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ziente animo gli effetti e l'opere di quelle minaccie senza querela alcuna: così ha l'amore del riposo e dell'ozio mutato ed ammollito il virile animo, che l'inclita vostra patria ebbe già. Noi veggiamo dunque lui esser sollecito e taciturno ed astratto dagli uomini, e niun diletto e niuna consolazione e niun diporto avere nè curare; e oltre a ciò lo sentiamo nella sua lieta e prospera fortuna star pensoso e turbato; e lasceremoci così chiudere gli occhi dalla nostra puerile speranza, che noi non possiamo scorgere nè discernere ciò che egli con sì sollecito studio attenda e procuri? Se egli amasse la pace, anzi se egli non l'odiasse, la sua vita sarebbe lieta, e la sua vista serena, e la sua mente d'infinite cure libera e scarica, perocchè voi vedete che ella è in sua mano ed in suo potere. Che vogliono dire adunque tanti pensieri e tante vigilie? Certo, serenissimo Principe. chi doglioso è in pace, spera in guerra trovar letizia; e chi del suo stato non si contenta, appetisce l'altrui; e chi le più parti e le maggiori avendo non si chiama pago, vuole il tutto: la qual cosa l'imperatore senza alcun dubbio nelle sue lunghe e continue vigilie studia e procaccia. Forse che egli crede con giusto titolo poterle fare; nè io voglio di questo contrastare con esso lui, nè disputare in alcun modo; anzi dico, che, vedendolo io di grand'animo e d'alto intendimento, ed oltre a ciò di lodevole e d'onesta vita, ed in ciascun suo appetito mondo e temperato quanto altro signore che mai fosse, o più, sono di credere costretto, che dalla compagnia di tante e sì chiare virtù non possa essere di lungi vera, o almeno immaginata giustizia. Ma questo che è a noi, serenissimo Principe, se egli sottometterà a sè il nostro Stato? Noi non saremo meno in periglio, perchè egli ciò giustamente faccia, che se fatto l'avesse contro la ragione. Anzi, parendoli la sua impresa giusta e ragionevole. con molto maggior vigore si studierà di fornirla, che se egli ingiusta la sentisse, o se la coscienza in ciò lo mordesse. Noi veggiamo adunque a che sieno intenti i suoi profondi studj, e in che occupata la sua solitaria e sollecita vita; e siamo certi che niun pensiero, niun atto, niun passo, niuna parola, niun cenno dell'imperatore ad altro intende, nè altro opera, nè d'altro ha cura che di torre, o come altri stimano, di ritôrre gli stati, le terre e le città de' vicini e de' lontani, e all' Imperio o darle, o renderle; ed in ciò si consumano i suoi diletti e le sue consolazioni tutte. Queste son le sue cacce, questi gli uccelli, questo il ballare, e gli odori, e il vagheggiare, e gli amori, e le delizie sue. Vera cosa è, che egli in tanta fiamma di desiderio e d'avarizia a voi perdonerà, e struggendo ed ardendo i membri e l'ossa della sconsolata e dolente Italia ad uno ad uno, l'onorata sua testa, cioè questa regal città ed egregia, risparmierà forse? Oimè, che ella fuma già e sfavilla, e voi soli pare che l'arsura non sentiate...... Egli arde dunque ed av

vampa del desiderio di tòrre a voi questo inclito Stato, e suo e de' suoi descendenti farlo; e se egli focosamente lo desidera, noi dobbiamo essere più che certi che esso con caldissimo studio e con infinito ardor d'animo lo procaccia..... Il Papa dunque, e il Cristianissimo re di Francia, e la magnanima e forte e fedel nazione degli Svizzeri questa elettissima città colla mia lingua ad alta voce ora chiamano ed invocano a difender la libertà d'Italia, e la sua, e a partire fra noi le guardie e le vigilie, sicchè noi possiamo resistere agli assalti dell'imperatore, e da' suoi agguati difenderci. Non tardate adunque, e bene avventurosamente le vittoriose armi con si forte e sì fedel compagnia prendete; perciocchè il pericolo e la tempesta, ove la nostra salute vacilla e si sommerge, è grandissima e inestimabile; e niuno argomento abbiamo, e in niuna parte nè terra nè porto prender possiamo per salvarne, se non questo uno di raccozzare le nostre forze divise, ed un corpo farne, e all'onde opporlo. Gli uomini savj e d'alto affare sogliono sperar la pace, e disporsi alla guerra; e non guerra temendo, alla pace apparecchiarsi. A voi sta, serenissimo Principe, a voi, eccellentissimi signori, porre Italia in libertà ed in buono stato; non vogliate sottometterla a barbare genti e senza legge. Venite, aiutiamola, e sostenghiamola. Ella non può cadere in modo alcuno senza la rovina della vostra veneranda patria. Non sentite voi fra le meste e fredde voci di pace, rimbombare il crudo suono e l'orribile strepito dell'armi imperiali? Perchè tardiamo noi dunque, o perchè non moviamo noi a si salutifero scontro la nostra poderosa e vincitrice schiera? Questa inclita città, a divino miracolo e non ad opera umana simile, e tanti navigli, e tanto e sì guarnito imperio del mare e della terra, sono opere e frutti non di lentezza nè di tardità nè d'ozio; ma di travaglio e di vigilie e d'affanno e d'armi. Quell'arte adunque colla quale i vostri nobili e gloriosi avoli l'acquistarono, ora la conservi e difenda. Noi per certo, o vincendo o morendo, la nostra dignità riterremo. (Dalla Orazione per muovere i Veneziani alla Lega, ediz. Manni, pag. 5.)

