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vittoriose; e con quello impeto, Bibiena e più altre castella del contado d'Arezzo acquistorono. In questi fatti occupati per due dì, si dilungorono dal luogo della prima battaglia. Il terzo di, ritornati dove erano state le crudeli offese, infra i nimici molti de' loro trovorono morti. In uno medesimo tempo adunque mescolata la vittoriosa letizia col dolore de' perduti amici, gravemente sopportando il danno, chi del parente e chi dell'amico, si consolavano e riconciliavano insieme, dolendosi del caso di chi era finito. Poi per alquanto tempo discredutisi insieme,1 ed in gran parte mitigato il dolore con la gloriosa morte, e consolati della vittoria, si dirizzarono al provvedere delle sepulture, massimamente d'alcuni più scelti e nobili cittadini. Per questo occupati nel ritrovare i corpi, Dante per più tempo avea cerco del suo caro compagno, che per più ricevute ferite era spogliato della mortale vita; finalmente venendo dove il corpo giaceva, subito quegli, che era lacerato e ferito, o risuscitato o non morto ch'ei fusse m'è incerto: ma che innanzi a Dante si levò in piè, e simile a vivo, m'è per fama certissimo. Dante fuori di sua speranza vedendolo rizzare, di meraviglia pieno, quasi tutto tremò, e per buon pezzo perdè la favella, infino che, favellando, il ferito gli disse: "Ferma l'animo, e lascia ire ogni sospetto, però chè non sanza cagione sono per speciale grazia mandato da un lume dell'universo, solo per narrare a te quello infra le due vite ho in questi tre di veduto; sì che ferma lo ingegno, e rècati a memoria ciò ch' io ti dirò, però che per te è ordinato che il mio veduto segreto sia manifesto all umana generazione". Dante, udito questo, in sè riavuto, pospose il terrore, e cominciò a parlare, e disse: "E' mi fia ben caro ogni tuo dire; ma se non t'è grave, satisfàmi prima di tuo stato, acciò ch'io intenda che grazia t'abbia questi tre dì, con tante ferite mortali, sanza nutrimento o sussidio, conservato con tanto valore. Rispose lui: "Assai mi pesa non potere in tutto satisfare alla tua domanda, e volentieri mi ti aprirei tutto, potendo; ma piglia da me quel ch'io posso, che più non m'è lecito promettere. In nello ordinare le nostre schiere, sentendo i nimici forti e bene in punto, mi prese al cuore tanto terrore, che, pauroso e timido, in me stesso stimava eleggere il fuggire e abbandonare il campo de' nostri. In questo proposito perdurai infino che Vieri de' Cerchi, in cui fu quel di la salute de' nostri eserciti, spronando in verso i più multiplicati nimici, gridò: "Chi vuole salva la patria, mi séguiti ". Queste parole da me udite, e vedendo lui, sopra gli altri cittadini nostri ricchissimo e riputato, per carità della patria insieme col nipote e con un suo proprio figliuolo correre a tanto pericolo e quasi certissima morte, mi ri

1 Sfogatisi insieme a parole.

2 Quello che nell' intervallo fra la morte e il risuscitare, ec.

1

presono tanto, che in me medesimo gravemente condannai il mio errore; e, riavuto l'animo, di timido diventai fortissimo, e disposimi ad audacemente combattere, e la vita, con qualunque altro mio proprio bene, posporre per salute della carissima patria. Con così fatto proposito, insieme con molti altri, seguii l'ardire e la franchezza del nostro Vieri; e, valentemente combattendo contro l'audace impeto de' nemici, che con sommo ardire francamente si difendevano, buon pezzo demmo e ricevemmo ferite e morti, infino che noi vincitori avamo 2 in tutto spezzate le due prime schiere. Ed essendo già stanchi, ecco Guglielmino, presidente e capo della parte inimica, con fresca e bene pratica compagnia, si misse in battaglia con tanto ardire ed atterrare de' nostri, che la vittoria certo rinclinava a loro; se non che io, tutto da tanti danni commosso, domandando a Dio riparo de' nostri mali, con impeto spronai pel mezzo de' più spessi nimici ritto a Guglielmino, capo di tutti, e, come a Dio piacque, lui con mortale ferità atterrai. Ivi subito da tutta sua gente accerchiato, per buon pezzo mi difesi; infine, mancando alle mie membra vigore, forato come tu mi vedi, lasciai loro di me sanguinosa e bene vendicata vittoria. Qui comincio io ora a inombrare in me medesimo, nè so bene alla tua domanda satisfare, se io rimasi nel corpo, o se fuori del corpo viveva in altro; ma vivo era certo, e dalle gravi membra mi sentia intrigato, come colui che aiutare non puossi, quando di suo pericolo sogna. Ed ecco, senza sapere come, mi ritrovai al confine d'una lucida rotondità, fuori d'ogni misura dai miei occhi prima compresa. Questa mi parea d'altrui lume s'ornasse di tanto splendore, che a tutta la terra porgesse luce. Io, desideroso di salire in quella, era in me medesimo chiuso, nè mio valore espediva: ed ecco uno vecchio di reverente autorità m'apparve, in vista simile a una imperatoria maiestà, da me più volte veduta dipinta. Come io il vidi, tutto tremai: egli, presa la mia destra, disse: "Sta' forte, e ferma l'animo tuo a quello che io ti dirò, e rècatelo a memoria ". Io pe' suoi conforti in parte riavuto, tremolante cominciai: Ottimo padre, se t'è lecito, e se a me non è vietato tal dono, per grazia non ti sia grave dirmi chi tu se', prima entri in più lungo sermone ". Benignamente rispose: Carlo Magno fu' io nominato in terra". "Troppa grazia m'è vederti, diss'io, imperadore santo!" E chinato religiosamente, gli posi la bocca a piedi: poi, rilevato, soggiunsi : non solo la grandezza e la gloria de' tuoi egregi fatti, ma la eccellenzia ancora di molte tue virtù, la mansuetudine, la clemenzia, la somma giustizia e ordinato modo di tutti

