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pregammo ancora con molta devotissima mente, ci concedesse grazia di vivere insieme con tranquillità e concordia molti anni lieti, e con molti figliuoli maschi; e a me desse ricchezza, amistà e onore; a lei donasse integrità e onestà, e virtù d'essere buona massaia. Poi levàti diritti, dissi: "Moglie mia, a noi non basta avere di queste ottime e santissime cose pregatone Iddio, se in esse noi non saremo diligenti e solleciti quanto più ci sarà licito, per quanto pregammo essere, e per asseguille. Io, donna mia, procurerò con ogni mia industria e opera, d'acquistare quanto pregammo Iddio; tu il simile con ogni tua volontà, con tutto lo ingegno, con quanta potrai modestia, farai di essere esaudita e accetta a Dio in tutte le cose, delle quali pregasti. E sappi, che di quelle niuna sarà necessaria a te, accetta a Dio e gratissima a me e utile a' figliuoli nostri, quanto la onesta tua. La onestà della donna sempre fu ornamento della famiglia; la onestà della madre, sempre fu parte di dota alle figliuole; la onestà in ciascuna sempre più valse che ogni bellezza. Lodasi il bello viso; ma e' disonesti occhi lo fanno lordo di biasimo, e spesso, troppo acceso di vergogna o pallido di dolore e tristezza di animo. Piace una signorile persona: ma uno disonesto cenno, un atto di incontinenzia, subito la rende vilissima. La disonestà dispiace a Dio e vedi che di niuna cosa tanto si truova Iddio essere severo punitore contro alle donne, quanto della loro poca onestà rendele infami, e in tutta la vita male contente. Vedi la disonestà essere in odio a chi veramente e di buon amore ama; e sente costei la disonestà sua solo essere grata a chi a lei sia inimico; e a chi solo piace ogni nostro male e ogni nostro danno, a costui solo può non dispiacere vederti disonesta. Però, moglie mia, si vuole fuggire ogni spezie di disonestà, e dare modo di parere a tutti onestissima: chè, a quello modo faresti ingiuria a Dio, a me, a' figliuoli nostri e a te stessa: e a questo modo acquisti lodo, pregio e grazia da tutti, e da Dio potrai sperare le preghiere ed i voti tuoi essere non poco esauditi. Adunque, volendo essere lodata di tua onestà, tu fuggirai ogni atto non lodato, ogni parola non modesta, ogn' indizio d'animo non molto pensato e continente. Ed in prima arai in odio tutte quelle leggerezze, con le quali alcune pazze femmine studiano piacere agli uomini, credendosi cosi lisciate, impiastrate e dipinte, in quelli loro abiti lascivi e inonesti più essere agli uomini grate, che mostrandosi ornate di pura semplicità e vera onestà. Chè bene sono stultissime e troppo vane femmine, ove porgendosi lisciate e disoneste, credono essere da chi le guata lodate, e non s'avveggono del biasimo loro e del danno. Non s'avveggono (meschine!) che con quelli indizj di disonestà, elle allettano le turme de' lascivi: e chi con improntitudine, e chi con assiduità, chi con qualche inganno, tutti l'assediano e com

battonle per modo, che la misera e isfortunatissima fanciulla, cade in qualche errore d'onde mai si lieva, se non tutta brutta di molta e sempiterna infamia

