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e giustissimamente sdegnatasi di spettacolo sì miserando, dette subito all'armi; ed imbarcatosi il doge stesso con quella compagnia che avere si potette in tanto tumulto, seguitando con quanta più celerità si poteva gli assassini scelleratissimi, gli raggiunse pur finalmente nelle paludi di Caprula, modernamente dette Caverle, dirimpetto alla foce del fiume Limino, dagli antichi già chiamato Arsia, che da quel lato chiude la Italia. Quivi, per la mala ventura loro, si erano fermati quegli Istriani in una isoletta, e tenendosi oramai sicurissimi, attendevano senza sospetto a dividere la fatta preda. La qual cosa vedendo il doge, e desiderando di vendicarsi, furiosamente dètte lo assalto. E dopo lungo e sanguinoso combattimento, vendendo i giovani la vita loro assai caramente, gli uccise tutti in su la isoletta, senza camparne pur uno che portasse la nuova a casa: nè satisfatto ancora a suo modo, fece ricôrre i corpi de' morti, e gittargli in mezzo delle onde, per maggiore dimostrazione di giustizia; accennando assai chiaramente con questa severità, che i violatori delle chiese non meritavano di avere la terra per loro quiete, come tutte l'altre persone, ma di esserne cacciati fuori, e lasciati in preda a'pesci e a gli uccelli, senza aver luogo dove fermarsi. Questa vittoria fu sommamente grata al senato ed a tutto il popolo; di maniera che, per conservarne lunga memoria, si ordinò che si facesse ogni anno questo spettacolo nella città, lo stesso giorno che ella era stata: cioè che dodici fanciulle, ricchissimamente vestite, si menassero per tutti i più onorati e più frequentati luoghi della città, con festa ed allegrezza grandissima, e con suntuosa e superba pompa onoratissimamente si accompagnassero, come dovette farsi quel giorno, che la vittoriosa armata del doge rimend le dette rapite, con tutte le spoglie tolte a'nimici. E durò questa usanza poi per quattrocento anni, o meglio, sino a che, occupati nella guerra de' Genovesi, che avevano lor tolto Chioggia, essendo costretti a badare ad altro, la dismessero contro a lor voglia. - (Ibid., lib. V, pag. 294.)

L'arciere Tocco. - Stette costui lungamente a' servizj del re Araldo, cioè alla guardia di sua persona; dove affaticandosi continovamente negli esercizj da soldati, venne in quelli a tanta eccellenza, che e' non trovava chi il pareggiasse, e massimamente a tirare con l'arco. Nel qual esercizio riputandosi (come egli era veramente) unico, ebbe a dire tra' compagni, che e'non era sì piccol pomo, che, posato sopra un bastone in distanza conveniente, non gli bastasse la vista di levarnelo giù di netto con una freccia al primo colpo che e' vi tirava. Questo vanto rapportato al re dagli emoli suoi, invece di arrecargli, per la virtù, onore a favore, gli arrecò invidia e pericolo. Imperocchè disposto il re a vederne la pruova, lo strinse a mettere in atto co' fatti quanto aveva promesso con le parole, protestandoli pub