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Carlo,

servano.

.....

i tuoi detti e fatti aggiunti e ornati dalla dottrina e studj delle divine ed umane lettere, fanno che meritamente tu sia Magno nominato e certo la fama tua e la tua gloria, come è degno, dura e durerà sempre col mondo, infino alle stelle notissima. Tu per la fede cristiana contra molte nazioni combattesti: la Spagna, la Fiandra, la Gallia ed infino nell'ultima terra britannica ed Ibernia, superasti e facesti fedeli poi, rivolto a riparare alle miserie d'Italia, prima quella già per cinquecento anni serva de' barbari, dalle inani di Desiderio tiranno liberasti, ponendo fine all' impeto e furore de dannosissimi Longobardi. Il Sommo Pontefice, ingiuriato e per molti anni fuori di sua degnità, nell'antico onore e suo pristino stato nella apostolica sedia restituisti: lo imperio, per molti secoli abbandonato, alla sua degnità rilevasti, e in te uno si riebbe la salute de' cristiani, e gran parte di mondo fu da te riparata e libera". Volendo io seguire, il padre santo mi interruppe dicendo: "Tu parli meco superfluo, e ritardi quello che ti farà contento: ferma l'animo tuo, e conosci che tu se' nel mezzo dell'universo. Tutti quegli immensurabili corpi, che sopra te tanta luce diffondono, e per elevazione d'ingegno contemplare si possono, sono eterni, e prime cagioni che immutabili si conQuesto gran lume infino al quale tu se'da te stesso salito, è la Luna". ... A questo ti prometto eh'io diventai per maraviglia stupido, nè mai l'arèi riconosciuta, tanto mi parea disforme da quella che di terra si vede, e di grandezza vinceva ogni nostra misura. Io per reverenzia non interruppi, ed egli segui: "Questa è il confine tra la vita e la morte: da qui in su ogni cosa è eterna letizia ed immortal gaudio: disotto, sono tutti i mali, i tormenti e le pene che sostenere si possono . . . . . L'anima, serrata ne lacci corporei, agevolmente nell'inferno per aperta porta ruina: l'opera faticosa è poi rivolgere in su e salire alle superne stelle..... Niuna cosa si fa in terra a Dio più accetta che amare la giustizia, la clemenzia e la pietà: le quali cose, benchè grandi sieno, in nella patria sono sopra ogn' altre grandissime. A' conservatori di quella largamente è aperta la via a andare in cielo, in quegli sempiterni luoghi che tu quinci vedi". Udito questo, con timore e reverenzia domandai se e' m'era lecito passare per quelle luci eterne. Rispose lui: "Solo l'ardente amore che ti fe', per carità della patria, in Campaldino fortemente combattere, ti fa degno a questo, nè a niuno altro comanda Iddio che tanto liberalmente s'aprino queste porti, quanto a' governatori delle repubbliche, che conservano la moltitudine de cittadini insieme legittimamente ragunati in unione di congiunta dilezione. Questa diffusa carità intorno all'universale salute sempre fu mia guida in terra: ora in cielo, di molto maggior bene co' beati mi contenta: e tanto mi piace ancora la virtù, che questo giù fra i mortali cura

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che per unito volere me gli fo amico: per questo mosso, e veduto che per carità del mio Firenze, il quale io già riposi in terra, eri morto, infino a te discesi, per mostrarti la gloria s'aspetta da ciascuno che in vostra vita a questo intende" Poi, ammonitomi che a uomo per la suprema entrare non lece, mi messe dentro per la porta di Granchio. . . . . Quivi vidi io l'anime di tutti i cittadini, che hanno nel mondo con giustizia governato le loro repubbliche, fra' quali conobbi Fabrizio, Curio, Fabio, Scipione e Metello, e molti altri che, per salute della patria, loro e le loro cose posposono . . Carlo, tutto lieto, a me rivolto disse: ....."Nulla opera fra gli uomini può essere più ottima che provedere alla salute della patria, conservare le città e mantenere l'unione e concordia delle bene ragunate moltitudini: in nelle quali cose chi si esercita innanzi ad ogn' altro, in queste divine sedie, come in loro propria casa, eternalmente con gli altri beati contenti vi. . Dante, inteso con maraviglia tutte queste cose, volle rispondere: "E poi che tu mi hai significato tanto eccellente premio, con ogni diligenzia io mi sforzerò seguire in questo ". Ma il cominciare e cadere il corpo del suo amico morto, fu in uno tempo. Onde, poi ebbe assai in vano aspettato si rilevasse, provide alla sepultura, e ritornossi allo esercito.

veranno

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ALESSANDRA MACINGHI-STROZZI.

