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Il lungo e timido governo di Roberto d'Angiò, se A.1309 aveva procurato molti anni di pace al regno di Napoli, non ne aveva però accresciuto nè le forze nè l'unione, che di vera e nobile pace debbono essere i fondamenti. Vano e leggiero, e per vanità e leggerezza fautore delle lettere e de' letterati, Roberto misurava da' denari la potenza, e, come debole di mente mise ogni suo studio ad ammassarne. Co' denari pensava egli d'avere soldatesche a sua posta, e colle soldatesche gloria e felicità; nè osservava che non è vera gloria là dove non è perfezionamento, nè darsi perfezionamento senza sicurezza, nè sicurezza senza armi proprie. Così riputò egli pace l'ignavia, affetto l'abbiezione; così il popolo s'addormi in un sonno fatale, così la nobiltà aguzzò in segreto le sue pretensioni contro il poter regale; mentre quel principe che avrebbe dovuto riunire in un solo scopo le membra dello Stato, rotte per tante gare e conquiste, tollerava che il tempo sotto falso co-

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lore di quiete le separasse ognor più. In conclusione Roberto trovò lo Stato diviso tra baroni potenti e ritrosi al freno, e il lasciò tale; lasciò che il regio stendardo andasse calpesto nel fango a Montecatini, ad Altopascio, e sulle sponde dell'Adda; sostenne che, vivo lui, venisse scemata l'influenza dal padre e dall'avo esercitata in Romagna e nel Piemonte; sostenne che i proprii intenti sopra Genova e la Sicilia andassero a vuoto: e la pace comprata a queste condizioni gli parve lodevole. Ma pochi anni bastarono a mostrare i danni ed i pericoli che vi si occultavano sotto: i Napoletani diventati molli e ricchi (1) rimasero ben presto preda de' poveri e gagliardi; i tesori accumulati da Roberto nella torre di Bonna vennero in pochi mesi dispersi da' successori, e di tutto il suo regno non si raccolsero che discordie, lutto e rovina.

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La morte troncò d'un colpo i sogni del pacifico 19 genn. monarca, e il lieto vivere del popolo. Rimase erede del trono la nipote Giovanna, già da lui maritata per maggior conferma di pace in Andrea figliuolo del re d'Ungheria: ma a fallaci lusinghe corrispondono solitamente inaspettati eventi. In breve i rozzi e minacciosi modi di Andrea, la fatale gelosia del comando, le instigazioni de' cortigiani, un adultero amore con Luigi di Taranto, di tale odio infiammavangli contro

(1) « Moris enim est Neapolitanorum ubique caput semper << comere, et visum lavare more mulierum, non soliti jacere <«<sub armis, sed lectis mollibus et plumaciis. » Dom. de Gravina p. 572 (R. I. S. t. XII). << Per tutta Puglia, tutta Terra di Lavoro, tutta Calabria e Abbruzzo, la gente di << villa arme non portava, nè conoscevano arme. Anco por<«<tavano in mano una mazza di legno per difendersi dai cani ». Fragm. hist. Rom. L. I. c. X. p. 311.

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la regina, che il misero giovinetto tratto per inganno dal letto nuziale e dalle braccia della consorte 18 7hre era, lei vicina ed ascoltante, dopo una spaventosa lotta, strangolato e precipitato abbasso da un balcone. Ma tosto si accinse a trarne solenne vendetta Ludovico re d'Ungheria fratello dell'ucciso; che spargendo per tutta Europa il suono dell'ira sua,e le supplicazioni e le ambasciate di Giovanna rifiutando, a ella complice, sclamava, ella ordinatrice, ella premiatrice dell'infame delitto, non attendesse perdono: da quel seggio ancor imbrattato del sangue di Andrea volere schiantare lei coll'adultero consorte; oppure si chiarisse innocente, e mandasse i colpevoli a' meritati supplizii»: e senza più, apparecchiate armi e denari, scendeva in Italia, seco traendo a fatale strumento di miserie il duca novemb. Guarnieri di Urslingen con 1500 barbute (1).

Niuno ordine frattanto nè civile nè guerresco teneva in assetto l'infelice regno di Napoli, smembrato tra i reali di Taranto e di Durazzo e i partigiani del re d'Ungheria, e vilipeso da' baroni usi a passare dall'uno all'altro partito, e col servirli tutti, tradirli pur tutti. Piene le selvaggie rocche e le cupe valli di ribaldi, le terre e le castella appena salve dalle loro violenze, spento ogni commercio, rotto ogni freno d'equità e di leggi, ogni cosa pareva acconcia per rendere facile, come l'acquistare, cosi il riperdere lo Stato, e concederne sempre mai vittoria all'ultimo che l'assaltasse. Non faccia perciò meraviglia, se ottanta giorni bastarono al re Ludovico d'Ungheria per insignorirsi del maggior dominio d'Italia, scacciarne

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(1) Matt. Villani, Cron. di Firenze. L. I. c. 13.

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Giovanna d'Angiò, e nel sangue del duca di Durazzo vendicare lo scempio dell'innocente Andrea.

Ma il popolo conculcato da' soldati vincitori, i baroni costretti dal monarca unghero a severa obbedienza, non tardarono a desiderare cupidamente quello che testè avevano abbominato. Calde trattative perciò vennero aperte tra gli abitatori del regno, e Giovanna e Luigi di Taranto suo nuovo consorte rifuggiti in Provenza; questi nel medesimo tempo fecero tentare di diserzione il duca Guarnieri. Se costui appieno v'assentisse, non consta, tolto per la lontananza de'tempi e la confusione degli scrittori di contrario sentire l'accertarlo; ma forse altro più non gli rimaneva a fare che stabilire col nemico i módi e il prezzo del tradimento; quando un Ulrico Guilforte, non so ben dire se mosso da invidia privata di emulo ovvero da affezione di suddito, gliene pose accusa davanti al re Ludovico. Dall' accusa alle ingiurie, dalle ingiurie all'ira, una terribil disputa ne emerse tra i due competitori: il re Ludovico si avvisò di comporla, ordinando, che entrambi nudi coll'armi in pugno la definissero in singolare certame. Ma la disfida, tuttochè assentita, anzi desiderata dall'uno e dall'altro, per l'interposizione di alcuni comuni amici andò priva di effetto. Crescendo frattanto i sospetti sul duca d'Urslingen, insieme col suo mal animo e coll'agitazione de' sudditi, il re concluse assolutamente di allontanarlo da sè. Pigliatane perciò promessa di non accettar soldo da' nemici, nè molestare gli alleati, licenziò senz'altro lui e tutte quelle masnade, che per essere state con esso o avere già innanzi servito la

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