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si trovava altresi nella cronaca distribuita secondo gli anni delle sacerdotesse d'Argo come lo narra Dionigi. I fondatori della colonia sono Trojani: colà erano i fratelli discendenti d'Enea; quivi v'è Enea stesso; e i Greci sooo compagni d'Ulisse. Quest'ultimo appare in ogni luogo ed anche nei poeti più recenti. Romolo e Remo si sono pure legati alla sua persona, in quanto che Latino di cui son figli sotto questa forma come della trojana Roma, è rappresentato quale nipote d'Ulisse per parte di Telemaco (607).

Diviso da tutti questi autori Scillace ha l'abitudine di nobilitare colla parola ¿Âλɛvis tutte le città d'origine greca quand' anche sono cadute nel dispregevole dominio de' barbari, e distinto dagli altri ancora che secondo Dionigi riguardavano Roma come tirrena (608), se intendevano con ciò ch'ella fosse etrusca come lo fa lo stesso Scillace.

Ho nominato Timeo di Sicilia per essere lo storico che primo fra i Greci pare che abbia introdotti uell' istoria Romolo e Remo come lontani discendenti d' Enea. Scriveva pochi anni dopo Callia, nè poteva aver diviso l'opinione di lui, poichè ammetteva che la fondazione di Roma fosse contemporanea a quella di Cartagine, collocando quest'ultima trecento ottanta anni circa dopo la caduta di Troja. Forse questo racconto era pur quello di Jeronimo da Cardia che nella sua storia dei successori di Alessandro, scritta a un dipresso nell' età di Timeo dava dei brevi cenni sull'antica storia di Roma. Dionigi ne biasima l' aridità come fece in Timeo ed in Polibio che sono più ricchi d'assai (609). Studiandosi di scusarsi d'ogni rimprovero d' invenzione nel caso che i suoi lettori trovassero nel suo libro quello che gl'altri avevano tacciuto, e non già perchè fosse stato trovato assai diverso dagli altri. Ma dopo loro l'antica tradizione greca si mantenne ancora presso i letterati

d'Alessandria e dei lettori di cose curiose e pellegrine; presso quelli insomma che non erano vaghi che della vecchia letteratura di grecia. Verso l'anno 600, Eraclide Lembo riprodusse il racconto d' Aristotile sugli Achei e i Trojani cattivi; le antiche note di Licofrone che forse nella loro forma originaria erano più recenti, facevano di Romolo e di Romo due figli di Creusa, nata da Priamo, come pure in Oro di Tebe citato da Cefalone, sono chiamati figli di Enca fondatori di Roma (610).

ROMOLO E REMO.

Ecco come parlava la vecchia finzione romana: Proca re degli Albani lasciò due figli; Numitore primogenito debole e senz' animo sofferse che Amulio gli usurpasse il paterno retaggio, contento, degl' assegni di Amulio e di vivere in seno degli agi nè cercando più oltre non corse alcun pericolo. Però l'usurpatore temeva le pretensioni degli eredi che potevano avere altro consiglio, onde fece morire i figli di Numitore, e chiuse una fanciulla di lui fra le Vestali.

Amulio non ebbe altri figli che una fanciulla; onde parea che si avesse a spegnere la razza d'Anchise e di Enea, quando contra tutte le umane disposizioni, ebbe dall'amore di un Dio nuova vita, e un lustro più degno. Silvia era entrata nel sacro bosco onde attingere dell' acqua più pura pel servizio del tempio; quando un tratto oscurossi il sole, e la fanciulla per iscansarsi da un lupo si ricoverò in una grotta (611). Quivi Marte fece forza alla tremante vergine confortandola colle promesse di nobile

prole, al modo che fece Nettuno con Tiro figlia di Salmonea. Ma però non la protesse contro le insidie del tiranno, nè le sue proteste d' innocenza le salvarono la vita. Vesta istessa sembrava sollecitare la condanna dell' infelice : perchè nell'istante del parto la Dea si velo gli occhi, tremò l'altare, e il sacro foco si spense (612); cosi fut acconsentito ad Amulio di affogare nel fiume la madre col parto gemello (613). Nei gorghi dell' Anio, Silvia spoglio la vita umana e fu fatta divina; e la corrente dell' acque portò il paniere o la culla ove giacevano i bambini verso l'onde del Tebro che straripato in quei giorni, bagnava le selvose colline. La culla si rovesciò ai piedi del fico selvaggio appellato di poi ficus ruminalis e che per molti secoli si conservò come sacro alla falde del monte Palatino. La lupa assetata era venuta verso le acque del fiume, dove intendendo i vagiti dei bambini li portò nella sua pross sima tana, (614), dove lor fece un letto, li leccò, e li nudri. E quando non bastò più il latte delle sue poppe, il Pico, uccello sacro a Marte recò loro altri alimenti, ed altri augelli consacrati agli auguri aleggiavano sui due ge melli per discacciarne gl' insetti. Faustolo, pastore degli armenti regi vide questo singolare spettacolo; la lupa si ritrasse dinanzi a lui, lasciando i suoi bambini alla cura dell' uomo. Acca Larenzia, moglie del pastore diventò la madre allattatrice, e i bambini crebbero in compagnia di altri dodici figli di lei (615) sul monte Palatino sotto la volta di capanne di paglia, opera della loro mano. Quella di Romolo meglio riparata delle altre fu religiosamente conservata sino ai tempi di Nerone. Romolo e Remo erano i più operosi figliuoli dei pastori; prodi di mano contro le fiere e i predoni difendevano il loro diritto contro la forza altrui e facevano talvolta diritto della forza. Sempre scom