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Tutte le mogli sono, a' mariti, ubbidienti, quanto questi sanno essere mariti. Ma veggo alcuni poco prudenti, che stimano potere farsi ubbidire e riverire dalle mogli, alle quali essi manifesto, e miseri servono, e dimostrano con loro parole e gesti l'animo suo troppo lascivo ed effemminato, onde rendono la moglie non meno disonesta che contumace. A me mai piacque in luogo alcuno, nè con parola, nè con gesto, in quale minima parte si fusse, sottomettermi alla donna mia: nè sarebbe paruto a me potermi fare ubbidire da quella, a chi io avessi confessato me essere servo. Adunque sempre me li mostrai virile e uomo; sempre la confortai ad amare l'onestà; sempre li ricordai fusse onestissima; sempre li rammentai qualunque cosa io conosceva degna sapere alle perfette madri di famiglia; e spesso le dicea: "Donna mia, a volere vivere in buona tranquillità e quiete in casa, conviene che in prima sia la famiglia tutta costumata e molto modesta; la quale, stima tu questo, tanto sarà, quanto saprai farla ubbidiente e riverente. E quando tu in te non sarai molto modesta e molto costumata, sia certo quello 3 quale in te tu non puoi, molto manco potrai in altri; e allora potrai essere conosciuta modestissima e bene costumatissima, quando a te dispiaceranno le cose brutte: e gioverà questo ancora, che quelli di casa se ne guarderanno, per non dispiacerti. E se la famiglia da te non arà ottimo esemplo di continenza e costume interissimo, non dubitare, ch'ella sarà poco a te ubbidiente e manco riverente. La riverenzia si rende alle persone degne; solo e' costumi danno dignità; e chi sa osservare dignità, sa farsi riverire; e chi sa fare sè riverire, costui facilmente si fa ubbidire: ma chi non serba in se buoni costumi, costui subito perde ogni dignità e riverenzia. Per questo, moglie mia, sarà tua opera, in ogni atto, parole e fatti, essere e volere parere inodestissima e costumatissima; e rammentoti, che una grandissima parte di modestia sta in sapere temperarsi con gravità e maturità in ogni gesto,* in temperarsi con ragione e consiglio in ogni parola, si in casa tra suoi, si molto più fuora tra le genti. Per questo molto a me sarà grato vedere, a te sia in odio questi gesti leggieri, questo gittare le mani qua e là, questo gracchiare, quale fanno alcune treccaiuole tutto il dì, e in casa e all'uscio e altrove con questa e con quella,

1 Manifestamente, e come miseri o dappoco ec.

2 Disubbidiente, aspra.

3 Sii certa che quello, che ec.

Fatto, azione.

5 Rivendugliole, mercatine, donnette plebee.

dimandando e narrando quello che le sanno e quello che le non sanno; imperò che così saresti reputata leggiera e cervellina. Sempre fu ornamento di gravità e riverenzia in una donna la taciturnità; sempre fu costume e indizio di pazzerella il troppo favellare. Adunque a te piacerà, tacendo, più ascoltare che favellare; e, favellando, mai comunicare e' nostri segreti ad altri, nè troppo mai investigare i fatti altrui. Brutto costume, e gran biasimo a una donna, star tutto il di cicalando, e procurando più le cose fuori di casa, che quelle di casa! Ma tu con diligenzia, quanto si richiede, governerai la famiglia, e conserverai e adoprerai le cose nostre domestiche bene "

Dissili : Moglie mia, reputa tuo uffizio porre modo e ordine in casa, che niuno mai sia ozioso; a tutti distribuisci qualche a lui condegna faccenda: e quanto vederai fede ed industria, tu tanto à ciascuno commetterai;1 e dipoi spesso riconoscerai quello, che ciascuno s'adopera; in modo che chi sè esercita in utile e bene di casa, conosca averti testimone de' meriti suoi; e chi con più diligenzia ed amore che gli altri farà il debito suo, costui, moglie mia, non t'esca di mente molto in presenza degli altri commendarlo; acciocchè pell' avvenire a lui piaccia di essere di di in di più utile a chi e' senta sè essere grato: e così gli altri medesimi studino piacere fra' primi lodati. E noi poi insieme premieremo ciascuno secondo i meriti suoi; ed a quello modo faremo che de' nostri ciascuno porti molta fede e molto amore a noi e alle cose nostre ". (Della famiglia, lib. III, ibid., p. 313-329 passim, confrontato col cod. magliabech. IV, 58, già strozz. 143, e col cod. palat. edito dal PALERMO, Firenze, tip. Cenniniana, 1872.)

