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CAPITOLO TERZO

BRACCIO E SFORZA

A. 1414-1424.

I.

La morte del re Ladislao piombò il regno di Napoli in condizioni non molto diverse da quelle nelle quali era esso caduto per effetto della morte di Roberto d'Angiò. Si era bensi Ladislao studiato di assicurare le basi della monarchia, mediante la depressione di quei baroni, che, a volta a volta vassalli e capitani di ventura, avevano durante la sua minorità bilanciato di modo le due fazioni d'Angiò e di Durazzo, che l'una servisse di riparo contro l'altra, e fra le due si vivesse indipendente. Era egli stato allevato sotto la tutela insolente d'alcuni di quelli, e la inimicizia pericolosa dei restanti. Perciò sia l'interesse sia l'inclinazione glieli faceva odiare tutti ugualmente. Accenneremo i mezzi da lui impiegati affine di domarli o sminuirne almeno l'autorità. Sterminò i più potenti; accomunò a chiunque il dritto di conseguire feudi, ufficii e insino l'onore della cavalleria; ridusse il numero delle genti d'arme, cui i baroni solevano intertenere sotto pretesto di pubblico servigio, a non più di 20 o 25 lancie per ciascuno stabilì che la somma di tutte non potesse eccedere le mille lancie, ed esse fossero pagate ed

alloggiate a nome dello Stato (4). Con questi provvedimenti il re Ladislao elevò la regia potestà a uno straordinario grado di libertà e di potenza.

Ma non così tosto per la morte di Ladislao fu incoronata regina di Napoli la sorella di lui Giovanna II, che ogni cosa colà si volse a soqquadro, con funesta rinnovazione di tutti gli scandali e disordini della A. 1415 prima Giovanna. Impetuosa, vana, lasciva in una età, in cui esser tale era, oltrecchè colpa, ridicolaggine, non tardò ella a gettarsi in braccio a un Pandolfello Alopo, pur testè vile famiglio, ora gran siniscalco e padrone del regno. A costui, d'ogni sottile ombra indagatore e vendicatore gelosissimo, non è a dire se la bella statura, le forme marziali, la molta fama di Sforza Attendolo, il quale allora militava sotto gli stipendii di quella Corona, generassero invidia, odio e terrore; posciachè sia proprietà dei vilmente cresciuti, non tollerare accanto sè che uomini ancor più vili e dappoco! Però l'animo leggiero della Regina vien tosto assediato da Pandolfello coi più neri rapporti: essere simulata la fedeltà, falsi i giuramenti di Sforza; chiara la sua amicizia colla parte angioina: altro lui non attendere che l'arrivo delle proprie squadre per occupare Napoli e le castella, che dominano la città: una grave congiura essere in procinto di scoppiare: mille argomenti certissimi dimostrarlo: in fine essere la cosa al punto, da dovervi rimediar

(1) Solo il duca d'Atri era privilegiato di tenerne 100. Ogni lancia o elmetto comprendeva un uomo di grave, e quattro di leggiera armatura. La paga era 18 ducati al mese, oltre le stanze. A. di Costanzo, XII. 304. — Bianchini, St. delle Finanze, t. I. L. III. c. VI. sez. II. p. 442.

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subito, oppure rovinare ». La debole Giovanna rispondeva: « facesse Alopo il bene dello Stato». Tanto bastò al gran siniscalco. La prima volta che l'Attendolo entrò nella torre di Beverella per favellare alla Regina, venne a viva forza disarmato e condotto nel cupo carcere, ove da molti mesi languiva Paolo Orsini.

Quivi stette egli, odiato compagno di sventura ad emulo odiato, aspettando il giudicio di Stefano da Gaeta dottore di leggi, a cui la regina, quasi per deferenza verso la città ed il consiglio, che, atterriti dalla vicinanza delle squadre sforzesche, supplicaronla a favore del prigioniero, aveva commesso la cognizione della causa. Ma in un regno governato da favoriti, ognun sa di qual modo s'amministri la giustizia. Ormai le ultime speranze di Sforza erano pressochè svanite, e già mista ai lamenti sulle presenti miserie correva pel volgo la notizia della sua condanna; quand' ecco Pandolfello medesimo scendere umanamente nei sotterranei della torre a visitarlo, e voltando tutto l'odio della cattura sopra la regina e la corte, proporgli di restituirlo incontanente non solo in libertà, ma in molto più grande stato. Solo due cose gli chiese in compenso di ciò. La prima fu, che Sforza l'aiutasse a far opposizione contro il principe Giacomo della Marca dei reali di Francia, cui la regina aveva designato per suo sposo, e che era aspettato di giorno in giorno. La seconda fu, ch' ei suggellasse la nuova amistà col parentado, impalmando la propria sorella di Pandolfello istesso. Sforza (nè per verità v'era gran luogo a scelta), senza esitanza tutto promise, e tutto acconsenti; così di colpo

