'tempi pericolosi eran quasi continove, andando egli spesse volte per il campo, sconosciuto e poco accompagnato per vedere come si facevano le guardie, e per correggere gli errori. Nel punir quelli era rigidissimo, dicendo che i falli della milizia portano seco congiunta troppo tosto la pena, della quale ne sente non meno l'innocente che il delinquente. Ma molto più fu egli larghissimo rimuneratore, e massimamente delle cose fatte valorosamente dai soldati; e diceva che gli onori li facevano correre come gli sproni i cavalli, ma che 'l premio di questi era il palio, e di quegli alla fine la morte. E tale possiamo dire che fusse il premio e il fine insieme delle opere di quest' egregio cittadino, poichè egli ebbe speso la maggior parte de' migliori anni suoi e la sua sanità ne'servigi della patria, la quale pianse veramente due volte il danno ricevuto nella perdita che essa fece di lui; prima, per la cecità di esso, e poi, per la morte, e maggiormente ancora perchè non potette con qualche pubblico segno testificare la sua gratitudine de' benefizj da quello ricevuti, per una certa malignità di fortuna, la quale a quest'uomo in ogni suo stato e grado fu quasi sempre contraria. — (Dalla cit. ediz. Barbèra, pag. 155 e seg.)

Le Milizie italiane nel 1500.- Ancora che la città non fusse però così interamente spogliata di uomini parimente fidati e atti al governo delle cose civili, senza dubbio di quelli ch`avessero esperienza di fatti della guerra, si poteva ella veramente chiamare poverissima: e se alcuno vi si trovava che, per

buona inclinazione di natura o per qualche pratica, apparisse tra gli altri di qualche perizia, non poteva essere instrutto d'altra disciplina che di quella con la quale allora si maneggiavano le guerre degli Italiani, della mollizie e delicatezza e negligenza de'quali quasi in quel tempo si poteva dire quel medesimo che scrive Procopio scrittore greco de' tempi suoi, quando i Goti già occuparono la Italia; la quale trovarono i Francesi quasi non altrimenti fatta e disposta, che poco avanti allo imperio di Giustiniano l'avessero trovata i Goti e altri Barbari che tanto l'afflissero e molestarono. Perciocchè innanzi alla venuta di Carlo VIII (lasciando stare per ora il ragionare degli uomini d'arme, i quali per esser bene guerniti e coperti di ferro e i cavalli loro bardati, pochi altri maggiori pericoli portavano in una campale battaglia, che in una giostra o torniamento da beffe, non essendo ancora in uso gli scoppietti nelle zuffe, ma le balestre solamente) le compagnie de' fanti, de quali in uno esercito ben grande era poco il numero e molto manco l'uso, fuorchè nelle espugnazioni ovvero difese delle terre, portavano poche armi da difendere, e per offendere lancie molto lunghe e sottili, con le quali sebbene ferivano il nemico di lontano, non potevano però sostenere l'impeto della cavalleria, e perciò poco si mescolavano ne'fatti d'arme, se non con gran loro vantaggio, e in luoghi montuosi e difficili; si che così fatte lancie erano anche manco utili che le larisse de Macedoni, perchè gli Italiani non avevano la perizia di quella ordinanza chiamata falange, la quale poi quasi messero in uso in Italia con le loro picche gli oltramontani, e principalmente gli Svizzeri. Portavano appresso i nostri le rotelle e certe partigiane piccole da lanciare, le quali nelle scaramuccie lanciavano l'uno a l'altro, e ripigliavano e rilanciavano quasi a vicenda; e le più spaventevoli e mortifere armi che si usassero, erano le balestre, e anche adoperate da genti tra gli altri soldati manco apprezzate: non portavano bandiere nè insegne nelle compagnie, e nelle rassegne e mostre che facevano, camminavano quasi trottando, e continuamente gridando il nome del principe, dal quale eran condotti; e cosi andavano festevolmente saltellando dietro al suono d'un tamburino col zufoletto, piuttosto a guisa di giuocatori che di soldati messi in ordinanza e ben disciplinati; e così fatti soldati ed eserciti videro i più antichi dell'età nostra nella guerra di Serezana, che fu l'ultima che facesse la nostra città avanti alla ribellione di Pisa; si che non fu da prendere maraviglia se in quel principio facessero le genti italiane si mala pruova con gli oltramontani. I commissarj similmente, che si mandavano fuori per comandare o consigliare i capitani, governatori e condottieri, come che fussero prudenti e forniti d'ogni altra buona qualità, non essendo pratichi nelle cose della guerra, come imperiti di tal mestiero, non erano appresso i

soldati d'alcuna autorità o riputazione, ma più tosto atti da essere dalla malizia di quelli aggirati e vilipesi che obbediti o temuti. E tale era la condizione non solamente della patria nostra e della Toscana, ma universalmente di tutta Italia: onde i popoli e le città che vivevano civilmente,' e quei principi e signori, i quali non si esercitavano personalmente nella milizia, ma standosi in ozio, col consiglio e con l'armi dei soldati mercenarj mantenevano gli stati loro, bene spesso ricevevano non minori danni dai soldati proprj che da nemici manifesti. (Ibid., pag. 66.)

