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che alcuna altra, e quella virtuosamente difendevano. Messer Jacopo d' Agobbio sappiendo come contra lui era tutta questa congiura, pauroso della morte, tutto stupido e spaventato, propinquo al palagio de' Signori in mezzo di sue genti armate si posava; ma negli altri rettori dove era meno colpa era più animo, e massime nel potestà che messer Maffeo da Marradi si chiamava. Costui si presentò dove si combatteva, e senza aver paura d' alcuna cosa, passato il ponte a Rubaconte tra le spade de' Bardi si mise, e fece segno di voler parlar loro. Dondechè la riverenza dell'uomo, i suoi costumi e le altre sue grandi qualità fecero a un tratto fermare le armi, e quietamente ascoltarlo. Costui con parole modeste e gravi biasimò la congiura loro, mostrò il pericolo nel quale si trovavano se non cedevano a questo popolare impeto, dette loro speranza che sarebbero dipoi uditi e con misericordia giudicati, e promise di essere operatore che alli ragionevoli sdegni loro si avrebbe compassione. Tornato dipoi ai Signori, persuase loro ch' e' non volessero vincere con il sangue de' suoi cittadini, che non gli volessero non uditi giudicare; e tanto operò, che di consenso de' Signori, i Bardi e i Frescobaldi con i loro amici abbandonarono la città, e senza essere impediti alle castella loro si ritirarono. Partitisi costoro, e disarmatosi il popolo, i Signori solo contra quelli che avevano della famiglia de' Bardi e Frescobaldi prese le armi procederono, e per spogliarli di potenza comperarono dai Bardi il castello di Mangona e di Vernia; e per legge provvidero, che alcun cittadino non potesse possedere castella propinque a Firenze a venti miglia. Pochi mesi dipoi fu decapitato Stiatta Frescobaldi, e molti altri di quella famiglia fatti ribelli. Non bastò a quelli che governavano avere i Bardi e Frescobaldi superati e domi, ma come fanno quasi sempre gli uomini, che quanto più autorità hanno peggio l' usano e più insolenti diventano, dove prima un Capitano di guardia era che affliggeva Firenze, n'elessero uno ancora in contado, e con grandissima autorità, acciocchè uomini a loro sospetti non potessero nè in Firenze nè di fuora abitare. E in modo si concitarono contra tutti i nobili, che eglino erano apparecchiati a vendere la città e loro per vendicarsi. E aspettando l'occasione, la venne bene, e loro l' usarono meglio.

Era per i molti travagli, i quali erano stati in Toscana ed in Lombardia, pervenuta la città di Lucca sotto la signoria di Mastino della Scala signore di Verona, il quale ancorache per obbligo l'avesse a consegnare ai Fiorentini, non l'aveva consegnata, perchè essendo signore di Parma giudicava poterla tenere, e della fede data non si curava. Di che i Fiorentini per vendicarsi, si congiunsero con i Vineziani, e gli fecero tanta guerra, che e' fu per perderne tutto lo stato suo. Nondimeno non ne risultò loro altra comodità che un poco di soddisfazione di animo d'aver battuto Mastino; perchè i Vineziani, come fanno tutti quelli che con i meno potenti si collegano, poichè ebbero guadagnato Trevigi e Vicenza, senza avere ai Fiorentini alcun rispetto, s' accordarono. Ma avendo poco dipoi i Visconti signori di Milano tolta Parma a Mastino, e giudicando egli per questo non potere tener più Lucca, diliberò di venderla. I competitori erano i Fiorentini e i Pisani, e nello stringere le pratiche, i Pisani vedevano che i Fiorentini, come più ricchi, erano per ottenerla; e perciò si volsero alla forza, e con l'aiuto de' Visconti vi andarono a campo. I Fiorentini per questo non si tirarono indietro dalla compera, ma fermarono con Mastino i patti, pagarono parte dei denari, e di un'altra parte dierono statichi, ed a prenderne la possessione Naddo Rucellai, Giovanni di Bernardino de' Medici e Rosso di Ricciardo de' Ricci vi mandarono; i quali passarono in Lucca per forza, e dalle genti di Mastino fu quella città consegnata loro. I Pisani nondi

meno seguitarono la loro impresa, e con ogni industria di averla per forza cercavano, ed i Fiorentini dall' assedio liberare la volevano. E dopo una lunga guerra ne furono i Fiorentini con perdita di denari ed acquisto di vergogna cacciati, ed i Pisani ne diventarono signori.

