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tro, entrambe si trovarono aggruppate in una sola persona: sicchè non si potendo dividere, si tentò di rapire. L'impero volle arbitrare nelle elezioni dei vescovi; il papa volle disporre dell'autorità temporale unita nella persona del vescovo alla spirituale. Sorse allora una lotta, che entrambi i poteri forte scrollò. Vinse alla fine la Chiesa; la quale oltre la unità delle sue credenze, s'era appoggiata a un nuovo elemento di forza, la rigenerazione dell'Italia.

Il principio imperiale battuto a Legnano, venne a patti a Costanza. In sembiante parve un vincitore, che largisse leggi a un vinto; in realtà l'Italia era perduta per esso. Del resto rimasero in piedi tutte le forme e prerogative imperiali: la libertà (o checchè fosse ciò che si designava con tal nome) fu goduta come una temporanea concessione degli imperatori. In somma un nuovo sistema di cose era stato innestato sopra antiche forme.

Di qui derivò una strana confusione nel sentire politico: imperocchè quel principe, che tratto tratto scendeva le Alpi per fregiarsi della corona italica e imperiale, e confermare ai Comuni le forme loro governative, punto non comandava ne' tempi ordinarii nè per sè, nè per mezzo di luogotenenti. Due autorità esistevano adunque ne'Comuni italiani, l'effettiva e la nominale; l'una continua e locale, esercitata da magistrati scelti dal pubblico suffragio : l'altra temporanea e lontanissima, risuscitante a volta a volta che calava un imperatore. Ora, finchè le due autorità stavano unite, una anzichè elidere, rafforzava l'altra. Ma quando erano discordi (e questo poteva accadere da oggi al domani, stante il con

tinuo rivolgersi delle fazioni), quale strano tumulto non dovevano elleno mai generare negli animi? L'alto dominio dell'impero sopra i Comuni d'Italia, che fu combattuto le cento volte colle armi alla mano, non su mai negato teoricamente dalla gran massa de' popoli italiani. Eppure non altrimenti che sopra un'esatta definizione di questo alto dominio poteva fondarsi la scienza politica!

Lo stesso dicasi dell'autorità pontificia. Quasi nessuno abitatore d'Italia negava la potestà spirituale del sommo Pastore: ma tostochè una città andava smembrata in Guelfi e Ghibellini, metà d'essa trovavasi a fronte non solo delle armi temporali del papa, ma eziandio delle spirituali. Alle prime contrastavasi con armi somiglianti: contro alle seconde qual altra difesa era mai, se non negarne l'autenticità? Resistevasi adunque negli aperti campi, resistevasi nelle segrete coscienze: e l'animo sforzavasi di celare a se medesimo l'autenticità di quel potere e di quelle dottrine, da cui riceveva troppo travaglio. Le crociate bandite addosso ai signori ghibellini di Lombardia furono tanto contro a nemici tiranni, quanto contro ad eretici e d'eretici ricettatori.

Quali inciampi questo violento contrasto interiore apparecchiasse al verace adempimento delle cattoliche massime, è facile immaginare. Perciò vedevi ciascuno come astretto a far concordare nel suo cuore le credenze colle passioni: e da una parte l'utile anzi la necessità della propria esistenza, dall'altra l'innata coscienza avvalorata dall'educazione, dagli esempi, dalle memorie, rompervisi entro quotidiana battaglia. Quindi non sia meraviglia, se l'e

sterno all'interno non affatto corrispondesse. Largheggiavano nelle dimostrazioni i Guelfi; perchè conveniva loro che religione, papa e guelfismo fossero riputati tuttuno: ned erano alieni dal compiacervisi talora i Ghibellini altresì, affine di separare, se fosse possibile, presso l'opinione pubblica il sentimento politico, cui guerreggiavano, dal principio religioso, che non volevano disconfessare (1).

Ai mali derivanti evidentemente da ciò si aggiunga, che alcuni punti di liturgia, di disciplina e scolastica, non ancora definiti per mezzo di concilii e di formole precise, davano luogo a strane interpretazioni: la mente umana talora ricercava il vero dov'era errore ed assurdità; ed ecco ignoranza e corruttela comporne scismi ed eresie, e la politica valersene come instrumento di guerra: infine alle astinenze da anacoreta venire talfiata congiunta la superstizione da pagano.

