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una sorella di lui, Caterina Alopo. Però Giacomo, intollerante di una tal condizione di vita, fece imprigionare lo Sforza con suo figlio Francesco ed alcuni loro congiunti, poi tolse di mezzo per man del carnefice Pandolfello (1415); nè permetteva che la regina uscisse di Corte, se non accompagnata da persone elette da lui a tale officio. Ma trapassando poi i confini della prudenza, e commettendo a' suoi francesi le principali cariche civili e le fortezze di maggior momento, dispiacque a quei medesimi che avevano applaudito a' suoi primi passi. Si ordì pertanto una congiura, che l'obbligo a deporre il titolo di re, licenziare le sue creature, e lasciar l'amministrazione dello Stato alla regina (1419): ma in vece di lei governavano Muzio Attendolo Sforza e Sergianni Caracciolo; al primo dei quali essa aveva restituito insieme colla libertà anche il grado di Gran Conestabile già conferitogli da Ladislao; nel secondo, che fu eletto Gran Siniscalco e che tenne quell'ufficio per diciotto anni, aveva posta la fiducia e la cieca affezione con cui erasi abbandonata da prima a Pandolfello Alopo. Giacomo, dopo qualche tempo, ebbe a gran ventura di ritornare in Francia, dove si fece monaco e morì in un chiostro l'anno 1438. Ma nè il regno per questa mutazione fu tranquillo, nè Giovanna felice. Istigata dal Caracciolo, si alienò dal Gran Conestabile e lo dichiarò nemico dello Stato; di che trovò tanto contrasto in tutta la cittadinanza, che dovette in quel cambio allontanare da sè il suo favorito. Dominata dalla passione, volle poi richiamarlo di nuovo: e le cose vennero a tale, che unitisi ai malcontenti del regno il pontefice Martino V (Ottone Colonna, romano, 1417-1431) e i Fiorentini, tirarono a sè Attendolo Sforza, e chiamarono al trono di Napoli Luigi III d'Angiò, figliuolo di quel Luigi II, che la prima Giovanna aveva contrapposto già a Carlo della Pace. La regina si volse allora ad Alfonso V re d'Aragona e Sicilia; lo adottò in figliuolo; lo dichiarò suo successore nel regno; e con tal soccorso parò quel colpo che l'avrebbe certamente atterrata. Ricadendo poi sempre negli errori di prima, cominciò bentosto a trascurare Alfonso, preponendogli il Caracciolo; donde non tardò a nascere una guerra aperta. Giovanna guadagnossi Attendolo Sforza; e quando questi mori annegato casualmente nel fiume Pescara (4 gennaio 1424) mentre correva a liberare Aquila assediata da Braccio da Montone, si valse di Francesco suo figlio, non minore del padre nelle armi e molto a lui superiore in tutto il restante: annullò l'adozione di Alfonso e gli sostituì quello stesso Luigi III d'Angiò contro cui l'aveva chiamato. E poichè Alfonso dovette verso quel tempo trasferirsi nell'Aragona per difendere quello Stato da' Castigliani, e il condottiere Giacomo Caldora napoletano tradì i suoi fratelli (Don Enrico e Don Pietro) lasciati da lui luogotenenti in Italia, Luigi III e Giovanna poterono entrare in Napoli e rimanervi senza contrasto. Il Caracciolo abusando, come sempre aveva fatto, il favore della regina, la indusse

ad allontanare da sè l'Angioino costringendolo a stare nelle Calabrie; e finalmente cominciò a comportarsi al tutto da padrone e da re, non astenendosi nè anche dall' irritare Giovanna con oltraggiose parole, perchè cercava di mettere un termine alle sue esorbitanti pretensioni. Di questo suo errore seppero approfittare coloro che (non senza cagione) l'odiavano: i quali indussero Giovanna a ordinare che fosse arrestato, e lo fecero trucidare in prigione (17 agosto 1432). Non per questo però divenne più autorevole o più rispettato Luigi d'Angiò: giacchè le persone che allora potevano sull'animo della regina (oramai rimbambita dagli anni e dal vivere disordinato) non avevano desiderio di giovare a lui. Perciò nel novembre 1434 egli morì in quella stessa abiezione nella quale era stato vivente il Caracciolo. Nel di 2 febbraio dell'anno seguente cessò poi di vivere anche Giovanna; e il trono di Napoli fu conteso di nuovo colle armi.