La perdita di questa città, come in simili casi avviene sempre, fece il popolo di Firenze contra quelli che governavano sdegnare, ed in tutti i luoghi e per tutte le piazze pubblicamente gl' infamavano, accusando l'avarizia ed i cattivi consigli loro. Erasi nel principio di questa guerra data autorità a venti cittadini d'amministrarla, i quali messer Malatesta da Rimini per capitano dell'impresa eletto avevano. Costui con poco animo e meno prudenza l'aveva governata; e perchè eglino avevano mandato a Roberto re di Napoli per aiuti, quel re aveva mandato loro Gualtieri duca d'Atene, il quale, come vollero i Cieli, che al mal futuro le cose preparavano, arrivò in Firenze in quel tempo appunto che l'impresa di Lucca era al tutto perduta. Ondechè quelli Venti veggendo sdegnato il popolo, pensarono con eleggere nuovo capitano, quello di nuova speranza riempiere, e con tale elezione o frenare, o torgli le cagioni di calunniargli. E perchè ancora avesse cagione di temere, e il duca d'Atene gli potesse con più autorità difendere, prima per conservatore, dipoi per capitano delle loro genti d'arme lo elessero. I grandi, i quali per le cagioni dette di sopra vivevano malcontenti, ed avendo molti di loro conoscenza con Gualtieri, quando altre volte in nome di Carb duca di Calabria aveva governato Firenze, pensarono che fusse venuto tempo di potere con la rovina della città spegnere l'incendio loro, giudicando non avere altro modo a domare quel popolo, che gli aveva afflitti, che ridursi sotto un principe, il quale conosciuta la virtù dell' una parte e l'insolenza dell' altra, frenasse l'una e l'altra rimunerasse. A che aggiugnevano la speranza del bene che ne porgevano i meriti loro, quando per loro opera egli acquistasse il principato. Furono pertanto in segreto più volte seco, e lo persuasero a pigliare la signoria del tutto, offerendogli quelli aiuti che potevano maggiori. All' autorità e conforti di costoro s'aggiunse quella d'alcune famiglie popolane, le quali furono Peruzzi, Acciaiuoli, Antellesi e Bonaccorsi, i quali gravati di debiti, non potendo del loro, desideravano di quel d'altri ai debiti loro soddisfare, e con la servitù della patria dalla servitù dei loro creditori liberarsi. Queste persuasioni accesero l'ambizioso animo del duca di maggior desiderio del dominare, e per darsi riputazione di severo e giusto, e per questa via accrescersi grazia nella plebe, quelli che avevano amministrata la guerra di Lucca perseguitava, ed a messer Giovanni de' Medici, Naddo Rucellai e Guglielmo Altoviti tolse la vita, e molti in esilio, molti in denari ne condannò.

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Queste esecuzioni assai i mediocri cittadini sbigottirono, solo ai Grandi ed alla plebe soddisfacevano; questa perchè sua natura è rallegrarsi del male, quelli altri per vedersi vendicare di tante ingiurie dai popolani ricevute. E quando e' passava per le strade, con voce alta la franchezza del suo animo era lodata, e ciascuno pubblicamente a ritrovare le fraudi de' cittadini, e gastigarle lo confortava. Era l'ufficio de' Venti venuto meno, e la riputazione del duca grande, ed il timore grandissimo; talchè ciascuno per mostrarsegli amico, la sua insegna sopra la casa sua faceva dipignere, nè gli mancava ad esser principe altro che il titolo. E parendogli poter tentare ogni cosa sicuramente, fece intendere ai Signori, come ei giudicava per il bene della città necessario gli fusse concessa la Signoria libera, e perciò disiderava, poichè tutta la città vi consentiva, che loro ancora vi consentissero. I Signori, avvengachè molto innanzi avessero la rovina della patria loro preveduta, tutti a questa domanda

