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A UN AMICO.

Per darvi intiero avviso delle cose di qua circa al frate secondo il desiderio vostro, sappiate, che dopo le due prediche fatte, delle quali avete già la copia, predicò la domenica del carnesciale, e dopo molte cose dette, invitò tutti i suoi a comunicarsi il dì di carnesciale in San Marco, e disse che voleva pregare Iddio che se le cose che egli aveva predette non venivano da lui, ne mostrasse evidentissimo segno; e questo fece, come dicono alcuni, per unire la parte sua, e farla più forte a difenderlo, dubitando che la Signoria nuova già creata, ma non pubblicata, non gli fosse avversa. Pubblicata dipoi il lunedì la Signoria, della quale dovete avere avuta piena notizia, giudicandosela lui più che li due terzi nemica, avendo mandato il papa un brieve che lo chiedeva, sotto pena d'interdizione, e dubitando egli che ella non volesse ubbidire di fatto, deliberò o per suo consiglio, o ammonito da altri, lasciare il predicare in Santa Liperata, e andarsene in San Marco. Pertanto il giovedì mattina, che la Signoria entrò, disse in Santa Liperata, che per levare scandolo, e per servare l'onore di Dio, voleva tirarsi indreto, e che gli uomini lo venissino a udire in San Marco, e le donne andassero in San Lorenzo a frà Domenico. Trovatosi adunque il nostro frate in casa sua, chi avrà udito con quale audacia e' cominciassi le sue prediche, e con quale egli le seguiti, non sarebbe di poca ammirazione; perchè dubitando egli forte di sè, e credendo che la nuova Signoria fosse al nuocerli considerata, e deliberato che assai cittadini rimanessino sotto la sua rovina, cominciò con spaventi grandi, con ragioni a chi non le discorre efficacissime, mostrando essere ottimi i suoi seguaci, e gli avversarj scelleratissimi, toccando tutti quei termini che fossero per indebolire ia parte avversa, e fortificare la sua; delle quali cose, perchè mi trovai presente. qualcuna ritratterò.

L'assunto della sua prima predica in San Marco, furono queste parole dell'Esodo: Quanto magis premebant eos, tanto magis multiplicabantur et crescebant ; e prima che e' venisse alla dichiarazione di queste parole, mostro per qual cagione egli si era ritirato indietro, e disse: Prudentia est recta ratio agibilium. Dipoi disse che tutti gli uomini avevano avuto ed hanno un fine, ma diverso da' cristiani; il fine loro è Cristo, degli altri uomini e presenti e passati, è stato ed è altro, secondo le sette loro. Intendendo dunque noi, che cristiani siamo, a questo fine che è Cristo, dobbiamo con somma prudenza e osservanza de' tempi conservare l' onore di quello; e quando il tempo richiede esporre la vita per lui, esporla; e quando è tempo che l' uomo s' asconda, ascondersi, come si legge di Cristo e di san Paolo; e così soggiunse dobbiamo far noi e abbiamo fatto; perocchè quando fu tempo di farsi incontro al furore, ci siamo fatti, come fu il dì dell' Ascensione, perchè così l'onor di Dio e il tempo richiedeva; ora che l' onore di Dio vuole che e' si ceda all' ira, ceduto abbiamo. E fatto questo breve discorso fece dua schiere, l' una che militava

Frà Girolamo Savonarola.