A Dio.

Questa vita mortal, che 'n una o 'n due
Brevi e notturne ore trapassa, oscura
E fredda, involto avea fin qui la pura
Parte di me nell'atre nubi sue.

Or a mirar le grazie tante tue
Prendo, chè frutti e fior, gelo ed arsura
E si dolce del ciel legge e misura,

Eterno Dio, tuo magisterio fue.

Anzil dolce aer puro, e questa luce
Chiara, che 'l mondo a gli occhi nostri scopre,
Traesti tu d'abissi oscuri e misti:

E tutto quel che 'n terra o 'n ciel riluce,
Di tenebre era chiuso, e tu l'apristi;
El giorno e 'l sol de le tue man son opre.

La Gelosia.

Cura, che di timor ti nutri e cresci,
E più temendo maggior forza acquisti,
E mentre colla fiamma il gelo mesci,
Tutto l regno d'Amor turbi e contristi:

Poi che in brev'ora entro al mio dolce hai misti
Tutti gli amari tuoi, del mio cor esci;
Torna a Cocito, a i lagrimosi e tristi
Campi d'Inferno; ivi a te stessa incresci;
Ivi senza riposo i giorni mena,
Senza sonno le notti; ivi ti duoli
Non men di dubbia, che di certa pena.

Vattene. A che più fera che non suoli,
Sel tuo venen m'è corso in ogni vena,
Con nuove larve a me ritorni e voli?

Al Sonno.

O Sonno, o della queta, umida, ombrosa
Notte placido figlio, o de'mortali

Egri conforto, oblio dolce de'mali

Si gravi, ond'è la vita aspra e noiosa;

Soccorri al core omai, che langue, e posa
Non ave, e queste membra stanche e frali
Solleva; a me ten vola, o Sonno, e l'ali
Tue brune sovra me distendi e posa.

Ov'è l silenzio, che 'l dì fugge e 'l lume?

Ei lievi sogni, che con non secure

Vestigia di seguirti han per costume?

Lasso! chè 'nvan te chiamo, e queste oscure E gelide ombre invan lusingo. Oh piume D'asprezza colme! o notti acerbe e dure! 1

A una foresta.

O dolce selva solitaria, amica
De' miei pensieri sbigottiti e stanchi;
Mentre Borea, ne'di torbidi e manchi
D'orrido giel l'aere e la terra implica;

E la tua verde chioma, ombrosa, antica,
Come la mia, par d'ognintorno imbianchi,
Or che 'n vece di fior vermigli e bianchi,
Ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica;

1 Vedi su questo sonetto G. VELUDO, Di Tizzone Gaetano e d'un son. di G. D. C., in Atti dell' Ist. ven., 1886-87.

A questa breve nubilosa luce

Vo ripensando che m'avanza; e ghiaccio
Gli spirti anch'io sento e le membra farsi.

Ma più di te dentro e d'intorno agghiaccio;
Che più crudo Euro a me mio verno adduce,
Più lunga notte, e di più freddi e scarsi.

(Dalle Rime, ediz. Manni, passim.)

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BENEDETTO VARCHI.

Nacque in Firenze il 19 marzo 1503 (stile comune): la famiglia era oriunda di Montevarchi: suo padre fu Ser Giovanni, procuratore dell'arcivescovado. Giovinetto ancora, fu messo al fondaco, quindi presso un orafo, poi all'arte della lana; ma per l'amore che dimostrava allo studio, fu tolto da bottega e dato a istruire a maestro Guasparri Mariscotti da Marradi, il quale, come il Varchi scrisse poi nell'Ercolano (quesito VIII), avendo saputo ch'egli ed un amico leggevano il Petrarca di nascoso, ce ne diede una buona grida, e poco mancò non ci cacciasse di scuola, non parendogli bene che i discepoli « leggessero cose volgare, per dirlo barbaramente › come i maestri di quel tempo. Di 18 anni fu a studio delle leggi in Pisa, poi si matricolò ed esercitò come procuratore e notaio in Firenze; ma contro suo genio. Ritornò pertanto agli studj prediletti: imparò greco sotto Pier Vettori, ed eruditosi nel provenzale, recò in italiano parecchie vite di poeti di quella letteratura.1 Non rimase peraltro sempre fermo in Firenze, che abbandonò ai tempi dell'assedio. Tornatovi (1532), s'acconciò cogli Strozzi, dei quali segui le sorti, prendendo parte a malincuore all'impresa terminata con la sconfitta di Sestino (1536). A Venezia, attese all'educazione di Giulio, Lorenzo e Alessandro Strozzi, fratelli di Piero, ma, fattosi licenziare per odiosi sospetti, fermò dimora in Padova (1540). Quivi frequentò le lezioni dello Studio, e fu dei primi dell'Accademia degli Infiammati. Nel frattempo, fermatos: due volte per qualche mese a Bologna, potè ascoltare le lezioni del Boccadiferro. Venne richiamato a Firenze (1543) da Cosimo I, che lo forni di notevole provvisione, e fu aggregato all'Accademia fiorentina; ma per turpe delitto accusato e condannato, dovette la grazia all'intercessione di uomini insigni, tra i quali ci piace ricordare Pietro Bembo. Che, chiamato dall'arcivescovo di Salerno, rifiutasse di lasciar Cosimo, è vero; ma che la condanna si debba al risentimento del duca per la fatta