si perturbarono, e con tutto che e' conoscessero il loro pericolo, nondimeno per non mancare alla patria, animosamente gliene negarono. Aveva il duca per dare maggior segno di religione e di umanità eletto per sua abitazione il convento de' Frati minori di Santa Croce, e disideroso di dare effetto al maligno suo pensiero, fece per bando pubblicare, che tutto il popolo la mattina seguente fusse sulla piazza di Santa Croce davanti a lui. Questo bando sbigotti molto più i Signori, che prima non avevano fatto le parole, e con quelli cittadini, i quali della patria e della libertà giudicavano amatori, si ristrinsero; nè pensarono, conosciute le forze del duca, di potervi fare altro rimedio che pregarlo, e vedere, dove le forze non erano sufficienti, se i preghi o a rimuoverlo dall'impresa, o a fare la sua signoria meno acerba bastavano. Andarono pertanto parte dei Signori a trovarlo, e uno di loro gli parlò in questa sentenza :

«Noi veniamo, o Signore, a voi, mossi prima dalle vostre domande, dipoi dai comandamenti che voi avete fatti per ragunare il popolo; perchè ci pare esser certi che voi vogliate strasordinariamente ottenere quello che per ordinario noi non vi abbiamo acconsentito. Nè la nostra intenzione è con alcuna forza opporci ai disegni vostri, ma solo dimostrarvi quanto sia per esservi grave il peso che voi vi arrecate addosso, e pericoloso il partito che voi pigliate; acciocchè sempre vi possiate ricordare dei consigli nostri e di quelli di coloro i quali altrimenti, non per vostra utilità, ma per sfogare la rabbia loro, vi consigliano. Voi cercate far serva una città, la quale è sempre vivuta libera; perché la signoria che noi concedemmo già ai Reali di Napoli fu compagnia e non servitù. Avete voi considerato quanto in una città simile a questa importi, e quanto sia gagliardo il nome della libertà, il quale forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma, e merito alcuno non contrappesa? Pensate, Signore, quante forze sieno necessarie a tener serva una tanta città. Quelle che forestiere voi potete sempre tenere, non bastano; di quelle di dentro voi non vi potete fidare, perchè quelli che vi sono ora amici, e che a pigliare questo partito vi confortano, come eglino avranno battuti coll' autorità vostra i nimici loro, cercheranno come e' possino spegner voi, e farsi principi loro. La plebe, in la quale voi confidate, per ogni accidente benchè minimo si rivolge, in modo che in poco tempo voi potete temere di avere tutta questa città nimica; il che fia cagione della rovina sua e vostra. Nè potrete a questo male trovare rimedio; perchè quelli Signori possono fare la loro signoria sicura che hanno pochi nimici, i quali tutti o con la morte o con l'esilio è facile spegnere; ma negli universali odj non si trova mai sicurtà alcuna; perchè tu non sai donde ha a nascere il male; e chi teme di ogni uomo non si può mai assicurare di persona. E se pure tenti di farlo, ti aggravi nei pericoli; perchè quelli che rimangono si accendono più negli odj, e sono più parati alla vendetta. Che il tempo a consumare i desider] della libertà non basti, è certissimo; perchè s' intende spesso quella essere in una città da coloro riassunta che mai la gustarono, ma solo per la memoria che ne avevano lasciata i padri loro, l' amano, e perciò quella ricuperata, con ogni ostinazione e pericolo conservano. E quando mai i padri non l'avessero ricordata, i palagi pubblici, i luoghi de' magistrati, l' insegne de' liberi ordini la ricordano; le quali cose conviene che sieno con grandissimo disiderio da' cittadini cognosciute. Quali opere volete voi che siano le vostre, che contrappesino alla dolcezza del vivere libero, o che faccino mancare gli uomini del disiderio delle presenti condizioni? Non se voi aggiugnessi a questo imperio tutta la Toscana, e se ogni giorno tornassi in questa città trionfante de' nimici nostri; perchè tutta quella gloria non sarebbe sua, ma vostra, e i cittadini

