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raneo, non rimase veruna progenie nobile o grassa popolana, che affatto o per lo meno in gran parte non ne venisse lacerata: tutti quasi i cavalieri, i ricchi negozianti, i savii giudici, i prelati riverendi, i devoti claustrali, i giovani di bell'aspetto..." (1). Mancava tuttavia ad Ezelino il titolo di Signore; ma un dì il popolo di Verona nella ebbrezza delle feste A. 1250 bandite per celebrarne le nozze non esitò d'attribuirglielo.

Ciò conseguito, il signor da Romano s'univa ad Uberto Pelavicino e Buoso da Doara, tiranni ghibellini di Cremona, coll'intento di soggiogare Brescia e Milano. Già egli diceva, di volere in Lombardia fare impresa non più veduta da Carlomagno in poi. Nè, se mai costanza di proposito, acutezza di divisamenti, efficacia d'esecuzione, furono doti necessarie per ingrandire, queste doti mancarono ad Ezelino. S'aggiunse in suo favore la fortuna, cui i deboli temono, i forti assog. gettansi: ed Ezelino colla grande fatica se l'era resa tanto amica da credersela stoltamente tributaria. Però, dopo avere acquistato Brescia di comune accordo col Doara e col Pelavicino, non dubitò di scacciarneli improvvisamente, ed usurparsela tutta. Poscia sapendo che l'esercito di tutti i suoi nemici gli rumoreggia alle spalle ed i Torriani sono usciti da Milano per assaltarlo di fronte, con audacissimo consiglio per un'altra strada accorre verso questa città, rimasta vuota di difensori e piena di tradimenti. Volle il destino che i Torriani, avvertiti a tempo, vi rientrassero prima: sicchè Ezelino, respinto da Milano, e chiuso

(1) Monach. Patav., Chr. I. 687.

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tra grossi eserciti e profondi fiumi, si trovò al punto 2 sett. di doversi aprire colla spada il passo dell'Adda. Quivi un sol giorno abbattè la signoria, che due secoli di bravura e di accortezza avevano preparato. La dominazione di Ezelino venne detta tirannide, e fu; col tempo si chiamò legittima quella degli emuli suoi.

Gli effetti di questa caduta furono quali soglionsi osservare presso popoli già corrotti, che levinsi per impeto dalla oppressione. Cominciossi dalle vendette: ma mentre tutta la Marca sollevata acclama cupidamente il nome di libertà, e strascina Alberico da Romano a coda di cavallo, e ne arde vive la moglie e le figliuole, e rade il nome di Ezelino dalle pubbliche pergamene, Uberto Pelavicino col titolo di capitano piantava signoria in Brescia, e Verona eleggeva podestà Mastino della Scala, già soldato e castellano d'Ezelino. Così non si era fatto che mutar di padrone. Due anni dopo il medesimo Mastino vi veniva creato capitano del popolo, e cotesta signoria si perpetuava in lui e nella sua stirpe. Con qual modo i venturieri di Cangrande la dilatassero insino a Padova, vedrassi più tardi.

Tali furono i frutti conseguiti da Ezelino col sussidio de'mercenarii stranieri. Nè essi furono i soli, che gli imperatori ed i re di Napoli concedessero a questo o quel signore, acciocchè gli servissero a stabilirgli una signoria. Quanta parte le guardie sveve ed angioine abbiano avuto nel piantare novelle dominazioni in Italia, e abolirvi col governo a comune le antiche milizie cittadine, vedrassi nel seguente capitolo.

CAPITOLO SESTO

Le guardie sveve e angiolne.

A. 1200-1320.

1. Gli sforzi fatti da Federico II per ristaurare le milizie naturali dello Stato non lo dispensano dal servirsi di venturieri. Ne cresce l'uopo pel figliuolo di lui Manfredi.Le guardie sveve di Toscana e Lombardia composte di mercenarii. Com'esse giovino a ingrandire i signori Ghibellini. Vicende di Uberto Pelavicino e Buoso da Doara.

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II. Ordini feudali della Provenza. Carlo d'Angiò costretto a commettere a venturieri l'impresa di Napoli. Loro ricompense. Non altrimenti che di venturieri si compongono le guardie angioine della Toscana e Romagna. Sforzi di Guido da Montefeltro contro di esse. Sue vicende.

III. Le guardie angioine in Piemonte alle prese cogli stipendiarii di Guglielmo di Monferrato. Costui grandezza,

gesta e caduta. Progressi della potenza angioina in quelle parti. Caduta di que'Comuni.

IV. Le guardie sveve e angioine preparano le vie alle compagnie di ventura. Fatti del Dalmasio e de'suoi Catalani.

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CAPITOLO SESTO

Le guardie sveve e angioine.

A. 1200-1320.

I.

Se proprio della feudalità era il bisogno di servirsi delle milizie mercenarie, molto più questo bisogno si manifestava allorchè, stante il disordine della pubblica amministrazione, non si potevano godere nemmeno tutti interi i vantaggi di quel sistema. Sulla fine del XII secolo la stirpe sveva sottentrò per violenza A.1191 alla normanna nella dominazione delle Due Sicilie: ma sanguinavano ancora i palchi, su'quali alla più fiorita nobiltà del regno erano stati mozzi i capi o svelti gli occhi, quando Enrico vi conquistatore della nobile provincia si moriva, e il nuovo stato perve- A.4497 niva in Federico II ancor pargoletto in fasce. Qual confusione vi nascesse, è facile immaginare. Ordinamenti nuovi stavano sovrapposti ad antichi nè affatto aboliti, nè mantenuti affatto; il desiderio della pristina signoria serviva di velo a' baroni per ricoprire la bramosia di indipendenza; le soldatesche imperiali erano strumento a Marquardo di Annewil per devastar la contrada e aspirarvi a tirannide; e mentre una mano di venturieri francesi la invadeva sotto pretesto di rivendicare a Gualtieri di Brienne antichi

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