Lo pretendeva il pontefice Eugenio IV (Gabriele Condolmer veneziano 1431-1447) come feudo ricaduto alla Chiesa. Alfonso invocava per sè l'adozione di Giovanna, nè curavasi della revocazione perchè egli non vi aveva mai consentito. Renato d'Angiò fratello di Luigi III aveva per sè il testamento della regina, ma trovavasi prigioniero del duca di Borgogna. Frattanto, già prima che Giovanna morisse, alcuni principali del regno avevano invitato Alfonso per desiderio di metter fine ai disordini e ai danni di quel governo: ed egli, composte le cose d'Aragona, era passato con molte navi sulle coste dell'Africa, d'onde poi quando gli parve opportuno, si mosse contro Gaeta per dar principio all'impresa. I Genovesi accorsero a difendere quella città piena delle loro mercatanzie; e combatterono con tal successo nelle acque di Ponza (5 agosto 1435) che una sola nave aragonese uscì loro di mano; le altre furono prese o affondate; Alfonso, due suoi fratelli, molti personaggi. notabilissimi rimasero prigionieri. La repubblica di Genova era allora sotto la protezione o signoria di Filippo Maria Visconti: però Alfonso co' suoi compagni di sventura fu condotto a Milano: dove il duca lo accolse e l'onorò come re ed amico, nè volle da lui o dagli altri verun riscatto per rimetterli in libertà, agognando sopra tutto a impedire che risorgessero gli Angioini, e sperando altresì di guadagnarsi con quella generosità un uomo d'alti spiriti e di molta potenza quale era Alfonso. I Genovesi sdegnati gli si ribellarono proclamando indipendente l'antica ma sempre instabile loro repubblica; e gli altri potentati d'Italia diventarono più che mai sospettosi di lui e dei suoi occulti disegni. In quanto al regno di Napoli, non mancò Renato d'Angiò di fare ogni sforzo per conseguirlo, tostochè si fu riscattato dalla prigionía; ma scarso di milizie sue proprie, e scarsissimo del denaro occorrente per assoldar condottieri, non potè resistere ad Alfonso, e nella estate del 1442 uscì d'Italia lasciandolo padrone di ogni cosa. Dopo il famoso Vespro Siciliano riu

nironsi allora per la prima volta in un solo dominio la Sicilia e il regno di Napoli: nè gli Angioini poterono più ritornarvi.

Mentre che dopo tante vicende le cose nell'Italia meridionale riuscivano a questo fine, Francesco Sforza si apriva la strada alla signoria di Milano. Il duca Filippo Maria lo aveva chiamato al suo stipendio quando il Carmagnola, per le cagioni già dette, passò dal suo servigio a quello dei Veneziani: ma presso quel principe circondato da cortigiani sospettosi ed inetti, e pieno egli stesso di sospetti e d'invidia, non poteva essere stabile la fortuna di un uomo intento unicamente a preparare la propria grandezza. Quindi il duca ora commettersi tutto allo Sforza e dargli in moglie la sua unica figlia Bianca, promettergli l'eredità del suo Stato, e dichiararlo intanto signore di Cremona e del cremonese; ora per lo contrario averlo a sospetto, relegarlo a Mortara, privarlo d'ogni comando, e porre insidie alla sua vita: dall' altra parte lo Sforza collegarsi ora coi Fiorentini, ora coi Veneziani a danno del duca suo suocero; poi rompere quegli accordi e ricomporsi con lui. Lo Sforza, per altro, tanto seppe avvantaggiarsi di quelle stesse mutazioni, che in breve, come era la prima spada sul campo, così fu anche il personaggio di maggior momento ne' consigli della politica: e quando morì il duca Filippo Maria (15 agosto 1447), la sua riputazione e la sua accortezza, aiutandolo in parte anche la buona fortuna, lo condussero finalmente a sedere fra i maggiori potentati d'Italia.