Vedi S. DE BENEDETTI, Ben. Varchi provenzalista, Torino, Clausen, 1902. 2 Vedi C. MARANGONI, Lazzaro Bonamico e lo studio Padovano, in Nuovo Arch. Ven., 1901, pag. 146; F. FLAMINI, Il Canzoniere inedito di L. Orsini, in Raccolta di studi critici dedicati ad A. D'Ancona, Firenze, tip. Barbèra, 1901, pag. 637, e V. CIAN, Cola Bruno messinese, Firenze, 1901, pag. 63.

richiesta, sostennero senza forti ragioni gli amici del Varchi. Il quale, tuttavia, ottenne presto il consolato nell'Accademia (1545), dove lesse con molto favore fino agli ultimi anni della sua vita. Più tardi ebbe l'incarico dal duca di scrivere la Storia fiorentina di quegli ultimi anni. Ma ebbe anche a soffrire e l'aggressione a mano armata d'uno sconosciuto e la sospensione del salario per causa della guerra di Siena. Nel 1546, ritiratosi alla Pieve di San Gavino per non sentir la turba iniqua e fella dei suoi detrattori », rivide con Luca Martini e con altri il testo aldino della Commedia, collazionandolo con ben sette codici." Ebbe dal duca in dono (1558) la villa della Topaia nel fiorentino, dove dimorò gli ultimi anni nella consuetudine di buoni amici, che andava poi a vedere egli stesso a Firenze, a Pisa: tra gli amici son da ricordare il Caro e il Tansillo. Particolarmente affezionati gli furono pure il Bembo, il Molza, il Cellini, l'Alamanni, il Nardi, l'Aretino, Bernardo Tasso, ec. Avendo ottenuto la propositura di Montevarchi, di circa sessantadue anni fu prete e disse messa: ma non aveva ancor preso possesso del nuovo ufficio, quando fu colto da improvvisa morte il 18 dicembre 1565. Il trasporto fu fatto a spese del duca, le esequie solenni si celebrarono per cura di Bastiano Antinori: ne disse l'orazion funebre Lionardo Salviati; molti versi latini e italiani si composero in suo onore. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, dove ora non vi ha più traccia delle sue ossa.3

La scrittura sua più importante è la Storia fiorentina,* che doveva comprendere il racconto delle cose le quali, da che la famiglia de' Medici ultimamente (1527) partì da Firenze, a che ella vi ritornò (1530) intervennero; ma poi la condusse fino al 1538. È in 16 libri. Al Varchi non mancarono mezzi e fonti di ricerca, di cui opportunamente si valse e che per coscienza volle citare; nè gli mancò il coraggio di parlar liberamente in un libro che pur gli era stato commesso dal duca, dacchè vi giudica severamente Clemente VII e bolla del marchio di traditore il Baglioni. Scrisse secondo l'uso e la tradizione classica, compiacendosi di riferire magniloquenti discorsi, ma lo studio e il gusto dell'eleganza non lo

1 Vedi G. MANACORDA, Ben. Varchi, l'uomo, il poeta, il critico, Pisa, Nistri, 1903, pag. 117.

2 Vedi G. BACCINI, Ben. Varchi in Mugello, in Giorn. d'Erudiz., III, 1890, pag. 6, e contro le sue conclusioni G. MANACORDA, Ben. Varchi, uomo, ec. cit. 3 Vedi G. GARGANI, Della sepoltura di m. B. V. nella chiesa di S. M. d. Angeli, ec., Firenze, tip. Barbèra, 1870; I. DEL LUNGO, Rapporto al Sindaco di Firenze delle Commissioni per la ricerca delle ossa di B. V., Firenze, tip. Succ. Le Monnier, 1871.

Vedi F. AGNOLONI, Saggio di studi sulle storie del Segni, del Nardi e del V., Massa, tip. Frediani, 1876; L. FALCUCCI, Alcune osservaz, sulle storie fiorent. del Nardi e del V., Sassari, tip. Gallizzi, 1869.- Un Fiore della Storia del V. fu raccolto da G. RIGUTINI, Firenze, Felice Paggi, 1885. Dal Varchi prende le mosse il Lorenzaccio del De Musset: vedi L. LAFOSCADE, Le théâtre d'A. De Musset, Parigi, Hachette, 1902, pag. 129 e segg.

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