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A vista di forza sì soverchiante il Ringard senza stornar fronte, adocchiò un'altura quivi presso, detta la Collina della lepre, e a veggente del nemico vi prese militarmente posizione. Erano presso le ore 5. Per una mezz'ora sostenne in quest'arrischiatissimo sito, d'ogni parte esplorando l'arrivo delle altre compagnie. Finalmente al declinare del giorno deliberò di levarsene: e non potendo senza pericolo rifare la strada fatta, si ritirò sulla via di Moricone, dove sperava incontrare il de Veaux. Se avesse atteso anche un quarto d'ora, avrebbe udito il fuoco aperto dal Guillemin : ma non gli rimanendo più che poco spazio di luce, giudicò non dovere con sèssanta uomini aspettare la notte, dirimpetto a un nemico, che non poteva assalirsi ne' suoi steccati e poteva assalire lui in numero quasi dieci volte più forte.

Appena erasi dilungato un due chilometri da Montelibretti, quando sentì dietro sè alla lontana levarsi il romore della fucilerìa. Era la colonna Guillemin che dalla parte opposta del monte saliva all'assalto. Tornò sulle sue pedate, in gran guardia, e pronto a serrarsi nel combattimento: ma giunto a piè di Montelibretti, non udì più altro che un tumulto di grida, che poco stante si tacque e morì in profondo silenzio. Onde altro indizio non potendo raccogliere per le tenebre della notte, tirò risolutamente sopra Moricone; e vi giunse ⚫presso alla mezza notte. I trecento Garibaldini che occupato l'aveano, n'erano ripartiti forse un due ore prima. Nel dì seguente egli e il de Veaux convenuti in Moricone ebbero novelle certe della sanguinosa fazione fuggita loro di mano. Loro bolliva l'animo di unire le forze e dare sopra Montorio Romano, ove dicevasi già venuto il Menotti: ma poi se ne rimasero, non osando por mano a impresa sì sproporzionata al loro numero, senz'ordine espresso del Comandante della luogotenenza. Così il de Veaux si ritrasse a Palombara, e il Ringard alla sua compagnia, che era retroceduta da Monte Maggiore a Monte Rotondo.

Delle colonne adunque, spedite su tre linee convergenti a Montelibretti, la sola dei Zuavi condotta dal tenente Guillemin pervenne a misurarsi col nemico. Ora è tempo che narriamo la storia di questo invitto drappello, la cui eroica temerità non ha raffronto, fuorchè nelle più luminose ricordanze degli antichi Crociati.

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Pietro Pomponazzi, studii storici su la scuola Bolognese e Padovana del secolo XVI con molti documenti inediti, per FRANCESCO FIORENTINO, professore ordinario di Storia della Filosofia nella R. Università di Bologna Firenze 1868.

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Invece di seguitare la esposizione degli errori del Pomponazzi 1; sepolti con lui da circa tre secoli, sarà più proficuo soffermarci alquanto a ribattere quelli del suo espositore, il quale vive e scrive ed appuzza colle sue parole la gioventù semplicetta in una delle principali Università dell'Italia. Senonchè, per non allungarci troppo, ci passeremo di tutti gli altri (e non son pochi) che si trovano diffusi nel libro, e ci restringeremo a soli quelli, in cui si assomma tutta la sua filosofia, e più spiegatamente si leggono nell'ultimo capitolo. Essi riduconsi principalmente a due capi: alla confusione dell'intelletto col senso, e di Dio colla ragione umana e col mondo. E senza trattenerci in altri preliminari, vediamo come l'Autore s'ingegna di assodare questi due paradossi.

1 Vedi il quaderno 441, pag. 316, Serie VII, vol. III.

« Nel corso del mio libro, egli dice, ho accennato già, come nel medio evo ci fossero stati due mondi, due ragioni affatto opposte ; come questo dissidio fosse stato a scapito totale del nostro mondo e della nostra ragione; e come finalmente la Rinascenza si fosse provata a rivendicare la nostra parte, malamente usurpata. H Risorgimento non giunse dunque a negare ogni trascendenza, ma ad assottigliarla; non conseguì il totale affrancamento del nostro pensiero, ma lo apparecchiò. L'età moderna, avanzandosi per quella via, ha compito di tutto punto l'impresa, e riconosciuto il valore del mondo e l'assolutezza del pensiero umano 1. » Ciò vuol dire in linguaggio più esplicito, che la filosofia scolastica sosteneva la personalità di Dio come essere distinto da tutto il creato, e l'esistenza d'una vita avvenire per noi, verità che i filosofi increduli del periodo, dal Fiorentino appellato risorgimento, cominciarono ad oppugnare, ma solo l'età moderna giunse a negare del tutto, per opera di quei filosofi che appartengono alla classe dei Risorti e che menarono a termine il movimento impresso dal Pomponazzi. Or come si venne a sì prezioso coronamento? Qui l'Autore introduce Cartesio, come quegli che mise a profitto le ultime illazioni della rinascenza filosofica. << Bruno avea detto: Non ci è Dio, senza il mondo. Campanella: Non vi è intelletto, che non sia senso. Cartesio, quasi riducendo a formola astratta queste due conclusioni, inferì: Non vi è pensiero che non sia essere 2. » Che questo sia il vero principio Cartesiano l'Autore il dimostra da ciò, che Cartesio stabilì egualmente innati il pensiero di noi e l'idea di Dio, e volle che l'uno inchiudesse l'esistenza nostra, l' altra la realtà dell'essere divino. In virtù di un tal principio l'età moderna ha potuto agevolmente pervenire alla sopraddetta illazione, di negare cioè la spiritualità dell'anima umana e la personalità di Dio. Imperocchè se il pensiero si confonde coll'essere, il sentimento non si distingue dall' organo sensitivo, e da esso neppure può distinguersi quella che noi appelliamo intellezione. «Per noi il pregio della rinascenza è stato riposto nello sforzo d'intrinsecare sempre più l' intelletto colla materia: la filo