sotto Dio, che era lui e i suoi seguaci; l' altra sotto il diavolo, che erano gli avversarj; e parlatone diffusamente entrò nell' esposizione delle parole dell'Esodo proposte, e disse che per le tribolazioni gli uomini buoni crescono in due modi, in ispirito e in numero; in ispirito, perchè l' uomo si unisce più con Dio, soprastandogli l' avversità, e diventa più forte, come più appresso al suo agente, come l'acqua calda accostata al fuoco diventa caldissima, perchè è più presso al suo agente. Crescono ancora in numero: perchè e' sono di tre generazioni uomini, cioè buoni, e questi sono quelli che mi seguitano; perversi e ostinati e quelli sono gli avversarj. È un' altra specie di uomini di larga vita, dediti a' piaceri, nè ostinati al mal fare nè al ben far rivolti, perchè l'uno dall' altro non discernono, ma come fra i buoni e questi nasce alcuna dissensione in fatto, quia opposita juxta se posita magis elucescunt, conoscono la malizia de' tristi e la semplicità de' buoni, a questi si accostano e quelli fuggono, perchè naturalmente ognuno fugge il male, seguita il bene volentieri e però nelle avversità i tristi mancano e i buoni moltiplicano; et ideo quanto magis, etc. Io vi discorro brevemente, perchè l' angustia epistolare non ricerca lunga narrazione. Disse poi, entrato in varj discorsi, come è suo costume, per debilitare più gli avversarj, volendosi fare un ponte alla seguente predica, che le discordie nostre ci potrebbero far surgere un tiranno, che ci rovinerebbe le case, e guasterebbe le terre; e questo non era già contro a quello che egli aveva già detto, che Firenze doveva felicitare, e dominare all' Italia; perchè poco tempo si starebbe, che sarebbe cacciato; e in su questo finì la sua predicazione. L'altra mattina esponendo pure l' Esodo, e venendo a quella parte dove dice che Moisè ammazzò un Egizio, disse che l' Egizio erano gli uomini cattivi, e Moisè il predicatore che li ammazzava, scoprendo i vizj loro; e disse: O Egizio, io ti voglio dare una coltellata e cominciò a squadernare i libri vostri, o preti, e trattarvi in modo che non ne mangerebbero i cani; dipoi soggiunse e a questo lui voleva capitare, che voleva dare all' Egizio un' altra ferita e grande, e disse che Iddio gli avea detto, che gli era uno in Firenze, che cercava di farsi tiranno, e teneva pratiche e modi perchè gli riescisse, e che voleva cacciare il Frate, scomunicare il Frate, perseguitare il Frate, non voleva dire altro se non che voler fare un tiranno; e che si osservassino le leggi. E tanto ne disse, che gli uomini poi il di fecero pubblicamente coniettura di uno, che è tanto presso al tiranno, quanto voi al cielo. Ma avendo dipoi la Signoria scritto in suo favore al papa, e veggendo che non gli bisognava temere più degli avversari suoi in Firenze, dove prima lui cercava di unire la parte sua col detestare gli avversarj e sbigottirli col nome del tiranno, ora poi che e' vede non gli bisognar più, ha mutato mantello, quelli all' unione principiata confortando, nè di tiranno nè di loro scelleratezze più menzione facendo, e di inanimargli tutti contro al sommo pontefice cerca, e verso lui e suoi messi rivoltarsi, quello ne dice che di quale vi vogliate scelleratissimo uomo dire si puote; e così, secondo il mio giudizio, viene secondando i tempi e le sue bugie colorendo. Ora quello che pel vulgo si dica, quello che gli uomini ne sperano o temano, a voi che prudente siete, lo lascerò giudicare, perchè meglio di me giudicare lo potete, conciossiacosachè e gli umori nostri e la qualità de' tempi e per essere costi l' animo del pontefice conoschiate. Solo di questo vi prego, che se e' non vi è paruto fatica leggere questa mia lettera, non vi paia anco fatica il rispondermi che giudizio di tale disposizione di tempi e di animi circa le cose nostre facciate. Valete. Vester,

Dabam Florentiæ die 8 martii MccccxCVII.

NICCOLÒ DI BERNARDO MACHIAVELLI.

A UNA SIGNORA.

Poichè Vostra Signoria vuole, Illustrissima Madonna, intendere queste nostre novità di Toscana, seguite ne' prossimi giorni, io glie ne narrerò volentieri, si per satisfarle, sì per avere i successi di quelle onorato gli amici di Vostra Signoria Illustrissima e padroni miei, le quali due cagioni cancellano tutti gli altri dispiaceri avuti, che sono infiniti, come nell' ordine della materia Vostra Signoria intenderà.