MATTEO PALMIERI.

Nacque in Firenze il 13 gennaio 1406. La sua famiglia era popolana, ma di non disagiata condizione. Studiò sotto eccellenti maestri, come Ambrogio Traversari e Carlo Marsuppini, del quale ai 26 aprile del 1453 recitò l'elogio funebre. Ebbe farmacia sul Canto alle Rondini, e la condusse fin che non entrò nella vita pubblica, nella quale ebbe sino dal 1432 molti e onorevoli ufficj2 e tra questi alcune ambascerie. Delle molte cariche da lui sostenute ricordiamo quella di gonfaloniere di compagnia nel 1437, nel

1 Darai da fare a ciascuno secondo la sua fedeltà ed attitudine, e riconoscerai, cioè premierai, l'opera di ciascuno.

2 Vedili enumerati da F. FLAMINI, in Giorn. stor. d. lett, ital., XVI, 33, e nello scritto di A. MESSERI più sotto cit., pag. 273.

quale anno fece il Protesto (Prato, Guasti, 1850) per comandamento de' Signori a' Rettori ed altri officiali che amministrino ragione; di gonfaloniere di giustizia nel 1453, nel 1467 della balía; di ambasciatore nel 1455 ad Alfonso re di Napoli, e per due volte nel 1466 a Paolo II, nel 1473 a Sisto IV. Fu di costumi illibati e rigido osservatore de' doveri de' suoi uffizj. Lasciò di sè un importante Libro di ricordi. Morì in Firenze ai 13 aprile 1475, e ne disse le lodi Alamanno Rinuccini.

Scrisse in latino e in italiano. In latino la cronaca De temporibus (edita in parte dal Tartini, Supplem. ai Rerum ec., I, 209), dove si propose di esporre, sul fare di Eusebio, un sommario storico dalla creazione del mondo sino ai suoi tempi; il De captivitate Pisarum (edito dal Muratori nei R. R. Ital. Script., XIX, 161), che narra specialmente l'assedio di Pisa nel 1406 per opera de' fiorentini ; gli Annali fiorentini (1432-1474), parte in latino parte in italiano; la Vita di Niecolò Acciaioli (edita pur dal Muratori nei R. RI il. Script., XIII, II, 97) tradotta in italiano da Donato Acciaio... Si crede perduta una storia del Concilio di Firenze. In italiano scrisse una Historia fiorentina, dal 1429 al 1474, inedita e autografa nella biblioteca magliabechiana, e un poema, rimasto in gran parte inedito, in cento capitoli in terzine, detto La città di vita: una delle molte imitazioni della Commedia di Dante; cominciato (secondo afferma Leonardo Dati, che ne scrisse in latino un commento) fra il 1451 e il 1455, e già compiuto nel 1465. Il poema non fu pubblicato, ma consegnato (come racconta Vespasiano) dall'autore al proconsolo dell'arte de'notai, con condizione d'aprirlo solo dopo la sua morte: ma riconosciutovi un errore teologico, cioè la professione d'una dottrina eretica d'Origene sulla origine delle anime (cfr. Pulci, Morgante, c. XXIV, ott. 109), fu tenuto sempre segreto. Erroneamente fu scritto e creduto che per tale eresia l'autore fosse dannato al fuoco: sembra soltanto che il suo corpo venisse disseppellito dalla chiesa di San Pier Maggiore e posto fuor del sagrato, ed egli bruciato in effigie.' Più ci importa l'opera in 4 libri in forma di dialogo, dal titolo Della vita civile (1a ediz., Firenze, 1529), che appartiene agli anni giovanili. Nel proemio ad Alessandro degli Alessandri racconta che questi dialoghi hanno avuto luogo in Mugello, durante la peste del 1430, dove erano convenuti coll'autore Franco Sacchetti il giovane e Luigi Guicciardini; interlocutore principale Agnolo Pandolfini, antico et bene ammaestrato cittadino, il quale, quasi con domestico ragionamento, spone l'ordine et virtuoso vivere degli approvati civili. Attinse i precetti da Aristotele, da Sallustio, ma specialmente da Cicerone,