Aspiravano alla successione di Filippo Maria il re Alfonso, allegando un testamento vero o supposto: Carlo duca d'Orléans, come erede della propria madre Valentina Visconti figliuola di Gian Galeazzo Visconti e d'Isabella di Francia; e l'imperatore Sigismondo, che vedeva nel ducato un feudo vacante per non avere Filippo Maria lasciata prole maschile. Qualche speranza vi aveva anche Lodovico di Savoia, cognato del duca defunto. Vi agoguavano, senz'altro titolo fuor quello dell'avidità e della forza, i Veneziani e intanto i Milanesi, stanchi di ogni padrone e desiderosi di libertà, ristabilivano la repubblica che chiamarono ambrosiana (1447-1450). In mezzo a tante pretensioni e fra tanti contrasti, non poteva confidare gran fatto lo Sforza nel debole diritto di Bianca sua moglie, e nè anche nelle armi e nondimeno seppe destreggiarsi per tal maniera, che alla fine nella lotta tra i Milanesi e i Veneziani, la vittoria doveva essere di quella parte a cui egli aderisse però i Milanesi, accortisi che quella loro Repubblica ambrosiana sarebbe stata facil preda dei potenti vicini, e non essendo punto concordi tra di loro, preferirono di avere un duca anzichè diventare provincia d'un altro Stato; e come duca lo proclamarono e lo accolsero a' dì 26 febbraio 1450; nè ebbero a pentirsi di tal deliberazione.

Nell'anno seguente, i Veneziani collegaronsi con Alfonso, Lodovico di Savoia, il marchese di Monferrato e la città di Siena

contro lo Sforza; il quale, benchè avesse per sè i Genovesi, i Fiorentini e il marchese di Mantova, benchè avesse favorevole Carlo VII re di Francia, che mandò per lui in Italia quel Renato d'Angiò di cui abbiamo parlato poc' anzi, nondimeno poteva trovarsi in pericolo, se la guerra fosse lungamente durata. Ma la interruppero i buoni ufficj del pontefice Nicolò V, e la caduta dell'Imperio Orientale compiuta da Maometto II, sultano dei Turchi, espugnando Costantinopoli (29 maggio 1453). Perciocchè le repubbliche marittime e commercianti di Venezia e Genova, e tutti generalmente gli Stati d'Italia furono compresi da spavento all'annunzio di questo gran fatto che metteva quei barbari in una fortissima posizione nell'Europa. Si venne quindi a un trattato di pace, che fu conchiuso in Lodi il 9 aprile dell' anno 1454: lo Sforza restitui ai Veneziani quanto aveva conquistato nei territorj di Brescia e di Bergamo, ma conservò Ghiara d'Adda; e potè dopo d'allora considerarsi come possessore sicuro del suo ducato.

Buono può dirsi che fosse sotto ogni rispetto il governo di Francesco Sforza (1450-1466): pessimo per lo contrario quello di Galeazzo Maria suo figlio, cominciato nel 1466; però in capo a dieci anni fu ucciso (26 decembre 1476) da tre giovani nobili congiurati (Carlo Visconti, Andrea Lampugnani e Girolamo Olgiati) nella chiesa di Santo Stefano. In quel frattempo era successo a Niccolò V nel pontificato lo spagnuolo Alfonso Borgia di Valenza che tenne la tiara tre anni (1455-1458) col nome di Calisto III, nè volle mai riconoscere Ferdinando I figliuolo d'Alfonso come re di Napoli, per desiderio di mettere su quel trono il proprio nepote Rodrigo, che poi fu papa Alessandro VI. Lo riconobbe il suo successore Enea Silvio Piccolomini (Pio II di Corsignano, oggi Pienza, 1458-1464) celebrato scrittore umanista, non senza obbligarlo per altro ad un censo annuale ed a restituire Benevento, Pontecorvo e Terracina alla Chiesa, che n' era stata in possesso già prima. Genova, ricaduta nelle sue eterne discordie e quindi ancora nella protezione o signoria di Francia, fu governata da Giovanni d'Angiò, figlio primogenito di Renato, a nome di Carlo VII re di Francia, con grande apprensione di Ferdinando I, per le ragioni che la Casa d'Angiò vantava sul regno di Napoli. Quando pertanto i Genovesi furono stanchi di quello straniero, Ferdinando venne loro in aiuto per discacciarlo: ma l'impresa falli; e Giovanni d'Angiò parve in procinto di risuscitar la potenza de' suoi al di qua delle Alpi. Se ne commossero naturalmente i principi italiani, e specialmente Pio II: quindi sotto colore di volersi accordare contro i Turchi, si fece un congresso in Mantova (1463) per cacciar d'Italia i Francesi. Genova sollevossi di nuovo: il celebre condottiero albanese Giorgio Castriotto (Scanderbeg) approdò a Trani, chiamato dal pontefice per soccorrere Ferdinando: Antonio Orsini principe di Taranto si diede all'Aragonese lasciando l'Angioino; il quale perciò fu costretto a ricondursi in Provenza.