BALDASSARE CASTIGLIONE.

Nacque a Casatico, possesso di sua famiglia, nel territorio di Mantova a' 6 dicembre 1478, figlio di Cristoforo e di Luigia Gonzaga. Studiò in Milano, dov'è probabile apprendesse il latino da Giorgio Merula e il greco da Demetrio Calcondila, ma coltivò

2

sempre con amore anche la poesia volgare, come prova un codice di rime antiche, da lui posseduto; giovanissimo fu addetto alla corte di Lodovico il Moro. Perdè il padre nel marzo 1499 per ferita riportata nella battaglia del Taro, e nello stesso anno, caduto lo Sforza, ritornò in patria, ove s'acquistò l'amicizia di Francesco Gonzaga, e l'accompagnò nella spedizione di Napoli a favore di Luigi XII. Quando il Gonzaga, vinto al Garigliano (1503), abbandonò le armi di Francia, il Castiglione ebbe licenza di trasferirsi a Roma, dove conobbe Guidobaldo di Montefeltro duca d'Urbino, venutovi con molti dotti e gentili cavalieri a corteggiare il nuovo pontefice Giulio II; e invaghito delle virtù di quel principe, lasciò il marchese di Mantova per seguitarlo. Di che il marchese, che pure e al duca Guidobaldo e al Castiglione stesso aveva accordata la chiesta licenza, ebbe assai dispetto, e non mancò di mostrarlo in varie occasioni. Da Mantova nel 1504 si recò a Cesena, alla quale per conto del papa poneva assedio Guidobaldo, ed

[graphic]

1 Liberi; con forme di civil reggimento.

Vedi V. CIAN, Un cod. ignoto di rime volgari appartenenti a B. C., in Giorn, ator. d lett. ital. XXXIV, 297, XXXV, 53.

ebbe d'allora in poi il comando di cinquanta uomini. Finita la campagna, andò in Urbino (6 settembre 1504), dove Guidobaldo ed Elisabetta Gonzaga sua moglie e la principessa Emilia Pia, tenevano allora splendida corte, e quasi scuola di cortesia, di valore, d'ingegno. Il palazzo del duca era splendido e grandioso, e, come scrisse il Castiglione, tale che non un palazzo, ma una città in forma di palazzo esser pareva: l'arricchivano vasi d'argento.... statue antiche di marmo e di bronzo, pitture singularissime, instrumenti musici d'ogni sorte.... un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri. Laonde a questa corte accorrevano i personaggi più illustri, i più gentili cavalieri, i letterati più insigni, fra gli altri, Giuliano de' Medici, che, come dice l'Ariosto,'

Si riparava in la feltresca corte;

Ove col formator del Cortigiano,

Col Bembo, e gli altri sacri al divo Apollo,
Facea l'esilio suo men duro e strano.2

Egli potè riuscire squisito scrittore, ed ornarsi di tante e si differenti cognizioni, sebbene continuamente distolto dagli studj per attendere agli esercizj cavallereschi o alle faccende della politica e della guerra. Nel 1506 fu a Londra presso Arrigo VII per ricevere per conto di Guidobaldo l'ordine della giarrettiera. Morto Guidobaldo (1508), rimase col successore Francesco Maria della Rovere, che gli diede molte prove della sua fiducia. Segui il duca, che prese parte alla spedizione di Giulio II contro i Veneziani, e ammalatosi gravemente nella prima campagna (1509), fu curato con grande amore dalla duchessa. Alla fine della guerra ebbe in ricompensa il castello di Novillara nel pesarese, e ne fu fatto conte (1513). Morto Giulio II, fu ambasciatore urbinate al Sacro Collegio e rimase in questo ufficio presso il nuovo papa Leone X per quasi tutto il tempo del suo pontificato; e le lettere che ce ne rimangono, fan testimonianza de' molti e gravi affari ch'egli ebbe a trattare. Conobbe allora o rivide molti letterati e artisti, i primi del suo tempo; e divenne amico di Raffaello, di Michelangiolo e di Giulio Romano, che poi condusse al servizio dei Gonzaga. Leone X nel 1516 aveva tolto alla casa della Rovere il ducato d'Urbino per darlo al proprio nipote Lorenzo de' Medici; il Castiglione, avendo ormai da qualche tempo il marchese Gonzaga dismesso l'antico rancore, da Urbino, sul fine del 1515, si recò a Mantova, dove nel carnevale del 1516 sposó Ippolita dei conti Torelli, che nel 1520 ebbe l'acerbo dolore di perdere, restandogliene tre figli. Mandato a Roma come ambasciatore straordinario,

3

1 Sat. III, 90 e seg.

2 Sul C. a Urbino e altrove, vedi LuzIO-RENIER, Mantova e Urbino ec., Torino, Roux, 1893, pag. 174, 234, 242 e segg.

Sui varj disegni di matrimonio del C. e sulla Ippolita, vedi V. CIAN, Candidature nuziali di B. C., Venezia, Ferrari, 1892.

« IndietroContinua »