Nacque nel 1407, e nel 1422 era sposata a Matteo Strozzi. Ebbe numerosa figliolanza; quattro femmine e cinque maschi. Il marito, esiliato nel novembre 1434 da Firenze, lasciandovi l'Alessandra con cinque figli, andò a Pesaro dove mori di pestilenza, e con esso morirono anche tre figli; e le spoglie di tutti l'Alessandra ricondusse a Firenze, dove visse con sottile industria, sollecita solo del bene de' suoi. Delle due figliuole maritò Caterina con Marco Parenti, Alessandra con Giovanni Bonsi. I figliuoli furono esiliati nel 1458, e di essi, Filippo andò a Napoli, dove insieme con Matteo e con Lorenzo, che era stato a Valenza, Barcellona, Avignone e Bruggia, attese al commercio. Qualche volta furono a Firenze per riveder la madre che, sperando prossimo il loro ritorno, li attese in patria, dove per grazia di Piero de' Medici, che levò loro il bando, poterono essi, salvo Matteo morto nel '59, tornare nel 1466. Volle la buona madre provveder di buone mogli i figliuoli, e vide rifarsi e crescere la dispersa famiglia: morì l'11 marzo 1471 e fu sepolta in Santa Maria Novella.

Che ciò fa ch'io ami i mortali che seguono la virtù.

Restano di questa madre amorosa 72 lettere, dall'agosto 1447 all' aprile 1470, dirette ai figliuoli esuli e lontani, che con belle Ilustrazioni furono pubblicate da C. GUASTI col titolo: Lettere di una gentildonna fiorentina del sec. XV (Firenze, Sansoni, 1877). In aggiunta a queste ne pubblicò un'altra I. DEL LUNGO (Firenze, Carnesecchi, 1890). Esse, oltre all'importanza propria a siffatti documenti domestici, hanno grande schiettezza e candore di lingua e di stile; e porgono immagine del comune parlare fiorentino del tempo, senza orpello di cercati ornamenti. Nella Lettera che riferiamo si vedrà come riflessa l'immagine dell'Alessandra; tenera madre, provvida massaia, caritatevole ai poveri, fervida credente.

[Vedi PH. MONNIER, A. M. Strozzi, in Biblioth. univers. Revue Suisse dell' ottobre 1893, e GIULIA FRANCESCHINI, Le lettere di A. M. S., Firenze, Stabil. tipogr. fiorent., 1895.]

Lettera a Filippo degli Strozzi, in Napoli. — Al nome di Dio. A dì 6 di settembre 1459. Figliuol mio dolce. Ensino a di 11 del passato ebbi una tua de' 29 di luglio, come el mio figliuolo caro e diletto Matteo s'era posto giù ammalato: e non avendo da te che male si fussi, senti' per quella una gran doglia, dubitando forte di lui. Chiama Francesco, e mandai per Matteo di Giorgio; e intesi d'amendue come el mal suo era terzana: che assai mi confortai, però che delle terzane, non s'arogendo1 altra malattia, non se ne perisce. Di poi, al continovo da te son suta avvisata come la malattia sua andava assottigliando: che pur l'animo, ben che avessi sospetto, mi s'alleggierava un poco. Dipoi ho come addì 23 piacque a Chi me lo diè di chiamallo a sè, con buon conoscimento e con buona grazia e con tutti e'sagramenti che si richiede al buono e fedele cristiano. Per la qual cosa ho auto un'amaritudine grandissima dell'esser privata di tale figliuolo; e gran danno mi pare ricevere, oltre all'amore filiale, della morte sua; e simile voi due altri mia, che a piccolo numero sete ridotti. Lodo e ringrazio Nostro Signore di tutto quello ch'è sua volontà; chè son certa Iddio ha veduto che ora era la salute dell'anima sua: e la sperienza ne veggo per quanto tu mi scrivi, che così bene s'accordassi a questa aspra e dura morte: e così ho 'nteso per lettere, che ci sono in altri, di costà. E bene ch'io abbia sentito tal doglia nel cuore mio, che mai la senti'tale, ho preso conforto di tal pena di due cose. La prima, che egli era presso a di te; chè son certa che medici e medicine e tutto quello è stato possibile di fare per la salute sua,

1 Non aggiungendovisi. 2 Andava diminuendo. 3 Consentisse col cuore.

Da lettere di Napoli venute ad altri in Firenze.

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