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tento suo, dic' egli, è di scrivere cosa utile a chi l' intende, sembrandogli più conveniente andar dietro alla verità effettuale della cosa che all' immaginazione di essa, e scriver ciò che è, non ciò che dovrebbe

essere. »

Eppure dal Principe derivò il biasimo in che appresso molti è il nome di Machiavelli. E sebbene Bacone giudicasse solennemente aver quel libro insegnato a' popoli, sotto velo di dar lezione a' re, e Gian Giacomo Rousseau, lo Stewart e molti altri moderni, siensi fatti avvocati del sapiente amico di libertà; la causa non solo non fu vinta agli occhi della moltitudine, ma non cessò d' avere ad avversari chi pur non dovrebbe lasciarsi aggirare dalla corrente. Alfonso di Lamartine non parve aver conosciuta appieno la mente del Politico, e invece di pigliarne la difesa, perdonò alla comune opinione. Perchè quando alcuni Italiani insuperbivansi innanzi a lui di Arnaldo da Brescia, di Dante Alighieri e di Niccolò Machiavelli, l'udimmo rispondere fra magnanime parole queste altre, che non avremmo voluto uscissero da tal bocca Parmi les noms glorieux que vous venez de citer, il y en a un seul que je vous reproche d'avoir rappelé, à cause de la signification qui s'attache communément à ce nom de Machiavel. Effacez désormais ce nom de vos titres de gloire.

L'errore ha preso radici così profonde che di troppa fatica è bisogno per isvellerle. Assai più dell' autorità, giovino al Machiavelli non solamente la vita sua, ma le parole del Principe stesso e quelle che leggonsi nel capitolo x del libro I de' suoi Discorsi sulle Deche di Tito Livio, in che dichiara come sieno lodevoli i fondatori d'una repubblica o d'un regno, e come vituperevoli i creatori d'una tirannide.

E noi diciamo essere impossibile che ognuno che abbia meditate quelle sapienti e virtuose parole, possa aver dubbio di sorta sulle intenzioni con che Machiavelli dettò il libro del Principe. E adesso che molti s' affaticano nelle scienze politiche, e che l' Europa è disertata dalle stolte predicazioni delle sette che ardiscono chiamarsi sociali, non parrà inutile il vedere scelto in un volume di non grossa mole, il meglio di quello che questo grande scrutatore de' segreti politici compose a luce del vero e a beneficio degli uomini. Sarà chiaro allora che quando egli scriveva che se si leggesse il Principe vedrebbesi che i quindici anni ch' egli era stato a studio dell' arte dello Stato, non li avea nè dormiti nè giocati, non dicea parole di troppa superbia. GIUSEPPE ZIRARDINI.

Parigi, 20 settembre MDCCCL.

SIGNOR NOSTRO

CLEMENTE SETTIMO

LO UMILE SERVO

NICCOLÒ MACHIAVELLI.

Poichè dalla Vostra Santità, Beatissimo e Santissimo Padre, sendo ancora in minor fortuna costituta, mi fu commesso che io scrivessi le cose fatte dal popolo fiorentino, io ho usata tutta quella diligenzia ed arte, che mi è stata dalla natura e dalla isperienza prestata, per soddisfarle. Ed essendo pervenuto scrivendo a quelli tempi, i quali per la morte del Magnifico Lorenzo de' Medici feciono mutare forma all'Italia, ed avendo le cose che da poi sono seguite, sendo più alte e maggiori, con più alto e maggiore spirito a discriversi, ho giudicato essere bene tutto quello che insino a quelli tempi ho discritto ridurlo in un volume, e alla Santissima Vostra Beatitudine presentarlo; acciocchè quella in qualche parte i frutti dei semi suoi e delle fatiche mie cominci a gustare. Leggendo adunque quelli la Vostra Santissima Beatitudine vedrà in prima, poichè l'imperio romano cominciò in Occidente a mancare della potenza sua, con quante rovine con quanti principi per più secoli la Italia variò gli stati suoi. Vedrà come i pontefici, i Viniziani, il regno di Napoli e ducato di Milano presono i primi gradi ed imperj di quella provincia. Vedrà come la sua patria, levatasi per divisione dalla ubbidienza degl' imperadori, insino che la si cominciò sotto l'ombra della casa sua a governare, si mantenne divisa. E perchè dalla Vostra Santissima Beatitudine mi fu imposto particularmente e comandato che io scrivessi in modo le cose fatte da' suoi maggiori, che si vedesse che io fussi da ogni adulazione discosto (perchè quanto le piace di udire degli uomini le vere lodi, tanto le finte ed a grazia discritte le dispiacciono), dubito assai nel discrivere la bontà di Giovanni, la sapienza di Cosimo, la umilità di Piero e la magnificenza e prudenza di Lorenzo, che non paia alla Vostra Santità che abbia trapassati i comandamenti suoi. Di che io mi scuso aquella, e a qualunque simili discrizioni, come poco fedeli, dispiacessero. Perchè trovando io delle loro lodi piene le memorie di coloro, che in varj tempi le hanno discritte, mi conveniva o quali io le trovava descriverle, o come invido tacerle. E se sotto a quelle loro egregie opere era nascosa un' ambizione, alla utilità comune, come alcuni dicono, contraria, io che non ve la cognosco, non sono tenuto a scriverla; perchè in tutte le mie narrazioni io non ho mai voluto una disonesta opera con una onesta cagione ricoprire, nè una lodevole