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blicamente, che, se l'arte non lo aiutava, porterebbe il capo la pena di quanto avesse errato la lingua e la mano. Nè contento alla forma della proposta, volle, come il crudelissimo re de' Persi, verificare questa industria nella persona del figliuolo: ordinando che il bastone, sopra il quale si posasse il pomo, fusse non un legno insensato, ma il proprio figliuolo di esso Tocco. Il quale, vedendosi strignere ad esperimento tanto bestiale, poi che altro più non poteva, affettuosissimamente ammonì il fanciullo di non muoversi in modo alcuno, anzi tenere il capo saldissimo e pari, e sopportare pazientemente lo stridore della freccia, che stando fermo non gli farebbe danno o molestia, e farebbe lui glorioso per la grande arte che e' mostrerebbe. Appresso, perchè egli avesse manco a temere, non volse che e' potesse vedere venire la saetta; anzi lo voltò con le spalle contro a sè stesso: ed allontanatosi al termine posto, cavò tre frecce della faretra, e posta l'una alla corda, senza lesione alcuna del putto, abbatte il proposto segno, con maraviglia somma del re e di chiunque vi era dintorno. Ed in così chiaro fatto non mi so io risolvere qual fusse più degno di ammirazione, o la perizia del padre o la costanza del figliuolo; avendo quel con la industria sua liberato il figliuolo da la morte sì manifesta, e quest'altro con lo star saldo, acquistato salute a sè, ed al padre pregio ed onore. E certamente il corpo del giovine fece gagliardo l'animo al vecchio, dimostrando tanta fortezza in sè stesso nello aspettar pazientemente la freccia, quanto aveva dimostro il padre artifizio nel tirare a tanto bersaglio. Volle sapere il re, perchè avesse Tocco presi tre strali, essendo il patto d'uno solamente. Al che rispose egli con sommo ardire: "Per vendicare in voi stesso con le punte degli altri dui lo errore del primo: acciocchè, per disgrazia, la mia innocenzia non rimanesse con grave pena, e la violenzia vostra senza gastigo." — (Ibid., lib. VI, pag. 368.)1

LUIGI ALAMANNI.

Nacque in Firenze il 3 ottobre 1495. Scolare del celebre filosofo Francesco Cattani da Diacceto, frequentò gli Orti Oricellarj, e vi conobbe il Machiavelli. Per amore alla libertà, nel 1522 congiurò contro il card. Giulio de' Medici, che fu poi Clemente VII; ma la cospirazione fu scoperta, ond' egli, dichiarato ribelle, dovette esulare, e, dopo una sosta a Venezia, si recò nel mezzodi della Francia.

1 In questo racconto che il Giambullari trasse da Sasso Gramatico (XIII sec.) storico delle cose danesi, ognuno riconoscerà la storia o leggenda di Guglielmo Tell. Ma la favola è più autica e d'origine orientale, trovandosi, fra le altre, nel poema persiano di ATTAR, Il colloquio degli uccelli, e raccontandosi tuttora popolarmente in Persia.

Quivi attese a scrivere versi; specialmente in lode di Batina Larcara, nobile genovese, vedova d'Ottobono Spinola, tesoriere e ricevitore generale del Re in Provenza. Dopo questo primo esilio, durante il quale non può dirsi aver egli ottenuto alcun particolare favore dal re di Francia, nel 1527 l'Alamanni tornò a Firenze, donde frattanto i Medici erano stati cacciati. A' suoi concittadini egli consigliò di parteggiare per Carlo V, anzichè per la Francia, il cui aiuto non reputava efficace. Indi a Genova, dove, non si sa bene per qual ragione, trovavasi nell'ottobre del 1527, ebbe varj incarichi dalla Repubblica Fiorentina. Fu in Ispagna con Andrea Doria; nell'agosto del 1529

parlò in nome de' Fiorentini a Carlo V, sbarcato a Savona; durante il memorabile assedio della sua città, restò a Genova presso il Doria, e dai Fiorentini residenti a Lione ottenne soccorsi in danaro per gli assediati. Da Genova nel luglio del '30 fu costretto a partire; ed egli riparò in Francia, e di là assistè all'agonia della libertà fiorentina.2 Caduta Firenze in mano degli Imperiali e del Papa, l'Alamanni fu confinato per un triennio in Provenza. Stabilitosi così oltralpe, attese a procacciarsi il favore

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di Francesco I, e tra il 1532 e il '33 pubblicò due volumi di Opere toscane a lui dedicate. Quel sovrano, mecenate delle lettere, lo prese a ben volere, e gli fece donativi cospicui. Nel 1539 l'Alamanni accompagnò in Italia il cardinale Ippolito d' Este, incaricato dal Re di una missione, e fu a Padova, a Ferrara, a Roma, a Napoli. Nel '41 Francesco I lo mandò, quale inviato straordinario, a Venezia; dal '39 al '44 i continui viaggi, che dovè fare, lo distrassero dall' opera letteraria. Più quieto fu l'ultimo periodo della sua vita, in ispecie dopo ch'egli fu eletto maggiordomo della delfina, Caterina dei Medici. Potè in questo tempo riprendere con maggior