Morirono poi dal 1464 al 1466 Pio II, a cui successe Pietro Barbo veneziano detto Paolo II (1464-1471), il marchese di Monferrato, Lodovico di Savoia, Francesco Sforza (come abbiamo già detto) e Cosimo de' Medici fiorentino: quasi tutti coloro, ch'erano stati personaggi principali nelle cose italiane di quell' età disparvero

Abbiamo già accennato che Galeazzo Maria fu ucciso da congiurati: quindici mesi più tardi vide anche la città di Firenze una somigliante tragedia. Noi sappiamo che sul finire del secolo scorso il popolo fiorentino aveva invitato un Vieri de' Medici (1393) a prendere il governo della repubblica. Questa famiglia venuta dal Mugello, diventata ricchissima nel commercio e una delle prime case bancarie d'Italia, era destinata, per la sua origine mercantile, a trascendere la condizione privata in un paese dove il popolo ad altro non intendeva che a deprimere i nobili. Il primo ad avere veramente una grande autorità nello Stato fu Giovanni di Bicci, del quale può dirsi che, in condizione affatto privata, e senza alcun segno di superiorità, fu capo e guidatore della democrazia, denominata «popolo grasso », allora predominante. Morendo il 20 febbraio 1429, lasciò due figliuoli, Cosimo e Lorenzo, avuti dalla moglie Piccarda Bueri, il maggiore dei quali successo nel favore dei cittadini, diresse i pubblici affari, con autorità di principe e con nome di Padre della Patria, fino al 1° settembre dell'anno 1464; benchè alcuni, specie Rinaldo degli Albizzi, o per invidia o vedendo quanto si faceva pericolosa alla libertà questa famiglia de' Medici, gli congiurassero contro; sicchè fu carcerato, corse pericolo della vita, e stette esule a Padova e a Venezia parecchi mesi (1433-1434). Piero suo figlio (1416-69) non ebbe nè la prudenza nè la felicità del padre e dell'avo: però fu combattuto da nemici interni ed esterni; e sebbene mantenesse il suo grado, non potè spegnere la contraria fazione. La quale nel 26 aprile 1478 tentò di ucciderne i figli Giuliano e Lorenzo, che dopo la morte del padre parevano padroni assoluti della repubblica. Assalironli nel tempio di Santa Maria del Fiore nel momento della consecrazione tanto improvvisamente, che Giuliano rimase ucciso, e Lorenzo a stento potè camparne lievemente ferito. Questo avvenimento ha presso gli storici il nome di Congiura dei Pazzi; perchè alcuni della famiglia ricca e potente di questo nome, benchè uniti di parentado coi Medici, ne furono movitori ed esecutori in gran parte. Vi concorse anche Francesco Salviati arcivescovo di Pisa; e fu opinione di molti che il pontefice Sisto IV non ne fosse ignaro. I congiurati corsero per le vie di Firenze gridando popolo ! e libertà! ma non furono seguitati da alcuno però chi non potè provvedere alla propria salvezza fuggendo, fu ucciso a furore o per mano del carnefice. Il pontefice scomunicò i Fiorentini, perchè impiccarono l'arcivescovo Salviati; ne contento di ciò, raccolse quanti armati potè e incitò contro quella repubblica Ferdinando di Napoli. Gravissimo era il peri

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