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stello, si sparse la lor quasi infinita moltitudine per ogni loco di Roma: trovarono costor su le porte dei palagi tutti i vecchi padri, e le madri di famiglia, che (e per la morte de' loro valorosi figliuoli, che per la patria, nell' entrare de' nemici, combattendo erano stati uccisi, e per la miseria della città la quale vedeano manifesta, erano involti in lagrimevole abito) offersero loro le case e l'avere, e versando amarissime lagrime da gli occhi, con pietosa e miserabil voce addimandarono mercè, e pregarono che almeno lor salve rimanessero le vite dal furor loro, e quelle della lor gente; le quali voci non pure non mossero a compassione, od a pietà i crudeli animi dei soldati, ma non altrimente gli accesero che se avessero sentiti i suoni delle trombe e dei tamburi che gli avessero infiammati alla battaglia. Costoro adunque per natura fieri, fatti anche non pur dalla vittoria, ma dall'ira conceputa per la morte del loro capitano più feroci e più crudeli, si diedono a fare le maggiori crudeltà e i maggiori strazj, che mai cadessero in animo d'uomo. Perchè essi non perdonarono nè a sesso, nè a persone, nè a età, nè a grado, nè a tempj, nè a sacramenti, nè all'istessa religione del Signore e Redentor nostro. Prima pigliati coloro che sulle porte ritrovarono in abito lugubre chiedere loro mercè, entrarono nelle lor case, e tolsero tutto quello che in esse si ritrovava; e di ciò non contentandosi, fatti i signori delle case prigioni, con ogni spezie di tormento e di crudeltà cercarono di più avere di quello ch'aveano prima avuto.... Vedevansi que' canuti vecchi, l'aspetto dei quali era pieno di gravità e di reverenza, e che dianzi di somma autorità erano stati in Roma, ed erano stati da ognuno e per la lor virtù, e per lo senno loro, e per lo grado riveriti e onorati, da costoro vituperosamente scherniti, e menati, come per giuoco, per tutta Roma. Nè gli studj delle buone arti, nè la matura età, nè la riverenza della religione poterono tôr gli uomini da così fatte vergogne. Parea veramente che quella città, che solea essere vincitrice di tutte le genti, la sede degli onorati trionfi, l'albergo della gloria, e il vero nido della vera religione, fosse stata a que malvagi serbata, perchè alzassero dei più pregiati uomini che in essa si fossero, un vituperoso trionfo alla infamia e al disonore. Ma poichè fu sazia la crudeltà di costoro in quella qualità di gente, che già si è detto, si diedero a spargere il lor furore sopra le cose divine. Peròd ch'essi, nimici della vera religione, entrarono nelle chiese d' Iddio, e tolsero di su gli altari le immagini di Cristo, e quelle della Madre Vergine, e degli altri Santi, ed altre ne bruttarono, alcune altre fecero in scheggie, e n'arsero molte; e a quelle che ne'muri erano dipinte, quasi che sentimento avessero avuto, davano, non altrimenti che se Giudei o Turchi fossero stati, di molte percosse colle loro scellerate Costoro, non uomini, ma fiere, e non meno

arme.

nimici d'Iddio, che delle genti mortali, bramosi di far sempre peggio, entrarono nelle sagrestie dei religiosi, e tolsero di esse tutte le vesti, e tutti i vasi, che a'sacrificj si soleano usare per bisogno de'sacramenti da quei santi uomini, e di quelle vestitisi se n'andarono agli altari, e come se sacerdoti fossero stati, con quelle istesse maniere, e colle cerimonie che con ogni riverenza si soleano usare in onore d'Iddio, e a beneficio di tutto il popolo cristiano, in vituperio della santa Chiesa, come ministri del demonio, spargeano, in vece delle preghiere divote al cielo, bestemmie crudelissime. Le reliquie dei corpi santi trassero dei preziosi vasi, nei quali erano, e le gittarono per le strade, le quali si sarebbero del tutto perdute, se i miseri Romani raccolte non le avessero, e quanto meglio avean potuto, nascondendole, riverentemente conservate, acciocchè cessato quel tumulto, potessono lor dar gli onori, che loro si debbono. Questo male operare di tali uomini, questo schernire, e maltrattare le persone religiose, e ultimamente questo non avere in alcuna stima le cose divine, e sprezzar gli ordini della cattolica Chiesa, avea fatto, che in Roma, che soleva essere il nido di tutta la religione, e quasi la terrena casa d'Iddio, non si udivano più nè messe, nè officj, nè processioni, nè divote preghiere, come per l'addietro nelle cose avverse si soleano udire. Ma in lor vece risonavano pez ogni parte della città parole disoneste, maledizioni crudeli, abbominevoli bestemmie mescolate colle grida e con i lamenti della misera gente Romana. (Dal Proemio degli Ecatommiti.)

ANGELO DI COSTANZO.