non acquisterebbero sudditi, ma conservi, per i quali si vedrebbero nella servitù raggravare. E quando i costumi vostri fussero santi, i modi benigni, i giudicj retti, a farvi amare non basterebbero. E se voi credessi che bastassero v' ingannereste, perchè a uno consueto a vivere sciolto ogni catena pesa, ed ogni legame lo strigne, ancorachè trovare uno stato violento con un principe buono sia impossibile, perchè di necessità conviene o che diventino simili, o che presto l' uno per l'altro rovini. Voi avete dunque a credere o di avere a tenere con massima violenza questa città, alla qual cosa le cittadelle, le guardie, gli amici di fuora molte volte non bastano, o di essere contento a quella autorità chè noi vi abbiamo data. A che noi vi confortiamo, ricordandovi che quel dominio è solo durabile, che è volontario; nè vogliate, accecato da un poco d'ambizione, condurvi in luogo, dove non potendo stare, nè più alto salire, siate con massimo danno vostro e nostro di cader necessitato. >>

Non mossero in alcuna parte queste parole l' indurato animo del duca, e disse non essere sua intenzione di torre la libertà a quella città, ma rendergliene; perchè solo le città disunite erano serve, e le unite libere. E se Firenze per suo ordine di sette, ambizione ed inimicizie si privasse, se le renderebbe, non torrebbe la libertà. E come a prendere questo carico non l'ambizione sua, ma i prieghi di molti cittadini lo conducevano, perciò farebbero eglino bene a contentarsi di quello che gli altri si contentavano. E quanto a quei pericoli, nei quali per questo poteva incorrere, non gli stimava, perchè egli era ufficio di uomo non buono per timore del male lasciare il bene, e di pusillanime per un fine dubbio non seguire una gloriosa impresa. E che e' credeva portarsi in modo, che in breve tempo avere di lui confidato poco e temuto troppo cognoscerebbero. Convennero adunque i Signori, vedendo di non poter fare altro bene, che la mattina seguente il popolo si ragunasse sopra la piazza loro, con l'autorità del quale si desse per un anno al duca la signoria, con quelle condizioni che già a Carlo duca di Calabria si era data. Era l'ottavo giorno di settembre e l'anno MCCCXLII, quando il duca accompagnato da messer Giovanni della Tosa e tutti i suoi consorti e da molti altri cittadini, venne in piazza, e insieme con la Signoria sali sopra la ringhiera, che così chiamano i Fiorentini quelli gradi che sono a piè del palagio de' Signori, dove si lessero al popolo le convenzioni fatte intra la Signoria e lui. E quando si venne leggendo a quella parte, dove per un anno se gli da la Signoria, si gridò per il popolo : a vita, E levandosi messer Francesco Rustichelli uno de' Signori per parlare e mitigare il tumulto, furono con le grida le parole sue interrotte, in modo che con il consenso del popolo non per un anno, ma in perpetuo fu eletto signore, e preso e portato tra la moltitudine gridando per la piazza il nome suo. È consuetudine che quello che è preposto alla guardia del palagio stia in assenza de' Signori serrato dentro; al quale ufficio era allora diputato Rinieri di Giotto. Costui corrotto dagli amici del duca, senza aspettare alcuna forza lo mise dentro, e i Signori sbigottiti e disonorati se ne tornarono alle case loro, e il palagio fu dalla famiglia del duca saccheggiato, il gonfalone del popolo stracciato, e le sue insegne sopra il palagio poste; il che seguiva con dolore inestimabile e noia degli uomini buoni, e con piacere grande di quelli, che o per ignoranza o per malignità vi consentivano.