opera, come fatta a uno contrario fine, oscurare. Ma quanto io sia discosto dalle adulazioni si cognosce in tutte le parti della mia istoria, e massimamente nelle concioni e ne' ragionamenti privati, così retti come obliqui, i quali con le sentenze e con l'ordine il decoro dell' umore di quella persona che parla, senza alcun riservo, mantengono. Fuggo bene in tutti i luoghi i vocabuli odiosi, come alla dignità e verità della istoria poco necessari. Non puote adunque alcuno, che rettamente consideri gli scritti miei, come adulatore riprendermi, massimamente veggendo come della memoria del padre di Vostra Santità io non ne ho parlato molto. Di che ne fu cagione la sua breve vita, nella quale egli non si potette fare cognoscere, nè io con lo scrivere l'ho potuto illustrare. Nondimeno assai grandi e magnifiche furono l'opere sue, avendo generato la Santità Vostra; la quale opera a tutte quelle de' suoi maggiori di gran lunga contrappesa, e più secoli gli aggiugnerà di fama, che la malvagia sua fortuna non gli tolse anni di vita. Io mi sono pertanto ingegnato, Santissimo e Beatissimo Padre, in queste mie discrizioni, non maculando la verità, di soddisfare a ciascuno, e forse non arò soddisfatto a persona. Nè, quando questo fusse, me ne maraviglierei; perchè io giudico che sia impossibile, senza offendere molti, discrivere le cose de' tempi suoi. Nondimeno io vengo allegro in campo, sperando che come io sono dalla umanità di Vostra Beatitudine onorato e nutrito, così sarò dalle armate legioni del suo santissimo giudicio aiutato e difeso; e con quello animo e confidenza che io ho scritto insino a ora, sarò per seguitare l'impresa mia, quando da me la vita non si scompagni, e la Vostra Santità non mi abbandoni.

PROEMIO DELL' AUTORE.

Lo animo mio era, quando al principio diliberai scrivere le cose fatte dentro e di fuori dal popolo fiorentino, cominciare la narrazione mia dagli anni della cristiana religione MCCCCXXXIV, nel quale tempo la famiglia de' Medici peri meriti di Cosimo e di Giovanni suo padre, prese più autorità che alcuna altra in Firenze. Perchè io mi pensava che messer Lionardo d'Arezzo e messer Poggio, duoi eccellentissimi istorici, avessero narrate particularmente tutte le cose, che da quel tempo indietro erano seguite. Ma avendo io dipoi diligentemente letto gli scritti loro, per vedere con quali ordini e modi nello scrivere procedevano, acciocchè imitando quelli, la istoria nostra fusse meglio dai leggenti approvata, ho trovato come nella discrizione delle guerre fatte dai Fiorentini con i principi e popoli forestieri sono stati diligentissimi; ma delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati, averne una parte al tutto taciuta, e quell' altra in modo brevemente discritta, che ai leggenti non puote arrecare utile o piacere alcuno. Il che credo facessero, o perchè parvero loro quelle azioni sì deboli che le giudicarono indegne di essere mandate alla memoria delle lettere, o perchè temessero di non offendere i discesi di coloro, i quali per quelle narrazioni si avessero a calunniare. Le quali due cagioni (sia detto con loro pace) mi paiono al tutto indegne d' uomini grandi. Perchè se niuna cosa diletta o insegna nella istoria, è quella che particularmente si descrive; se niuna lezione è utile a' cittadini che governano le repubbliche, è quella che dimostra le cagioni degli odj e delle divisioni della città, acciocchè possano, col pericolo d' altri diventati savj, mantenersi uniti. E se ogni esemplo di repubblica muove, quelli che si leggono della propria, muovono molto più, e molto più sono utili. E se di niuna repubblica furono mai le divisioni notabili, di quella di Firenze sono notabilissime; perchè la maggior parte delle altre repubbliche, delle quali si ha qualche notizia sono state contente d'una divisione, con la quale secondo gli accidenti hanno ora accresciuta, ora rovinata la città loro: ma Firenze non contenta di una, ne ha fatte molte. In Roma, come ciascuno sa, poichè i re ne furono cacciati, nacque la disunione intra i nobili e la plebe, e con quella insino alla rovina sua si mantenne. Così fece Atene, e così tutte le altre repubbliche che in quelli tempi fiorivano. Ma di Firenze in prima si divisono intra loro i nobili, dipoi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti rimasa superiore si divise in due. Dalle quali divisioni ne nacquero tante morti, tanti esilj, tante distruzioni di famiglie, quante mai ne nascessero in alcuna città, della quale si abbia memoria. E veramente, secondo il giudicio mio, mi pare che niuno altro esemplo tanto la potenza della nostra città dimostri, quanto quello che da queste divisioni dipende, le quali ariano avuto forza di annullare ogni grande e potentissima città. Nondimeno la nostra pareva che sempre ne diventasse maggiore; tanta era la virtù di quelli cittadini, e la potenza dello ingegno e animo loro a fare sè e la loro patria grande, che