Nacque di antica famiglia in Napoli circa il 1507. Allontanatosi nel '27 da Napoli per causa della peste, visse a Somma nella famigliarità del Sannazaro, e raccolse materia al suo futuro lavoro storico. Tornatovi, s'innamorò, secondo alcuno asserisce, di Vittoria Colonna e poetò per lei;1 esiliato dal vicerè Toledo, stette nel proprio castello di Cantalupo; ma nel '49, finito il baudo, fu in Napoli delle principali accademie, e poi nel 1589 della magistratura municipale. Mori nel 1591.

Le sue Rime, che vennero prima pubblicate in molte raccolte (1a ediz. compiuta: Bologna, Barbiroli, 1709) consistono specialmente in Sonetti, metro ch'ei predilesse e trattò con certa gravità non disgiunta da un fare quasi epigrammatico, che talvolta prelude il Seicento. Lodate molto ai suoi tempi, furono più tardi esaltate

1 Vedi contro tale supposizione, P. E. VISCONTI, Consideraz, intorno alla vita di A. di C., Roma, tip. delle Belle Arti, 1844.

Vedi F. TORRACA, Studj di stor. letterar. napoletana, Livorno, Vigo, 1884, pag. 213.

ancor più e pôrte a modello dagli Arcadi, appunto per la forma argutamente concettosa.1 In prosa la sua scrittura principale è la Istoria del Regno di Napoli, divisa in 20 libri, che va dal 1250 al 1486 (1a ediz. compiuta, Aquila, Cacchio, 1582; altra edizione, Milano, Classici, 1805, in 3 vol.), e che è pregiata per accuratezza e per dignità di stile.

[Per la biografia, vedi l'Elogio scritto da B. BARONE, Roma, 1839; la Vita premessa da AGOSTINO GALLO alle Poesie ital. e lat. e prose di A. di C., Palermo, Lao, 1843; SC. VOLPICELLA, Delle poesie e della vita di A. D. C., ec., in Studj di letterat., storia ed arte, Napoli, Classici, 1876; M. BUFANO, A. di C., poeta e storico de! sec. XVI, Napoli, tip. Commerciale, 1899 (cfr. Rass. crit. letter. ital., V, 59).]

La cetra di Virgilio.

Quella cetra gentil che 'n su la riva
Cantò di Mincio, Dafni e Melibeo

Sì, che non so se in Menalo o 'n Liceo,
In quella o in altra età simil s'udiva;
Poichè con voce più canora e viva
Celebrato ebbe Pale ed Aristeo,
E le grandi opre che in esilio feo
Il gran figliuol d'Anchise e della Diva;

Dal suo pastore ad una quercia ombrosa
Sacrata pende, e se la move il vento,
Par che dica superba e disdegnosa:

Non sia chi di toccarmi abbia ardimento;
Che se non spero aver man sì famosa,
Del gran Titiro mio sol mi contento.

Maremoto del 1343 in Napoli, traduzione di una lettera di Fr. Petrarca al cardinale Colonna. — Questo flagello di Dio era stato predetto molti giorni avanti dal vescovo d'un'isoletta qui vicina, per ragione d'astrologia; ma, come suol essere che mai gli astrologi non penetrano in tutto il vero, avea predetto solo un terremoto grandissimo a'venticinque di novembre, per il quale avea da cadere tatta Napoli: ed avea acquistata tanta fede, che la maggior parte del popolo, lasciato ogn'altro pensiero, attendea solo a cercare a Dio misericordia de' peccati commessi, come certo d'avere da morire di prossimo: dall' altra parte molti si ridevano di questo vaticinio, dicendo la poca fede che si deve avere agli astrologi, e massime essendo stati alcuni di avanti certi terremoti. Io mezzo tra paura e speranza, ma un poco più vicino alla paura, la sera del ventiquattro