Concluso che fu nella dieta di Mantova di rimettere i Medici in Firenze, e partitosi il vicerè per tornarsene a Modena, si dubitò in Firenze assai che il campo spagnuolo non venisse in Toscana : nondimanco non ce ne essendo altra certezza, per avere nella dieta governate le cose segretamente, e non potendo credere molti che il papa volesse che l'esercito spagnuolo turbasse quella provincia, intendendosi massime per le lettere di Roma non essere intra gli Spagnuoli e il papa una grande confidenza, stettero con l'animo sospesi senza fare altra preparazione, insino a tanto che da Bologna venne la certezza del tutto. Ed essendo già le genti nemiche propinque a' nostri confini a una giornata, turbossi in un tratto da questo subito assalto, e quasi insperato, tutta la città; e consultato quello fusse da fare, si deliberò con quanta più prestezza si potesse, non potendo essere a tempo a guardare i passi de' monti, mandare a Firenzuola, castello su' confini tra Firenze e Bologna, due mila fanti, acciocchè gli Spagnuoli per non si lasciare addietro così grossa banda, si volgessero all' espugnazione di quel luogo, e dessero tempo a noi d'ingrossare con più genti e potere con maggiori forze ostare agli assalti loro : le quali genti si pensò di non le mettere in campagna, per non le giudicare potenti a resistere ai nemici, ma fare con quelle testa a Prato, castello grosso posto nel piano e nelle radici dei monti che scendono dal Mugello, e propinquo a Firenze a dieci miglia, giudicando quel luogo esser capace dell' esercito loro e potervi star sicuro, e per esser vicino a Firenze potere ogni volta soccorrerlo, quando gli Spagnuoli fossero andati a quella volta. Fatta questa deliberazione, si mossero tutte le forze per ridurle ne' luoghi disegnati, ma il vicerè l' intenzione del quale era di non combattere le terre, ma di venire a Firenze per mutare lo stato, sperando colla parte poterlo fare facilmente, si lasciò indietro Firenzuola, e passato l'Appennino scese a Barberino di Mugello, castello propinquo a Firenze diciotto miglia, dove senza contratto tutte le castella di quella provincia essendo abbandonate di ogni presidio, riceverono i comandamenti suoi, e provvedevano il campo di vettovaglie secondo le loro facultà. Essendosi intanto a Firenze condotto buona parte di gente, e ragunati i condottieri delle genti di arme, e consigliatisi con loro alle difese di questo assalto, consigliarono non essere da far testa a Prato, ma a Firenze, perchè non giudicavano potere, rinchiudendosi in quel castello, resistere al vicerè, del quale non sapendo ancora le forze certe, potevano credere che venendo tanto animosamente in questa provincia, le fossero tali che a quelle il loro esercito non potesse resistere. E però stimavano il ridursi a Firenze più sicuro dove con l'aiuto del popolo erano sufficient a tenere e difendere quella città, e potere con quest' ordine tentare di tener Prato, lasciandovi un presidio di tremila persone. Piacque questa deliberazione, e in specie al gonfaloniere, giudicandosi più sicuro e più forte contro alla parte, quanto più forze avesse dentro presso di sè. E trovandosi le cose in questi termini, mandò il vicerè a Firenze suoi ambasciatori, i quali esposero alla Signo

ria, come non venivano in questa provincia nemici, nè volevano alterare la libertà della città, nè lo stato di quella, ma solo si volevano assicurare di le che si lasciasse le parti francesi, e aderissesi alla lega, la quale non giudicava potere star sicura di questa città, nè di quanto se gli prometteva, stando Piero Soderini gonfaloniere, avendolo conosciuto partigiano dei Francesi, e però voleva che egli deponesse quel grado, e che il popolo di Firenze ne facesse un altro come gli paresse. Al che rispose il gonfaloniere, che non era venuto a quel segno nè con inganno nè con forza, ma che vi era stato messo dal popolo, e però se tutti i re del mondo accozzati insieme gli comandassero lo deponesse, mai lo deporrebbe. Ma se questo popolo volesse che lui se ne partisse, lo farebbe così volentieri, come volentieri lo prese, quando senza sua ambizione gli fu concesso. E per tentare l' animo dell' universale, come prima fu partito l'ambasciatore, ragunò tutto il consiglio, e notificò loro la proposta fatta, e offersesi, quando al popolo così piacesse, e che essi giudicassero che dalla partita sua ne avesse a nascere la pace, era per andarsene a casa, perchè non avendo egli mai pensato se non a beneficare la città, gli dorrebbe assai che per suo amore la patisse. La qual cosa unitamente da ciascuno gli fu denegata, offrendogli tutti di mettere insino alla vita per la difesa sua.

Segui in questo mezzo che il campo spagnuolo si era presentato a Prato, e datovi un grande assalto, e non lo potendo espugnare, cominciò Sua Eccellenza a trattare dell' accordo coll' oratore fiorentino, e lo mandò a Firenze con un suo, offerendo di esser contento a certa somma di danari; e de' Medici si rimettesse la causa nella cattolica Maestà, che potesse pregare e non forzare i Fiorentini a riceverli. Arrivati con questa proposta gli oratori, e riferito le cose degli Spagnuoli deboli, allegando che si morrieno di fame, e che Prato era per tenersi, messe tanta confidenza nel gonfaloniere e nella moltitudine, colla quale egli si governava, che benchè quella pace fosse consigliata da' savj, tamen il gonfaloniere l' andò dilatando tanto, che l' altro giorno poi venne la nuova essere preso Prato, e come gli Spagnuoli, rotto alquanto di muro, cominciarono a sforzare chi difendeva, e a sbigottirgli, intantochè dopo non molto di resistenza tutti fuggirono, e gli Spagnuoli, occupata la terra, la saccheggiarono, ed ammazzarono gli uomini di quella con miserabile spettacolo di calamità. Nè a Vostra Signoria ne riferirò i particolari per non gli dare questa molestia d'animo; dirò solo che vi morirono meglio che quattromila uomini, e gli altri rimasero presi, e con diversi modi costretti a riscattarsi; nè perdonarono a vergini rinchiuse ne' luoghi sacri, i quali si riempierono tutti di stupri e di sacrilegj.