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quelli tanti che rimanevano liberi da tanti mali, potevano più con la virtù loro esaltaria, che non avea potuto la malignità di quelli accidenti, che gli avieno diminuiti, opprimerla. E senza dubbio se Firenze avesse avuto tanta felicità, che poichè la si liberò dallo Imperio, ella avesse preso forma di governo che l'avesse mantenuta unita, io non so quale repubblica o moderna o antica le fusse stata superiore; di tanta virtù d'arme e d'industria sarebbe stata ripiena. Perchè e' si vede, poichè ella ebbe cacciati da sè i Ghibellini in tanto numero, che ne era piena la Toscana e la Lombardia, i Guelfi con quelli che dentro rimasero, nella guerra contro ad Arezzo, un anno davanti alla giornata di Campaldino, trassero dalla città de' loro proprj cittadini milledugento uomini d'arme, e dodicimila fanti. Dipoi nella guerra che si fece contro a Filippo Visconti duca di Milano, avendo a fare esperienza dell' industria e non dell' armi proprie (perchè le avieno in quelli tempi spente), si vide come in cinque anni, che durò quella guerra, spesono i Fiorentini tre milioni e cinquecento mila fiorini; la quale finita, non contenti alla pace, per mostrare più la potenza della loro città andarono a campo a Lucca. Non so io pertanto cognoscere quale cagione faccia che queste divisioni non sieno degne di essere particularmente discritte. E se quelli nobilissimi scrittori furono ritenuti per non offendere la memoria di coloro di chi eglino avevano a ragionare, se ne ingannarono, e mostrarono di cognoscere poco l'ambizione degli uomini, e il desiderio che egli hanno di perpetuare il nome de' loro antichi e di loro. Nè si ricordarono che molti non avendo avuta occasione di acquistarsi fama con qualche opra lodevole, con cose vituperose si sono ingegnati acquistarla. Nè considerarono come le azioni che hanno in sè grandezza, come hanno quelle de' governi e degli stati, comunque elle si trattino, qualunque fine abbino, pare sempre portino agli uomini più onore che biasimo. Le quali cose avendo io considerate, mi fecero mutare proposito, e diliberai cominciare la mia istoria dal principio della nostra città. E perchè e' non è mia intenzione occupare i luoghi d'altri, descriverò particularmente insino al MCCCCXXXIV, solo le cose seguite dentro alla città, e di quelle di fuori non dirò altro che quello sarà necessario per intelligenzia di quelle di dentro. Dipoi passato il MCCCCXXXIV scriverò particularmente l'una e l'altra parte. Oltre a questo, perchè meglio e d'ogni tempo questa istoria sia intesa, innanzi che io tratti di Firenze, discriverò per quali mezzi la Italia pervenne sotto quelli potentati, che in quel tempo la governavano. Le quali cose tutte, così italiche come fiorentine, con quattro libri si termineranno. Il primo narrerà brevemente tutti gli accidenti d'Italia, seguiti dalla declinazione dello imperio romano per insino al MCCCCXXXIV. Il secondo verrà con la sua narrazione dal principio della città di Firenze insino alla guerra, che dopo la cacciata del duca di Atene si fece contro al pontefice. Il terzo finirà nel MCCCCXIV con la morte del re Ladislao di Napoli. E con il quarto perverremo al MCCCCXXXIV, dal qual tempo dipoi particularmente le cose seguite dentro a Firenze e fuori, insino a questi nostri presenti tempi si discriveranno.

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