Il duca acquistato che ebbe la signoria, per torre l'autorità a quelli che solevano della libertà essere difensori, proibì ai Signori ragunarsi in palagio, e consegnò loro una casa privata; tolse le insegne ai Gonfalonieri delle compagnie del popolo; levò gli ordini della giustizia contra ai grandi; liberò i prigioni dalle carceri; fece i Bardi e Frescobaldi dall' esilio ritornare; vietò il portar

l'armi a ciascuno. E per poter meglio difendersi da quelli di dentro, si fece amico di quelli di fuora. Beneficò pertanto assai gli Aretini e tutti gli altri sottoposti ai Fiorentini; fece pace con i Pisani, ancorachè fusse fatto principe perchè facesse lor guerra; tolse gli assegnamenti a quei mercatanti, che nella guerra di Lucca avevano prestato alla Repubblica denari, accrebbe le gabelle vecchie, e creò delle nuove, tolse ai Signori ogni autorità, e i suoi rettori erano messer Baglione da Perugia e messer Guglielmo di Ascesi, con i quali e con messer Cerrettieri Bisdomini si consigliava. Le taglie che poneva ai cittadini erano gravi, e i giudicj suoi ingiusti e quella severità ed umanità, che egli aveva finta, in superbia e crudeltà si era convertita. Donde molti cittadini grandi e popolani nobili, o con danari, o morti, o con nuovi modi tormentati erano. E per non si governar meglio fuora che dentro; ordinò sei rettori per il contado, i quali battevano e spogliavano i contadini. Aveva i Grandi a sospetto, ancorachè da loro fosse stato beneficato, e che a molti di quelli avesse la patria renduta; perchè e' non poteva credere che i generosi animi, i quali sogliono essere nella nobiltà, potessero sotto la sua ubbidienza contentarsi. Perciò si volse a beneficare la plebe, pensando con i favori di quella o con l' armi forestiere poter la tirannide conservare. Venuto pertanto il mese di maggio, nel qual tempo i popoli sogliono festeggiare, fece fare alla plebe e popolo minuto più compagnie, alle quali onorate di splendidi titoli dette insegne e denari. Donde una parte di loro andava per la città festeggiando, l' altra con grandissima pompa i festeggianti riceveva. Come la fama si sparse della nuova signoria di costui, molti vennero del sangue francese a trovarlo, ed egli a tutti come a uomini più fidati dava condizione; in modo che Firenze in poco tempo divenne non solamente suddita ai Francesi, ma a' costumi e agli abiti loro. Per che gli uomini e le donne, senza aver riguardo al viver civile, o alcuna vergogna, gl' imitavano. Ma sopra ogni cosa quello che dispiaceva, era la violenza che egli e i suoi senza alcun rispetto alle donne facevano.

Vivevano adunque i cittadini pieni d'indignazione veggendo la maestà dello stato loro rovinata, gli ordini guasti, le leggi annullate, ogni onesto vivere corrotto, ogni civil modestia spenta; perchè coloro che erano consueti a non vedere alcuna regal pompa, non potevano senza dolore quello d'armati satelliti a piè e a cavallo circondato riscontrare. Per che veggendo più d'appresso la loro vergogna, erano colui, che massimamente odiavano, di onorare necessitati. A che si aggiugneva il timore, veggendo le spesse morti e le continove taglie, con le quali impoveriva e consumava la città. I quali sdegni e paure erano dal duca conosciute e temute: nondimeno voleva dimostrare a ciascuno di credere essere amato. Onde occorse che avendogli rivelato Matteo di Morozzo, o per gratificarsi quello, o per liberar sè dal pericolo, come la famiglia de' Medici con alcuni altri aveva contra di lui congiurato, il duca non solamente non ricercò la cosa, ma fece il rivelatore miseramente morire. Per il qual partito tolse animo a quelli che volessero della salute sua avvertirlo, e lo dette a quelli che cercassero la sua rovina. Fece ancora tagliar la lingua con tanta crudeltà a Bettone Cini che se ne morì, per aver biasimate le taglie che ai cittadini si ponevano. La qual cosa accrebbe ai cittadini lo sdegno, e al duca l'odio, perchè quella città che a fare ed a parlare di ogni cosa e con ogni licenza era consueta, che gli fussero legate le mani e serrata la bocca, sopportare non poteva. Crebbono adunque questi sdegni in tanto e questi odj, che non che i Fiorentini, i quali la libertà mantenere non sanno, e la servitù patire non possono, ma qualunque servile popolo arebbono alla recuperazione della libertà infiammato. Ondechè molti cittadini e di ogni qualità, di perder la vita, o di riavere

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