1 Vedi V. PERI, Le Rime di A. D. C. e l'abate Leonio, in Rassegna Nazionale, 1886, fasc. V.

del mese mi ridussi, avanti che si colcasse il sole, nelI alloggiamento; avendo veduto quasi la più parte delle donne della città, ricordevoli più del pericolo che della vergogna, a piedi nudi, co'capelli sparsi, co'bambini in braccia, andare visitando le chiese e piangendo chiedere a Dio misericordia. Venne poi la sera; el cielo era più sereno del solito; e i servitori miei, dopo cena, andâro presto a dormire: a me parve bene d'aspettare, per vedere come si ponea la luna, la quale credo che fosse settima: ed aperta la finestra che guarda verso occidente, la vidi avanti mezza notte ascondersi dietro il monte di San Martino con la faccia piena di tenebre e di nubi; e, serrata la finestra, mi posi sopra il letto. E, dopo d'aver un buon pezzo vegliato, cominciando a dormire, mi risvegliò un rumore ed un terremoto, il quale non solo aperse le finestre e spense il lume ch'io soglio tenere la notte, ma commosse da' fondamenti la camera dove io stava. Essendo dunque, in cambio del sonno, assalito dal timore della morte vicina, uscii nel chiostro del monastero ov'io abito; e, mentre tra le tenebre l'uno cercava l'altro, e non si potea vedere se non per beneficio di qualche lampo, cominciammo a confortare l'un l'altro. I frati e 'l priore persona santissima, che erano andati alla chiesa per cantare mattutino, sbigottiti da si atroce tempesta, con le croci e reliquie di santi e con devote orazioni, piangendo, vennero ove io era, con molte torce allumate: io, pigliato un poco di spirito, andai con loro alla chiesa; e, gittati tutti in terra, non facevamo altro che con altissime voci invocare la misericordia di Dio ed aspettare ad ora ad ora che ne cadesse la chiesa sopra. Sarebbe troppo lunga istoria s'io volessi contare l'orrore di quella notte infernale; e, ben che la verità sia molto maggiore di quello che si potesse dire, io dubito che le parole mie pareranno vane. Che gruppi d'acqua! che venti! che tuoni che orribile bombire del cielo! che orrendo terremoto! che strepito spaventevole di mare! e che voci di tutto un sì gran popolo! Parea che per arte magica fosse raddoppiato lo spazio della notte. Ma al fine pur venne l'aurora, la quale per l'oscurità del cielo si conoscea, più che per indizio di luce alcuna, per congettura. Allora i sacerdoti si vestiro a celebrare la messa; e noi, che non avevamo ardire ancor d'alzare la faccia in cielo, buttati in terra perseveravamo nel pianto e nell'orazioni. Ma, poi che venne il dì, ben che fosse tanto oscuro che parea simile alla notte, cominciò a cessare il fremito delle genti dalle parti più alte della città, e crescere un rumore maggiore verso la marina. E già si sentivano cavalli per la strada, nè si potea sapere che cosa si fosse. Al fine, voltando la disperazione in audacia, montai a cavallo ancor io, per vedere quel ch'era o morire. Dio grande! quando fu mai udito tal cosa? I marinari decrepiti dicono che mai fu nè udita nè

vista. In mezzo del porto si vedeano sparsi per lo mare infiniti poveri, che mentre si sforzavano d'arrivar in terra, la violenza del mare gli avea con tanta furia buttati nel porto, che pareano tante ova che tutte si rompessero. Era pieno tutto quello spazio di persone affogate o che stavano per affogarsi: chi con la testa, chi con le braccia rotte; ed altri che lor uscivano le viscere. Nè il grido degli uomini e delle donne ch'abitano nelle case vicino al mare era meno spaventoso del fremito del mare. Si vedea, dov' il dì avante s'era andato passeggiando su la polvere, diventato mare più pericoloso del Faro di Messina. Mille cavalieri napolitani, anzi più di mille, erano venuti a cavallo là come per trovarsi all' esequie della patria: ed io, messo in frotta con essi, cominciai a stare di meglio animo avendo da morire in compagnia loro. Ma subito si levò un rumore grandissimo; chè 'l terreno che ne stava sotto i piedi cominciava ad inabissarsi, essendogli penetrato sotto il mare. Noi fuggendo ne ritirammo più all'alto. E certo era cosa oltre modo orrenda ad occhio mortale, vedere il cielo in quel modo irato e 'l mare così fieramente implacabile. Mille monti d'onde, non nere nè azzurre, come sogliono essere nell'altre tempestadi, ma bianchissime, si vedeano venire dall'isola di Capri a Napoli. La regina giovane, scalza, con infinito numero di donne appresso, andava visitando le chiese dedicate alla Vergine madre di Dio. Nel porto non fu nave che potesse resistere: e tre galee, che erano venute di Cipri ed aveano passati tanti mari e voleano partire la mattina, si videro con grandissima pietà annegare, senza che si salvasse pur un uomo. Similmente l'altre navi grandi, ch'aveano buttate l'ancore al porto, percotendosi fra loro si fracassaro, con morte di tutt'i marinari: sol una di tutte, dov'erano quattrocento malfattori, per sentenza condannati alle galee che si lavoravano per la guerra di Sicilia, si salvò; avendo sopportato fin al tardo l'impeto del mare, per lo grande sforzo de' ladroni che v'erano dentro: i quali prolungaro tanto la morte, ch'avvicinandosi la notte, contro la speranza loro e l'opinione di tutti, venne a serenarsi il cielo ed a placarsi l'ira del mare, a tempo che già erano stanchi: e così d'un tanto numero si salvaro i più cattivi: o che sia vero quel che dice Lucano, che la fortuna aita li ribaldi, o che così piacque a Dio, o che quelli siano più securi nei pericoli, che tengano più la vita a vile. Questa è l'istoria della giornata d'ieri. Voglio ben pregarvi che non mi comandiate mai più a commettere la vita mia al mare ed ai venti; perchè nè a voi nè al papa nè a mio padre, se fosse vivo, potrò essere in questo ubbidiente: lasciamo l'aria a gli uccelli, il mare a i pesci, ch'io come animale terrestre, voglio andare per terra.-(Dal lib. VI dell'Istoria del Regno di Napoli, Milano, Classici, 1805, vol. I, pag. 345.)

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