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RIVISTA

DELLA

STAMPA ITALIANA

I.

Pietro Pomponazzi, studii storici su la scuola Bolognese e Padovana del secolo XVI con molti documenti inediti, per FRANCESCO FIORENTINO, professore ordinario di Storia della Filosofia nella R. Università di Bologna Firenze 1868.

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L'argomento di questo libro, come apparisce dallo stesso titolo, è la scuola dei così detti nuovi peripatetici del secolo XVI, la quale dall'Autore vien considerata come il secondo periodo della rinascenza, posto tra il breve periodo del Platonismo di Firenze, e l'altro di cui fa rappresentanti il Telesio, il Campanella e Giordano Bruno. Nella trattazione poi è preso per protagonista il Pomponazzi, per essere lui ștato, dice l'Autore, il più nuovo, il più ardito, il più serio di quella scuola, e perchè intorno al medesimo si raggruppano i più celebrati di quel secolo, i quali con lui si congiungono, o come maestri, o come competitori, o come seguaci 1. Nell'esame in fine della dottrina del detto Pomponazzi il Fiorentino presceglie come idea capitale la teorica contenuta nel libro della immortalità, o, come altri meglio disse, della mortalità dell' anima; perchè il filosofo mantovano ivi inizia veramente la filosofia della rinascenza italiana 2.

1 Pag. 7.2 Pag. 30.

Sul cadere del medio evo il maestro di color che sanno era tuttavia riputato Aristotile; e l'insegnamento filosofico si faceva commentando il suo testo. Ora Aristotile nei punti più essenziali della filosofia, quali sono la relazione dell'universale coll' individuo, della forma colla materia, dell' intelletto col senso, si era mostrato, dice l'Autore, oscuro ed incerto. Quindi la varietà e l'opposto opinare de' suoi commentatori nel risolvere quei tre problemi, e le dottrine contrarie a cui divennero. Nel periodo, di cui qui parliamo, gli animi si applicarono principalmente alla soluzione del terzo capo; intorno al quale Aristotile, dopo aver generalmente definita l'anima, Atto del corpo fisico, organico, avente in potenza la vita, pare che si periti di applicare anche all' anima umana così fatta definizione. Egli dice in un luogo: Quanto all' intelletto e alla virtù contemplativa niente ancora è manifesto; ma sembra che ella sia una specie diversa di anima e che essa sola come immortale resti separata da tutto ciò che è corruttibile 1. Ed altrove: È da dire che il solo intelletto proviene di altronde, ed esso solo è qualche cosa di divino 2. D'altra parte egli insegna che senza il sentimento non sorge alcuna conoscenza nell'animo, e che quando intendiamo abbiam sempre mestieri di un fantasma, in cui riluca l' inteso 3. Queste affermazioni principalmente determinarono due opposti commenti: il greco e l'arabo. Il commento greco è rappresentato da Alessandro di Afrodisia, il quale meritò l'onore d'essere detto il secondo Aristotile e l'interprete per eccellenza. Il Fiorentino epiloga così questo punto capitale della sua dottrina: «< Aristotile avea legato l'anima indissolubilmente col corpo, ma aveva fatto una distinzione esplicita tra le facoltà inferiori e l'intelletto, smagliando così le anella della catena onde l'anima era avvinta al corpo. Alessandro ricostruisce in certo modo l'unità dell'anima, che in Aristotile era quasi spartita in due, e mette l' intelletto a paro col sentire, e perciò le più alte come le infime facoltà erano risultato dell'organismo, senza che nulla vi s' introducesse da fuora. E dove Aristotile aveva di

1 Dell'anima, 1. 2, c. 2.

2 Della generazione degli animali, I. 2, c. 3. 3 Dell'anima, 1. 3, c. 8.

chiarato immortale l'intelletto, Alessandro accomuna il destino di questo con le facoltà inferiori, seguace piuttosto dei primi successori dell'aristotelismo, che del maestro medesimo. L'intelletto per lui è materiale e fisico, vous hxbę xxi gustzbę 1. » Vuole per altro che νοὺς ὑλικὸς καὶ φυσικὸς cotesto intelletto materiale, per venire all'atto ed acquistare la scienza, abbia mestieri dell' esterna illustrazione dell' intelletto agente, che è Dio; in quella guisa che l'occhio ha bisogno d'essere illuminato dalla luce, per percepire i colori.

Ciò che Alessandro fu presso i Greci, fu presso i Latini Averroe, che il gran commento feo. Questi tenendo dietro ad Aristotile nei suoi voli oltramondiali concepì l'intelletto come ente separato dagli umani individui, nei quali apparisce, illustrandoli del suo lume.

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Così Dante esprime la sentenza dell'Arabo 2. Il nostro Autore la espone nel seguente modo: « L'intelletto, diceva Averroe, non può consistere in una semplice disposizione o preparazione, come pretende Alessandro d'Afrodisia. Una disposizione senza un subbietto è impossibile: l'intelletto adunque, se non può essere l'anima, bisogna che sia un' intelligenza separata... L'anima umana si solleva da sè per virtù propria sino alla virtù cogitativa, la quale arieggia l'intelletto, ma non è ancor lui; è un ricettacolo preparato ad albergare l'intelligenza che piove dall'alto: albergo necessario, se no la continuazione dell' intelletto agente nell'uomo. non si potrebbe effettuare o almeno non ci sarebbe più ragione che l'intelletto si degnasse d'illuminare l'anima umana, anzichè una qualsivoglia altra anima belluina. Distinta adunque la virtù cogitativa dall' intelletto: posta la prima nell'uomo, l'altro fuori, avviene un congiungimento,. o, come preferisce di dire in questo caso Averroe, una continuazione dell' intelletto nell'anima umana 3.