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sofia moderna non può essere dunque altro che il frutto di quegli sforzi, la ricognizione di quella medesimezza 1. » Eseguita così questa prima felice intrinsecazione; riuscì agevole anche l'altra di confondere Iddio col mondo e specialmente col mondo umano. «< Se tutto lo spirito sta nel pensare, se egli ha l'idea dell' infinito, egli è nè più nè meno che l' infinito 2. » Non vi par chiaro? Non è logica questa da uomini risorti? « Per noi l'infinito non è una cosa nè una persona, ma è la relazione di tutte le cose e di tutte le persone l'infinito, in altri termini, è un' idea, e, se volete, anche una realtà, ma una realtà diversa dalla naturale; è la realtà umana 3. » Nè crediate che il pregio di questa scoperta sia solamente specolativo: è anche pratico. L'Autore ci fa sapere che appunto in siffatto concetto è fondata l'autonomia dello Stato, separato dalla Chiesa e la libertà di coscienza; e si compiace che ad esso, senza saperlo, tengan bordone eziandio quelli che, quantunque ammettano un Dio personale, tuttavia promovono que' due fondamenti del moderno edifizio sociale. « Coloro medesimi che vi contrastano (alla confusione cioè di Dio coll'uomo e col mondo) per una felice incoerenza, operano e parlano, come se ne avessero pienamente accettato i principii. Il valore dello Stato moderno, la libertà di coscienza, ammessa senza restrizione, lo studio amoroso delle prime origini della lingua, la prevalenza delle ricerche storiche, il posilivismo stesso, tutto è insomma, una prova irrefragabile che l'Assoluto si crede e si cerca nel mondo umano 4», o per meglio dire nel mondo bestiale, giacchè l'uomo, secondo cotesta filosofia non si distingue dalla bestia.

L'Autore si volge qui ai Positivisti, ed in ispecie al Villari, altro luminare in quella medesima Università a beneficio della gioventù , studiosa, e dice loro che concepito così Dio, non dovrebbero avere tanta difficoltà ad ammetterlo nel loro sistema. Anzi osserva che essi, senza addarsene, di già lo ammettono: perocchè sebbene riducano la filosofia al solo studio dei fatti storici, vuoi nella natura, vuoi nella società, nondimeno di questi stessi fatti cercano le rela

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zioni scambievoli e le leggi regolatrici. Ora questo e non altro è il Dio, di cui egli si contenta. « Descritto così l'Assoluto, come relazione costante dei fenomeni naturali, come ideale costante e progressivo della realtà umana, non credo che al mio amico Villari incuterà più quel sacro orrore che prima gl' incuteva il Dio nebbioso ed inerte dei nuovi mistici 1. » Niente affatto. Il sacro orrore sorge soltanto, quando si tratta di un Dio, persona viva, a cui si debba render conto di ciò che facciamo e diciamo. Ma qual orrore volete che si abbia di un Dio confuso col nostro pensiero e con qualunque creatura ci vada più a sangue? Ed ecco i due magnifici risultati, a cui i lunghi studii di questi Signori son divenuti: Materialismo ed Ateismo; e diciamo ateismo, giacchè tra queste due proposizioni : Il solo mondo esiste, senza Dio, e il mondo stesso è Dio, non vediamo qual differenza passi. Certamente se non vogliamo giocar di parole, quando si cerca se esiste Dio, si cerca se esiste un essere distinto dal mondo e dall'uomo, che sia cagione suprema dell'uno 'e dell'altro e sussista in sè stesso e per sè stesso. Onde negare un tal essere è vero ateismo, comunque si orpelli con vane voci. Fu già osservato che il Panteismo non è altro che l'Ateismo, vestito a gala.

Ma quali sono gli argomenti, a cui il nostro Fiorentino appoggia questa sua duplice capestreria? Quanto alla negazione di Dio, oltre quell' arzigogolo della identità del pensiero coll' essere, di cui diremo più sotto, egli ricorre alla virtù del progresso. « Se l'infinito avesse a concepirsi ancora come un opposto qualsiasi, e che avesse ad essere sequestrato dal mondo e dallo spirito umano, tutto il processo della storia sarebbe stato inutile. La conquista del pensiero moderno è appunto cotesta intimità dell' infinito... E la filosofia del Risorgimento a che tendeva? E la novità del filosofare da Cartesio in qua dove consiste? Dove mena il nuovo concetto dello spirito che dà Kant? Qual è il significato dell'Assoluto dopo di lui 2? »> L'argomento, come ognun vede, è assai grazioso! Si cominciò a spropositare da certe teste bislacche; questi spropositi si dilatarono, e da ultimo han figliato l'ateismo; dunque l'ateismo è vero. Se

1 Pag. 486.2 Pag. 481.

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