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E per levar ogni sospetto in tutto A papa Giulio chè non l'assalisse Si fu in Savona subito ridutto:

Ove aspettò che Fernando venisse, Che a governar Castiglia ritornava Là dove poco prima dipartisse.

Perchè quel regno già tumultuava,
Sendo morto Filippo, e nel passare
Parlò con Francia, dove l' aspettava.

Lo 'mperio intanto volendo passare
Secondo ch'è la lor antica usanza,
A Roma per volersi coronare;

Una dieta avea fatta in Gostanza
Di tutti i suoi baron, dove del Gallo
Mostrò l'ingiurie e de' baron di Franza.

Ed ordinò che ognun fusse a cavallo Con la sua gente d'arme e fanteria, Per ogni modo il giorno di San Gallo.

E Marco e Francia che questo sentia, Adunar le sue genti, e sotto Trento Uniti insieme gli chiuser la via.

Nè Marco alle difese ste' contento, Ferillo in casa ed all' imperio tolse Gorizia con Triesti in un momento.

Onde Massimilian far tregua volse, Veggendo contro i suoi tanto contrasto, E le due terre d'accordo si tolse;

Le qual di poi si furono quel pasto, Quel rio boccon, quel venenoso cibo, Che di San Marco lo stomaco ha guasto.

Perchè l' imperio siccome io vi scribo, Sut' era offeso ed al buon re de' Galli Parve de' Viniziani esser corribo.

Onde perchè il disegno a Marco falli, Il papa e Francia insieme tutta dua, S'uniron con l'imperio e gigli Galli.

Nè steron punto de' patti in fra dua; Ma subito convennero in Cambrai, Che ognun si andasse per le cose sua.

In questa voi provvedimenti assai Avevi fatti, perchè verso Pisa Tenevi gli occhi volti sempre mai;

Non potendo posar in nulla guisa Se non l'avevi; e Fernando e Luigi V'avien d'averla la strada intercisa :

E li vostri vicini i lor vestigi
Seguon, facendo lor larga l'offerta,
Movendovi ogni di mille litigi.

Tal che volendo far l'impresa certa,
Bisognò a ciascun empier la gola,
E quella bocca che teneva aperta.

Dunque sendo rimasa Pisa sola,
Subitamente quella circondaste,
Non vi lassando entrar se non chi vola.

E quattro mesi intorno vi posaste
Con gran disagi, e con assai fatica,
E con assai dispendio l' affamaste.

E benchè fusse ostinata nimica, Pur da necessità costretta e vinta, Torno piangendo alla catena antica.

Non era in Francia ancor la voglia estinta Di muover guerra; e per l'accordo fatto Avea gran gente in Lombardia sospinta.

E papa Giulio anch'ei veniva ratto Con le genti in Romagna, e Berzighella Assaltò e Faenza innanzi tratto.

Ma poi che a Trievi e cert' altre castella Fra Marco e Francia alcun leggier assalto Fu, or con trista, or con buona novella;

Alfin Marco rimaso in su lo smalto, Poscia ch'a Vailà misero salse,

Casco del grado suo, ch' era tant' alto;

Che fia degli altri, se questo arse ed alse In poco tempo? e s'a cotanto impero Giustizia e forza e union non valse?

Gite superbi omai con viso altero,
Voi che gli scettri e le corone avete,
E del futuro non sapete il vero.

Tanto v' accieca la presente sete,
Che grosso tienvi sopra gli occhi un velo,
Che le cose discosto non vedete.

Di quinci nasce ch' il voltar del cielo Da questo a quello i vostri stati volta, Più spesso che non muta il caldo e 'l gielo.

Che se vostra prudenza fusse volta
A conoscere il male e rimediarve,
Tanta potenzia al Ciel sarebbe tolta.

I' non potrei sì tosto raccontarve,
Quanto sì presto da' Viniziani
Dopo la rotta quello stato sparve.

La Lombardia il gran re de' cristiani
Occupò mezza e quel resto che tiene
Col nome solo il seggio de' Romani:

E la Romagna al gran pastor si diene
Senza contrasto, e 'l re de' Ragonesi
Anch' ei per le sue terre in Puglia viene.

Ma non sendo il Tedesco in que' paesi
Ancor venuto da San Marco presto,
E Padova e Trivigi fur ripresi.

Onde Massimilian tenendo questo,
Con grande assembramento venne poi,
Per pigliar quello, e non perdere il resto.
E benchè fusse aiutato da voi,
E da Francia, e da Spagna, nondimeno
Fe' questo come gli altri fatti suoi :

Ch' essendo stato con l'animo franco
A Padova alcun giorno molto afflitto,
Levò le genti affaticato e stanco;

E dalla lega essendo derelitto,
Per diportarsi nella Magna vago,
Perde Vicenza per maggior despitto.
(Manca la maggior parte di questo Decennale.)

