Immagini della pagina
PDF
ePub

Marzio era il quarto; si ebbe cura per conseguenza, che la metà del suo regno fosse il punto centrale della durata dello spazio fissato pei re, e si riferì all'anno cento venti. Gli si potevano per verità scansare arbitrariamente degli anni di regno; ma ciò che fece risolvere pel numero ventitre (677), si è che questo numero, con quello degli anni del primo secolo, faceva appunto cento anni, oltrechè l'anno cento trentadue che per avventura è l'ultimo del suo regno, esprime il numero degli anni astronomici chiusi in un secolo. Quindi vi avevano trentadue anni per Tullo. Poi, per designare per via di numeri istorici in apparenza i due regui che seguirono, si tolse un mezzo secolo, cominciando dall' anno cento venti sino alla fine di Tarquinio il padre, e senza riguardo alle impossibilità ed alle contradizioni che ne sorgerebbero, si estese il regno di Servio sino all'anno duecento sedici, da cui si cominciarono a contare i venticinque anni dell'ultimo re che forse sono realmente storici.

Non occorreva che la scoperta del calcolo di Polibio sugli anni dei re per trar fuori la trama troppo grossamente ordita di questo tessuto, e perchè non gli si dasse più pregio di quel che ha. Può ben essere senza dubbio che le indicazioni cronologiche meritino fede per tempi di storia mitica; ma in quanto a quella dei re di Roma, è propriamente cronologia inventata e favolosa. Non vi ha ragionevole motivo di dubitare l'esistenza personale di Tullo Ostilio; ma senza dubbio il combattimento degli Orazj é la morte del re appartengono piuttosto alla verità storica che alla cronologica del suo regno.

I racconti di famiglia non salivano più in là dei tempi dei re che i veri annali. Appartiene poi ad un altro genere che i Valerj abbiano nominato un Voleso per loro autore, che i Marsi abbiano congiunte le loro famiglie ad

[ocr errors]

Anco, e che delle altre case siano salite sino a Numa. Con sentirò volontieri in generale che i Valerj discendessero dai Sabini; ma se famiglie plebee ostentavano di originare da re, persona non poteva prestarle una seria fede, e ad ecce zione degli Orazj (e non si è d'accordo se erano di Roma o di Alba) alcun romano non è nominato nelle tradizioni di Tullo e dei tre successori. All' incontro, dappoi che sorse la libertà i racconti delle famiglie portano molte cose sugli uomini grandi, benchè non siano sempre credibili.

Prima che si sfrenassero le iuvenzioni senza riguardo, vi aveva per gli avvenimenti, ed i racconti che dovevano riempire il circolo aritmetico dei tempi dei re, due sorta di elementi, le forme dello stato e del diritto pubblico, e le istituzioni attribuite a ciascun re, oltre le tradizion delle loro azioni. Gli antichi annalisti non si sono probabilmente che assai poco occupati dei primi per quanto sia por diventata ricca tale materia nelle età più recenti. Più grande d'assai è l'antichità delle leggende. La loro origine va molto più in là dello stabilimento degli aunali.

Ma è un'idea nuova che queste leggende siano state trasmesse di generazione in generazione e per via di inni, e il loro contenuto non possa essere più autentico, che quello di ogni altro poema trasmesso nei canti sulle azioni del tempo passato. Saranno ormai cinquant'anni che Perizonio inise fuori questa opinione (678). provando che era costumanza presso i Romani di cantare ai banchetti coll' aecompagnamento del flauto le lodi degli uomini grandi (679). Cicerone non lo seppe che da Catone che sembra averne parlato come di un uso caduto in dissuetudine. I commensali essi stessi alternativamente cantavano; onde si credeva che queste canzoni, proprietà comune della nazione non fossero ignorate da alcun cittadino libero. Secondo Varrone che