1 Vedi sulla Città di vita, E. FRIZZI, in Propugnatore (1898), XI, 140 e segg.: D. ANGELI, Per un quadro eretico, in Arch. stor. dell'Arte, 1896, pag. 98; G. BoFFITO, L'eresia di M. Palmieri, in Giorn. stor. d. lett. ital., XXXVII, 1.

del quale compendia spesso il De Officiis,' e Quintiliano. Nell'altima parte del libro narra che, dopo la battaglia di Campaldino, un amico di Dante, morto per le ferite, e nel corpo del quale il poeta s'imbatte sul campo, tornando un momento in vita, gli racconta d'essersi trovato nel cielo della luna con Carlo Magno e d'essere stato da lui guidato in un viaggio fra i corpi celesti; che è imitazione del sogno di Scipione nel dialogo ciceroniano De republica (lib. VI). Il Palmieri dichiara d'avere scritto in volgare per conseguire maggiore intelligenza altrui: manca a lui la vera arte del dialogo, ma lo stile, nonostante la copia de' latinismi, che affaticano il periodo, non è del tutto privo di garbo e vigore, ed il trattato è, ad ogni modo, notevole esempio della prosa dottrinale del sec. XV.3

Vedi oltre E. BOTTARI, Sopra cit., G. B. BENVENUTI, Quadri storici, Firenze, Succ. Le Monnier, 1889; A. MESSERI, M. P., cittadino di Firenze nel sec. XV, in Arch. stor. ital., s. II, XIII, 257 (1894), 319 (cfr. Giorn. stor. d. lett. ital., XXV, 451). Sulle dottrini civili e pedagogiche del P., vedi G. B. GERINI, Gli scrittori pedag, ital. del sec. XV, Torino, Paravia, 1896, pag. 205 e segg.)

Prodigioso fatto avvenuto a Dante in Campaldino. — Dante poeta, giovane e desideroso di gloria, apparecchiandosi in Casentino grave battaglia fra gli aretini e gli eserciti fiorentini, eletto un suo fedelissimo compagno, studioso di filosofia e, secondo que' tempi, de' primi eruditi di lettere e di studj di buone arti, se n'andò in el campo de' suoi. Ivi più tempo fermatisi con ottimi consigli molto giovorono a' conducitori degli eserciti. E finalmente venuto il dì della battaglia, e da ogni parte audacemente ordinato le schiere, con dubbiosa sorte più ore si combattè. Infine la fortuna benivola, inclinata la vittoria a' fiorentini, tutti i nimici missono in fuga; e, non sanza sangue e morte de' nostri, ci concedette di tutto vittoria. In quella battaglia, Dante quanto più fortemente potè, s'aoperò; e perseguitando gli sparti e fugitivi nimici, pochissimi scampare poterono le loro mani

1 Vedi E. BOTTARI, Matteo Palmieri, Lucca, Giusti, 1885 (cfr. Giorn. stor. d. lett. ital., VII, 263).

2 Vedi D. BASSI, Il primo libro della Vita Civile di M. P. e l'Institutio oratoria di Quintiliano, in Giorn. stor. d. lett. ital., XXIII, 182. Vedi anche R. SABBADINI in Arch. stor. ital., s. IV, XVII, 149.

3 Contemporaneo al nostro, vi ha un altro Matteo Palmieri, ma non fiorentino, bensì pisano, che fu Segretario Apostolico, e mori nel 1483. Egli continuò la Cronaca De temporibus del suo omonimo, che fu pur essa pubblicata dal Tartini nel Supplemento ai Rerum ec. Scrisse anche un commentario in 10 libri de Bello Italico, sul quale vedasi A. CRIVELLUCCI, in Studi storici, VI, 251; e per maggiori notizie sulla vita di lui, le Me morie stor. d'illustri pisani, III, 225.

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