Tali nubi velavano, in un secolo di forte sentire ed operare, la religione, tuttochè di basi certissima, di nome, d'instituto universale ad ogni classe e partito. Or che dovrà dirsi delle parti meno sicure del patrimonio intellettuale e morale delle nazioni? Invano avresti chiesto alla scienza principii generali, dimostrazioni esatte, dirette applicazioni. Invano avresti chiesto allo Stato un sistema di prima e di seconda istruzione. La via d'arrivare alla verità non era nota alle masse: v'arrivava l'individuo d'eletta natura, quasi senza saperlo, per intuizione. Ma da quanto diversi principii non partiva egli! La prima algebra,

(1) Di qui le gravi persecuzioni di Federico II contro gli eretici.

la più abbondante descrizione dell'Asia transgangica, la più faconda prosa del medio evo vennero fuori dagli scanni polverosi d'una ragione di traffico. Ricorderemo noi, che la più bella cronica volgare fu scritta da lui, che primo sventolò il gonfalone del popolo di Firenze, ad esecuzione degli ordinamenti di giustizia contro i grandi? Il ristauratore della dipintura esci di fra le mandre, il divino poeta dai tumulti del priorato e dagli affanni dell'esiglio.

Ben è vero, che in mancanza di metodi certi e di generali principii, s'era procacciato un fondamento al ragionare nell'autorità. Ora appunto questa infallibilità attribuita al precettore, qual cosa era mai, se non il più cieco sagrifizio reso all'individualismo? Ma nel caso in cui questo sagrifizio non fosse bastato a quetare gli spiriti del generoso pensatore; allora la sua menté non aveva misura delle proprie forze, non limiti del proprio errore; chè gli esempi della civiltà grecoromana o erano mal conosciuti, o per tanto divario di tempi e di costumi pressochè sterili: la nuova civiltà poi spuntava allora. Quanti esperimenti, quante illusioni, quanti giri adunque prima di arrivare ad una verità! Ne' tempi nostri la strada per la quale si procede insino alle soglie della scoperta, è notissima e piana; e molti aditi la scienza stessa richiude, dimostrandoli d'inutile o pernizioso tentativo, molti agevola co❜metodi che somministra. Nel medio evo, atteso il difetto di dati precisi, nessuna parte di errore o di sapienza umana stava chiusa all'audacia dell'individuo. Quindi è che ognuno s'avventura, anche senza sua saputa, a nuove vie; ognuno spiega a sua posta le occulte cagioni e mentre questi da avara impresa

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di convertire in oro vili metalli, giunge inaspettatamente a preziosi risultati chimici; tal altro dal problema della quadratura del circolo sale senza quasi avvedersi alla teoria de' numeri. Ma frattanto quanti sono, che si smarriscono nella solitudine d'ipotesi e di sistemi, oppure velano di mistero o d'assurde spiegazioni il poco vero trovato per intuizione! Quante volte a scoprirlo più non mancava che un passo, e quel breve varco morte o aberramento troncò, e senza speranza ch'altri sottentrasse all'ardua impresa; perchè un solo della razza umana conosceva quel sentiero, e il conosceva perchè scoperto da lui!

La scoperta fu operazione individuale in tutti i tempi, e sarà; ma proprio del medio evo era, che anche la massa delle cognizioni e lo studio passivo fosse alla mercè d'individui. Ne' nostri tempi verguzze quasi impercettibili di piombo bastano a tramandare a' più remoti siti la dottrina, e concordarne i metodi, e generalizzarne l'acquisto: sicchè non appena v'hai arrecato una modificazione per quanto lieve, che già tutto il mondo ne è partecipe, e l'ha perfezionata e divolgata. Ora nel medio evo non erano tipi mobili, non corrispondenze certe, non giornali: la scienza si comunicava col mezzo de' viaggi. Intraprendevansi per leggere un autore, intraprendevansi per copiarlo, o spiegarlo altrui. Professori assoldati d'anno in anno apportavano a questa università il sapere di quella : studenti sopraggiunti dalla Scandinavia bevevano a Bologna od a Parigi l'ammasso sconnesso delle nozioni raunate da un maestro: poi ripatriavano carichi delle copie dei libri più riputati (1). Poveri fuorusciti in(1) Libri, Hist. des mathém. t. II. 110.

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