le qualifica per antiche, si cantavano da garzoni modesti, ora senza musica, ora compagnate dal flauto (680). La voca žione più essenziale delle muse era di cantare le lodi degli antenati, fra le altre anche quelle dei re (681). Giammai Roma repubblicana s' impoveri di tali memorie, nè mai rimosse le loro statue dal campidoglio, è nei più bei tempi della libertà la loro ricordanza era in pregio e celebrata (682). In generale noi siamo di modo legati ai tempi a cui ap parteniamo e viviamo talmente in quelli e per quelli, come parti d'un medesimo tutto, che questo pensiero che basta per dare un concetto del genio della gravità e della forza di colui che lo crea, è oggidì a disposizione dell' universo; non è che effetto del caso se un autore ebbe occasione di metterlo fuori prima degli altri. Perizonio non conosceva i canti eroici che per via di libri; nè si può supporre pel tempo in cui viveva che abbia mai inteso parlare di canti esistenti o raccolti dalla bocca del popolo. Allorchè Adison sveglio i sensi ottusi degli uomini inciviliti, onde nel Chevy chase conoscere col popolo l'oro puro della poesia, Perizonio viveva ancora, l'ha potuto intendere, ma già da un quarto di secolo le sue ricerche erano apparse nel mondo. In quanto a noi i canti eroici della Spagna, della Scozia, e della Scandinavia sono da gran tempo di dominio pub blico; di già il nostro poema epico nazionale entrò nella letteratura vivente. Nè vi ha più d' uopo di risposta a delle obbiczioni nude di senso ora che noi ascoltiamo gl' inni dei Servi e i canti dei Greci, ultimi accenti di questa nazione; ora che ciascuno conosce come la poesia vive presso i po poli finchè delle forme metriche dei modelli stranieri e gli interessi varj e moltiplici d' una vita comune, sino insomma che la sensualità e la prostrazione non giungono a spegnerla. Allora fra i genj dotati di facoltà poetiche taluni soltanto

sorgono eminenti, mentre degl' intelletti senza inspira zione ne usurpano l'arte talvolta. Colui che nella parte epica della storia romana non conosce i suoi canti, per me non so come potrà intenderla; egli sarà sempre più isolato ; poichè il cammino retrogrado è impossibile per parecchie generazioni.

Fra le varie forme della poesia popolare di Roma erano le Neniae, inni che si cantavano accompagnati da flanto, per celebrare sul feretro le lodi dei morti (685), cone si dicevano nelle orazioni funebri che non bisogna però paragonare ai Thrènes ed alle elegie de' Greci. Negli antichi tempi di Roma non si tenea conto di un molle dolore, invece di piangere la morte, si onorava. Non si tratta adunque di canti di commemorazione simili a quelli che si recitavano nei banchetti; e forse questi ultimi non erano altro che quelli che si erano fatt' intendere per la prima volta il giorno della gloria del defunto. Onde potrebbe essere che senza saperlo noi fossimo in possesso di alcuni di questi inni che Cicerone tenea come affatto perduti, e' si alzerebbe difficilmente dubbio contro l'opinione che vuole che le inscrizioni in versi (684), sulle antiche tombe dei Scipioni, siano e una nenia tutta intiera, o per lo meno il suo principio (685). V'ha in questi epitaffi un carattere proprio ad ogni poesia popolare, ma che si mostra soprat tutto in una maniera prominente in quella dei Greci moderni; ed è che dei pensieri ed intieri versi diventano, come le stesse parole, gli elementi di una lingua poetica. Si vedono trapassare dalle opere antiche e generalmente note in brani di opere nuove; e quando il canto non ba sta ad un argomento un poco alto, danno a questi brani un colore e movimento poetico. È a questo modo che Gicerone leggeva sulla tomba di Galatino: hunc plurimae con

sentiunt gentes, populi primarium fuisse viram (686), è che noi leggiamo su quello di Scipione: hunc unum płuż rimi consentiunt R (omani) bonorum optumum fuisse virum.

Le canzoni convertite in prosa, che sono chiamate da noi storia dei re di Roma erano differenti di forma, ed avevano una grande estensione, offrendosi le une come un insieme che avea un seguito, le altre stando senza un Fégame necessario. L'istòria di Romolo forma da se un' epopea; ne vi furono su Numa che dei canti assai brevi. Tullo ebbe la storia degli Orazj, e la caduta d'Alba, ciò che forma un poema epico come quello di Romolo. Quivi Tito Livio ci conservò intatto, e nella misura lirica dell' antico verso romano tutto un frammento del poema (687). Giò che si riferisce di Anco, al contrario non ha punto l'ombra def colorito poetico. Con Tarquinio Prisco comincia un gran poema che finisce alla battaglia del lago Regillo e nella sua forma prosaica, questo cauto sui Tarquini è tuttavia poetico oltre ogni credere, non somigliando per nulla all' istoria propriamente detta. L'arrivo di Tarquinio in Roma in qualità di Lucumone, gli atti, le vittorie, la morte di lui, e poi la maravigliosa storia di Servio, l'empio maritaggio di Tullia, l'assassinio' del re, tutta l' istoria dell' ultimo Tarquinio, i presagi della sua caduta, Lucrezia, la dissimulazione di Bruto, la sua morte, la guerra di Porsena, in fine la battaglia af fatto omerica del lago Regio, tutto cio costituisce un epo péa che per la profondità e il brillantato dell' invenzione passerebbe di gran lunga tutto ciò che Roma ha mai prodotto dappoi. Straniera all' unità del poema greco più perfetto si divide in sezioni che rispondono alle avventure del poema Niebelungien e se mai qualcheduno fosse così ardito

« IndietroContinua »