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1 Pag. 106.

2 Purgatorio, canto 25.

3 Pag. 186.

Prima di procedere oltre notiamo, non esser esatto il menzionare quei due soli commenti di Aristotile. Egli era da annoverare altresì il celebratissimo commento delle opere dello Stagirita, fatto da san Tommaso d'Aquino, il quale commento fu propriamente in voga nelle scuole cattoliche di Europa, e può in rigore chiamarsi il Commento latino. Vero è che il Fiorentino nel capitolo terzo parlando della Scolastica dice altresì qualche cosa di S. Tommaso. Ma non fa motto del suo famoso Commento. Eppure fu questo principalmente che determinò la vittoria dell'Aquinate sopra l'Arabo. Il Commento di Averroe, come lo stesso Fiorentino osserva, servì di scuola ai liberi pensatori del secolo XIII, e nel XIV divenne simbolo di eresia e d'incredulità 1. E forse questa è la ragione per cui egli di esso solo fa ricordo. Ma rimettiamoci in cammino.

Il Pomponazzi, nato in Mantova il 1462, fece i suoi studii scientifici nell'Università di Padova; dopo i quali insegnò quivi alcuni anni filosofia, e di là passò poscia a Ferrara e da ultimo a Bologna, dove scrisse tutti i libri che rimangono di lui. Nell' interpretazione di Aristotile egli segui il commento greco di Alessandro, e fu il primo a ciò fare; giacchè per l'innanzi la scuola filosofica, tanto di Padova quanto di Bologna, teneva per Averroe. « Il perno del dissidio, tra le due interpretazioni, dice l'Autore, consisteva principalmente circa la natura dell' intelletto, che gli Averroisti davano per unico, e gli Alessandristi al contrario pretendevano fosse moltiplicato secondo gl'individui umani. » Il Pomponazzi cominciò a trattar questo punto nel libro dell' immortalità dell'anima; nel quale sostiene la moltiplicazione dell' intelletto umano nei diversi individui, ma lo annoda talmente all'organismo corporeo, che debba assolutamente venir meno colla dissoluzione del medesimo. Quindi benchè protesta di credere alla immortalità dell'anima umana come cristiano, tuttavia soggiunge che come filosofo è costretto a negarla. L'argomentazione, in cui si fonda, in brevi termini, è la seguente. L'opinione di Averroe dell' intelletto separato non solo è contraria ad Aristotile, ma è ridicola; giacchè porrebbe nell'anima due modi d' intendere uno

1 Pag. 52.

indipendente, l'altro dipendente dal corpo. L'opinione di Platone, che ammette in ciascun uomo un' anima intellettiva sua propria, ma distinta dalla sensitiva, scinde l'umano composto ed è contraria alla coscienza, la quale ci attesta che lo stesso lo è quello che intende e quello che sente. Resta la sentenza di S. Tommaso, il quale sostiene contro gli Arabi la moltiplicazione secondo i diversi individui dell'anima intellettiva, e contro Platone l'identità di questa coll'anima sensitiva nell'uomo. In ciò il Pomponazzi consente; ma dissente allorchè il S. Dottore sostiene che quest' anima, intellettiva insieme e sensitiva, sia immortale. Le ragioni, con le quali egli propugna questo suo dissenso, saranno da noi esposte qui appresso, sotto forma di obbiezioni, e ad esse soggiungeremo una breve risposta, affinchè se ne conosca da ognuno la vanità.

Obbiezione prima. Quantunque parecchie operazioni dell'anima accennino alla immortalità; altre invece accennano alla mortalità. Fin qui ci sarebbe uguaglianza per l'una parte e per l'altra. Ma le seconde sono più numerose; e gli uomini, posti tra Dio e le bestie, più tendono al basso che all'alto. Molti vivono bestialmente, pochi divinamente. E questi stessi in che modo si accostano colla mente a Dio? L'intelletto nostro è nebuloso, e appena può dirsi un' ombra d'intelletto.

Risposta. Primieramente è detto male esserci nell'uomo operazioni, che accennino alla mortalità. Quali sarebbero queste operazioni? Quelle che si riferiscono all'organismo: vale a dire le vegetative e sensitive. Or queste allora solamente accennano alla mortalità, quando son sole; cioè quando procedono da un principio che non ha operazione più alta, come accade nelle piante e nei bruti. Ma quando procedono da un principio più elevato, come avviene dell'anima umana, la quale è fonte in noi non solo di vita organica e sensitiva, ma ancora intellettiva, in niun modo accennano alla mortalità; giacchè (come ottimamente osservò S. Tommaso, quasi prevedendo l'obbiezione del Pomponazzi), quantunque di per sè non importino l'immortalità, nondimeno non possono toglierla al principio intellettivo, che la richiede. Al più può dirsi che in noi accennino alla mortalità negativamente, in quanto cioè di per sè non

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