Questa novella diede gran perturbazione alla città, nondimanco il gonfalo niere non si sbigotti, confidatosi in certe sue opinioni e sulle grate offerte che pochi di avanti gli erano state fatte dal popolo; e pensava di tenere Firenze, e accordare gli Spagnuoli con ogni somma di danaro, purchè si escludessero i Medici. Ma andata questa commissione, e tornato per risposta come gli era necessario ricevere i Medici o aspettare la guerra, cominciò ciascuno a temere del sacco, per la viltà che si era veduta in Prato ne' soldati nostri; il qual timore cominciò ad essere accresciuto da tutta la nobiltà, che desideravano mutare lo stato, intanto che il lunedì sera a dì 30 di agosto a due ore di notte, fu dato commissione agli oratori nostri di appuntare col vicerè ad ogni modo, e crebbe tanto il timore di ciascuno, che il palazzo e le guardie consuete che si facevano dagli uomini di quello stato, le abbandonarono, e rimaste nude di guardia, fu costretta la Signoria a rilassare molti cittadini, i quali, sendo giudicati sospetti e amici a' Medici, erano stati a buona guardia più

giorni in palazzo ritenuti, i quali, insieme con molti altri cittadini de' più nobili di questa città, che desideravano di ricevere la reputazione loro, presero tanto, che il martedì mattina vennero armati a palazzo, e occupati tutti i luoghi per sforzare il gonfaloniere a partire, furono da qualche cittadino persuasi a non fare alcuna violenza, ma lasciarlo partire d'accordo. E così il gonfaloniere accompagnato da loro medesimi se ne tornò a casa, e la notte vegnente con buona compagnia, di consentimento dei signori, si condusse a Siena.

Essendosi in quel tanto in Firenze fatto certo nuovo ordine di governo, nel quale non parendo al vicerè che vi fusse la sicurtà della casa de' Medici, nè della lega, significò a questi signori, esser necessario ridurre questo stato nel modo era, vivente il magnifico Lorenzo. Desideravano i cittadini nobili satisfare a questo, ma temevano non vi concorresse la moltitudine; e stando in questa disputa come si avessero a trattare queste cose, entrò il legato in Firenze, e con sua signoria vennero assai soldati, e massime italiani, ed avendo questi signori in palazzo a dì 16 del presente più cittadini, e con loro era it magnifico Giuliano, e ragionando della riforma del governo, si levò a caso certo romore in piazza, per il quale Ramazzotto co' suoi soldati ed altri presero il palazzo, gridando : Palle Palle, e subito tutta la città fu in arme, e per ogni parte della città risonava quel nome; tanto che i signori furono costretti chiamare il popolo a concione, quale noi chiamiamo parlamento, dove fu promulgata una legge, per la quale furono questi magnifici Medici reintegrati in tutti gli onori e gradi de' loro antenati. E questa città resta quetissima, e spera non vivere meno onorata con l'aiuto loro, che si vivesse ne' tempi passati, quando la felicissima memoria del magnifico Lorenzo loro padre gover

nava.

Avete dunque, Illustrissima Madonna, il particolare successo de' casi nostri, nel quale non ho voluto inserire quelle cose che la potessero offendere, come miserabili e poco necessarie. Nell' altre mi sono allargato quanto la strettezza di una lettera richiede. Se io avrò satisfatto a quella, ne sarò contentissimo; quando che no, prego Vostra Signoria Illustrissima mi abbia per iscusato. Qua diu et felix valeat. (Manca la data di questa lettera e la direzione.)

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A FRANCESCO VETTORI A ROMA.

Magnifico Viro Francisco Victorio, oratori florentino apud summum

pontificem.

Come da Paolo Vettori avrete inteso, io sono uscito di prigione con letizia universale di questa città, nonostante che per l'opera di Paolo e vostra io sperassi il medesimo, di che vi ringrazio. Nè vi replicherò la lunga istoria di questa mia disgrazia; ma vi dirò solo che la sorte ha fatto ogni cosa per farmi questa ingiuria pure, per grazia di Dio, ella è passata. Spero non c' incor rere più, sì perchè sarò più cauto, sì perchè i tempi saranno più liberali, e non tanto sospettosi.

Voi sapete in che grado si trova messer Totto nostro. Io lo raccomando a voi e a Paolo generalmente. Desidera solo lui ed io questo particolare, di esser posto infra i famigliari del papa, ed essere scritto nel suo ruotolo, e avere la patente, di che vi preghiamo.

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