passava dalle tenebre di un carcere alla dignità suprema di gran conestabile, allo stipendio di ottomila ducati al mese, ed alla signoria di ben dodici castella (1).

Cotanto rimutamento di fortuna succeduto in uno straniero di oscuro sangue per opra d'un Pandolfello di oscuro sangue e di odiosi costumi, accese d'incredibile sdegno gli invidi e superbi animi de' cortigiani. Sovra ogni altro ne inviperi Giulio Cesare da Capua, illustre condottiero napoletano, sotto le cui bandiere s'erano raccolte quasi tutte le genti del morto re Ladislao. In breve una congiura è ordita contro Sforza e il gran siniscalco. Il novello sposo Giacomo della Marca, già in Italia, già nei confini del regno pervenuto, senzachè la regina dia pur segno d'averne sentore, parve ai congiurati opportuno strumento pei loro disegni. Tosto Giulio Cesare spiccasi da Napoli con una fiorita comitiva, gli va incontro fino a Troia, lo accoglie come re, se ne cattiva l'animo, e l'empie de' più odiosi racconti circa le infami pratiche della regina, e gli ambiziosi raggiri di Sforza e di Pandolfello. «Volersi a Napoli nella Corte reale rinnovar sopra di lui lo scempio del principe Andrea d'Ungheria; riflettesse, provvedesse: del resto, i beni e le vite dei fedeli baroni napoletani star sempre pronti ad ogni suo cenno. »

Fra queste mene sopraggiungeva nel campo Sforza istesso affine di ossequiare il principe; e tosto fra i

(1) Boninc. Ann. Min. 108. —Leod. Cribell. 664.· - Giorn. Napolet. 1076.—Corio, IV. 608. — Costanzo, XIII. 309 (Napoli, 1710).

congiurati si risolveva d'assaltarlo al guado del fiume Calore, ed ammazzarvelo.

Ma il tradimento ha per buona ventura sovente tal segno in fronte, che Sforza non istentò ad indovinare l'occulta trama che minacciava la sua vita. Nulla disse: ma, come fu presso al fiume, disposti i suoi in ordinanza quadrata, in gran silenzio traghettava: quindi tutto torbido e alla traversa si ritraeva in disparte. Ciò mirando, i cortigiani taciti e disconclusi passarono senza far altro. Così si marciò, finchè tutto l'esercito non pervenne nella città di Benevento. Quivi Sforza, avendo ripreso animo per l'arrivo di parecchie sue squadre, recossi dal re per certificarlo della sua innocenza. Era per caso introduttore a corte de' visitanti Giulio Cesare da Capua. Questi, visto l'Attendolo, subito gli si avventò sulle scale ad insultarlo. A'suoi sarcasmi Sforza non diede meno pronta risposta. Detto fatto, l'un l'altro, messa mano alla spada, con alte grida precipitansi a ferirsi. A quelle grida, a quello strepito in pochi istanti tutta la corte accorse colà, nè senza grave fatica i feroci campioni vennero separati e chiusi in diverse camere. Pari era la colpa: ben differente ne fu il castigo. Quella sera medesima Sforza venne gettato in fondo a una torre, e le sue squadre per improvviso assalto vennero oppresse e svaligiate. Solo a Santoparente successe di fuggire colla propria schiera presso Lorenzo Attendolo, che col resto delle genti sforzesche aveva le stanze alquanto discosto. Ciò fatto, Iacopo della Marca fra continue feste mentite nel darle e nel riceverle si conduceva a Napoli; dove dopo alcun 10 agost. giorno di sollazzi arrogavasi il titolo di re, condan

1415

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