L'ASINO D' ORO.

CAPITOLO PRIMO.

I varj casi, la pena e la doglia
Che sotto forma d' un asin soffersi,
Canterò io, pur che fortuna voglia.

Non cerco ch' Elicona altr' acqua versi,

O Febo posi l'arco e la faretra,
E con la lira accompagni i miei versi.

Si perchè questa grazia non s' impetra
In questi tempi; sì perchè io son certo
Ch' al suon d'un raglio non bisogna cetra.

Nè cerco averne prezzo, premio, o merto;
Ed ancor non mi curo, che mi morda
Un detrattore, o palese, o coperto.

Ch' io so ben quanto gratitudo è sorda
A' prieghi di ciascuno, e so ben quanto
De' beneficj un asin si ricorda.

Morsi, o mazzate io non istimo tanto,
Quanto io soleva, sendo divenuto
Della natura di colui ch' io canto.

S'io fossi ancor di mia prova tenuto
Più ch' io non soglio, così mi comanda
Quell' Asin sott' il quale io son vissuto.

Volse già farne un bere in fonte Branda Ben tutta Siena; e poi gli mise in bocca Una gocciola d'acqua a randa a randa.

Ma se 'l Ciel nuovi sdegni non trabocca Contra di me, e' si farà sentire Per tutto un raglio, e sia zara a chi tocca.

Ma prima ch' io cominci a riferire, Dell' Asin mio i diversi accidenti, Non vi rincresca una novella udire.

Fu, e non sono ancora al tutto spenti
I suoi consorti, un certo giovanetto
Pure in Firenze infra l'antiche genti.

A costui venne crescendo un difetto
Ch' in ogni luogo per la via correva
E d'ogni tempo senza alcun rispetto.

E tanto il padre via più si doleva
Di questo caso, quanto le cagioni
Della sua malattia men conosceva.

E volse intender molte opinioni
Di molti savi, e 'n più tempo vi porse
Mille rimedj di mille ragioni.

Oltra di questo anco e' lo botò forse, Ma ciaschedun rimedio ci fu vano, Perciocchè sempre, e in ogni luogo corse.

Ultimamente un certo cerretano, De' quali ogni di molti ci si vede, Promise al padre suo renderlo sano.

Ma come avvien che sempre mai si crede

A chi promette il bene; onde deriva,
Ch' a' medici si presta tanta fede;

E spesso lor credendo l' uom si priva
Del bene, e questa sol tra l' altre sette
Par che del mal d' altrui si pasca e viva;

Così costui niente in dubbio stette,
E nelle man gli mise questo caso,
Ch' alle parole di costui credette.

Ed ei gli fe' cento profumi al naso,
Trassegli sangue della testa, e poi
Gli parve aver il correr dissuaso.

E fatto ch' ebbe altri rimedj suoi, Rendè per sano al padre il suo figliuolo Con questi patti ch' or vi direm noi.

Che mai non lo lasciasse andar fuor solo Per quattro mesi, ma con seco stesse Chi, se per caso e' si levasse a volo,

Che con qualche buon modo il ritenesse; Dimostrandogli in parte il suo errore, Pregandol ch' al suo onor riguardo avesse.

Così andò ben più d'un mese fuore, Onesto e saggio infra due suoi fratelli, Di riverenza pieno e di timore.

Ma giunto un dì nella via de' Martelli, Onde puossi la via larga vedere, Cominciaro a ricciarsegli i capelli.

Non si potè questo giovin tenere,
Vedendo quella via dritta e spaziosa,
Di non tornar nell' antico piacere.

E posposta da parte ogni altra cosa,
Di correr gli tornò la fantasia,
Che mulinando mai non si riposa.

E giunto in su la testa della via
Lasciò ire il mantello in terra, e disse:
Qui non mi terrà Cristo; e corse via.

E di poi corse sempre mentre visse, Tanto che 'l padre vi perdè la spesa, E'l medico lo studio che vi misse.

Perchè la mente nostra sempre intesa
Dietro al suo natural, non ci consente
Contr' abito o natura sua difesa.

Ed io, avendo già volta la mente
A morder questo e quello, un tempo stetti
Assai quieto, umano e paziente,

Non osservando più gli altri difetti,
Cercando in altro modo fare acquisto,
Talchè d'esser guarito i' mi credetti.

Ma questo tempo dispettoso e tristo
Far, senza ch' alcun abbia gli occhi d' Argo,
Più tosto il mal, che il bene ho sempre visto.

Onde s' alquanto or di veleno spargo,
Bench' io mi sia divezzo di dir male,
Mi sforza il tempo di materia largo.

E l'Asin nostro, che per tante scale
Di questo nostro mondo ha mosso i passi,
Per lo ingegno veder d' ogni mortale :

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