1 L'aneddoto che comunemente si racconta sulla fede del Ruscelli, che l'Alamanni orasse, non è detto in qual tempo e in quale occasione, innanzi all' Imperatore, rammentando spesso l'Aquila, e che Carlo V, infastidito, lo interrompesse citandogli un verso e mezzo già da lui scritto: « l'Aquila grifagna Che per più divorar due occhi porta», appare assolutamente privo di fondamento: e questo è ben certo che quel verso e mezzo non si rinviene nelle rime dell' Alamanni.

2 Il periodo della vita dal 1521 al '31 è narrato da C. CORSO, Un decennio di patriottismo di L. A., Palermo, tip. Marsala, 1898.

lena i suoi lavori poetici pei quali ebbe efficacia anche sui poeti francesi contemporanei, e fra gli altri sul Ronsard.' Mori ad Amboise, dove la corte in quel momento si trovava, il 18 aprile 1556.

L'Alamanni, di patriota trasmutatosi per necessità in cortigiano, seppe mantenere la propria dignità ed il sincero suo amore per l'arte. Scrisse in versi di tutto un poco: poesie amorose, sacre, politiche; elegie, egloghe, satire, selve, stanze, epigrammi; poemi mitologici, romanzeschi ed epici. Il suo Girone il Cortese (Parigi, Calderio, 1548) è un rifacimento in ottave dell'omonimo romanzo francese in prosa; l'Avarchide (Firenze, Giunti, 1570), così intitolata da Avaricum, Bourges, la città che vi si finge assediata, riproduce, pure in ottave, l'orditura e gli episodj dell'Iliade, mutato solo il nome a' luoghi e ai personaggi. Nella Coltivazione (Parigi, Stefano, 1546) poema in verso sciolto, di materia didascalica, sui campi e sui giardini, imitò, non infelicemente, le Georgiche di Virgilio, ma la consuetudine, rimproveratagli fra gli altri, dal Monti, della stucchevole cadenza monotona su la sesta», toglie pregio al suo verseggiare. Compose, inoltre, una commedia, Flora, in cui cercò di riprodurre i giambici ottonarj del teatro latino (e in due luoghi anche i senarj) con un metro nuovo, di sua invenzione; e tradusse in versi, con aggiunte e con mutamenti lievi, l'Antigone di Sofocle. Il prof. F. CASTET ha pubblicato un poema cavalleresco, anonimo e senza titolo, del sec. XVI, nel quale a Guerino il Meschino si dà vanto di esser stipite della casa dei Della Rovere, e per certe indicazioni del cod. lo ha attribuito all'Alamanni, ma la buona critica non ha voluto menar buona tale ipotesi.*

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[Una voluminosa opera sull'Alamanni ha pubblicato H. HAUVETTE, Un exilé florentin à la Cour de France au XVI siècle: Luigi Alamanni, sa vie et son œuvre, Parigi, Hachette, 1903, notevole per larghe notizie biografiche, desunte in parte da nuovi documenti, per copiosa bibliografia dell'edito e dell'inedito, è per ragguagli e giudizj sui diversi scritti dell' A. Per la dimora dell'A. in Francia e la fama ed autorità ch'egli vi conseguì, vedi anche F. FLAMINI, Le lettere ital. alla corte di Francesco 1, in Studj di storia letter. ital. e straniera, Livorno, Giusti, 1895, e per le relazioni coi duchi di Ferrara, G. CAMPORI, L. A. e gli Estensi, in Atti e Mem. della deput. di Stor. patria, Modena, Vincenzi, t. IV, pag. 29 e segg. Sull' Avarchide, anche dopo la pubblicazione del dotto lavoro dell' Hauvette, si posson consultare con frutto