partivano la préda coi loro compagni. Quelli di Romolo si chiamavano Quinctilii, quelli di Remo Fabii. Ma già sorgevano le dissensioni fra loro, l'orgoglio di questi giovinetti diede luogo ad una querela fra i pastori del ricco Numitore che teneva i proprj armenti abbarcati sull' Áventino. Così fino dai tempi più remoti il monte Palatino e l'Aventino sono in opposizione vivendo di ostilità al modo di Caco e di Evandro. Fatto Remo prigioniero con frode fu tratto ad Alba come un predatore. Un presentimento segreto, e la ricordanza de' suoi nipoti congiunta al racconto dell' infortunio di questi due fratelli, tolsero al Numitore di proferire un repentino giudizio. Il padre che la fortuna diede all' accusato fu sollecito di correre con Romolo a disvelare al vecchio ed ai due garzoni i vincoli onde erano congiunti. Questi si assunsero di vendicar l' ingiustizia fatta a loro ed alla loro casa, onde col soccorso dei fidi compagni che il pericolo di Remo avea tratti fuori della città, uccisero il re e ritornarono il popolo d' Alba sotto la signoria di Numitore. Così è la vecchia cronaca come fu scritta da Fabio, e come si cantava ai tempi di Dionigi d'Alicarnasso (616), nei vecchj inni sacri. Tutto questo non è altro che istoria mescolata di molto meraviglioso; si può togliere a questo maraviglioso il suo originale carattere, e tanto omettere o cangiare, d'averne infine un avvenimento possibile, ma non si potrà non convincersi che quello che resta è un ischietto fatto storico. I racconti mitologici di questo genere sono forme aeree, o per dir meglio una fata morgana d'invisibile immagine, o piuttosto di incognita legge di refrazione. Se non fosse così niun' intelletto sarebbe tanto sagace di sceverarne i tratti primitivi fra quel bizzarro miscuglio di forme. Eppure diversi dai sogni queste magiche forme non sono prive di

una

arcana sostanza di realtà, e si paragonerebbero ai sogni le finzioni inventate dai Greci, quando di già la tradizione fosse spenta, e si potessero cangiare a capriccio i racconti dell' antichità, senza badare che la lor varietà

era l'opera, di tutta la nazione, e non un dominio particolare di cui ciascuno potesse disporre.

L'amore della terra che il destino gli aveva dato a dimora, richiamo Romolo e Remo sulle rive del Tevere per fondare una città. Le terre di Antenna di Ficulea di Tellene li serravano in cos angusti confini che non era possibile che dalla parte d'Alba Roma si potesse estendere șino a Festi a cinque o sei miglia , ove sotto Tiberio si celebrarono ancora ogni anno gli ambarvalia, come se fosse stato il vero limite dell' agro romano (617). I pastori loro antichi compagni ne furono i primi cittadini : e la vecchia tradizione era affatto ignorante degli Albani che si congiunsero alla nuova città e della nobiltà trojana di cui si è parlato più sopra: i Giulj e le altre famiglie non vennero che dopo la distruzione d'Alba. Regnando di pari autorità in altro arbitrio che di sè stessi i due fratelli si disputarono la gloria del titolo di fondatori, incerti se la città si sarebbe chiamata Roma o Remoria, se sarebbe stata piantata sul monte Palatino o sull' Aventino ed edificata sul Palazio o quattro miglia più in giù sulle rive del fiume (618).

Ciascuno miro il cielo dal sommo della sua collina quegli che gl' auguri avrebbero gratificato doveva sentenziare da re. Ognuno che allora chiedeva degli auspicj si raccoglieva nel profondo silenzio della notte e disegnando dentro l'anima sua i confini della volta celeste attendeva le profetiche apparizioni. Passò tutto il giorno e la notte seguente; infine Remo pel primo vide sei avoltoj che volavano dal

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