1 Vedi J. VIANEY, Le modèle de Ronsard dans l'ode pindarique, in Revue d. lang. romanes, sett.-ott. 1900.

2 Vedi F. CACCIALANZA, Le Georgiche di V. e la Coltivaz. di L. A., Susa, tip. Subalpina, 1892. Sul saggio di G. NARO, L. A. e la Coltivazione, Siracusa, tip. Tamburo, 1897, vedi Giorn, stor. d. lett. ital., XXXIII, 156.

3 Nella Revue d. lang. romanes, ser. V, III, 453 e segg.
* Vedi H. HAUVETTE, in Giorn. stor. d. lett. ital., XXXV, 171.

E. DE MICHELE, L'Avarchide di L. A., Aversa, Fabozzi, 1895, e U. RENDA, L'elemento bretone nell'Avarchide, Napoli, Giannini, 1899 (cfr. Giorn. stor. d. lett. ital., XXXIV, 448); e su ambedue i poemi, L. GUALTIERI, Dei poemi epici di L. A., Salerno, tip. Nazionale, 1888.-Versi e prose dell'Alamanni pubblicò in 2 vol.P.RAFFAELLI con un Discorso proemiale, Firenze, F. Le Monnier, 1859.]

Esortazione al popolo florentino che si ordini a milizia cittadina (1528)..... Vieni adunque, popol mio fiorentino, e con la grazia di Dio ottimo massimo muovi oggi il piede per questo glorioso e salutevole campo dell'armi; ma siati in mente che non con men riverenza e candidezza d'animo si conviene a te divenire a questo sacratissimo esercizio, che al trattar le divine cose. E qual più santa cosa e qual più degna, qual più da riverire, che il prender le pubbliche armi in mano per difesa, in prima, della santa religione cristiana qualunque volta occorre: appresso, della giustizia, della patria, della libertà, dello onore, dei parenti, de' figliuoli, e di sè medesimi? Conviensi a te in questo lasciar primieramente ogni odio, ogni troppo desiderio di dignità, ogni avarizia, ogni particolare speranza, ogni timore; perdonare a quegli a cui perdona la tua città, quantunque ti senta gravemente offeso; prender gli officj dati da lei, nè ricercar più oltre; trattar quegli senza sete di proprj guadagni; non si lasciar signoreggiar dagli scellerati disegni d'innalzarsi più del dovere sopra i suoi, non temer cosa che possa nuocere, ove la verità ti difenda. Lasciate il disio delle vendette ai barbari uomini, anzi alle fère, le quali non sono atte a ricever dentro quella dolcezza che sente un generoso cuore in perdonar le offese ricevute da' suoi nemici; non desiderate per torte vie d'arrivare agli onori; e vi torni in mente che infra gli uomini saggi e buoni, nessuna è più gran lode che sentirsi nel privato e basso stato render pubbliche ed altissime grazie de' suoi gran fatti; perocchè la virtù sola porta gli onori agli uomini, e non le dignità, come molti falsamente hanno stimato. Non vi lasciate vincere dalla soverchia voglia del possedere; e ricordatevi che il dolce delle ricchezze è cosa immaginata da chi le cerca, e non trovata da chi le possiede, e che, nel vero, nulla è infin più soave che nel suo povero albergo potere alla sua picciola famigliuola contar le egregie sue passate operazioni in difesa e in onor della sua patria: mostrar le ferite ricevute per lei, ed ammonirla come la virtù sola e la vera bontà sono il balsamo de'nostri nomi, il quale ha tal forza, che, malgrado della morte, della fortuna e del tempo gli tiene incorrotti e saldi. Nessuno sia, non volendo offendere Dio, le leggi, la libertà e sè medesimo, che si cinga questa sacratissima vesta dell'armi con altra privata speranza, che con quella di salvare la sua patria ed i suoi cittadini; la

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