XXIII. IL TRAMONTO DELLA LUNA. Quale in notte solinga, Sovra campagne inargentate ed acque, E rami e siepi e collinette e ville ; Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Scende la luna; e si scolora il mondo; Spariscon l'ombre, ed una Oscurità la valle e il monte imbruna; E cantando, con mesta melodia, Saluta il carrettier dalla sua via; Tal si dilegua, e tale Lascia l'età mortale La giovinezza. In fuga Van l'ombre e le sembianze Dei dilettosi inganni; e vengon meno Le lontane speranze, Ove s'appoggia la mortal natura. Abbandonata, oscura Resta la vita. In lei porgendo il guardo, Cerca il confuso viatore invano Del cammin lungo che avanzar si sente Ch' a sè l' umana sede, Esso a lei veramente è fatto estrano. Troppo felice e lieta Nostra misera sorte Parve lassù, se il giovanile stato, Dove ogni ben di mille pene è frutto, Quel che sentenzia ogni animale a morte, Lor non si desse in pria Della terribil morte assai più dura - (*)' D' intelletti immortali Degno trovato, estremo ༡ Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni (4) Incolume il desio, la speme estinta, Voi, collinette e piagge, Caduto lo splendor che all' occidente Non resterete, chè dall' altra parte Tosto vedrete il cielo Imbiancar novamente, e sorger l'alba : Alla qual poscia seguitando il sole, Con sue fiamme possenti, Di lucidi torrenti Inonderà con voi gli eterei campi. 1 (5) D'altra luce giammai, nè d' altra aur ora. Che l'altre etadi oscura, Segno poser gli Dei la sepoltura. Καὶ ηράπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς. E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce. GIOVANNI, II, 19. Qui su l'arida schiena Del formidabil monte La qual null' altro allegra arbor nè fiore, Odorata ginestra, Contenta dei deserti. Anco ti vidi De' tuoi steli abbellir l'erme contrade Che cingon la cittade La qual fu donna de' mortali un tempo, Par che col grave e taciturno aspetto (1) Or ti riveggo in questo suol, di tristi Di ceneri infeconde, e ricoperti Dell' impietrata lava, Che sotto i passi al peregrin risona ; Dove s'annida e si contorce al sole e dove al noto La serpe, Cavernoso covil torna il coniglio ; E biondeggiar di spiche, e risonaro Fur giardini e palagi, Gradito ospizio; e fur città famose, Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto All' amante natura. E la possanza Qui con giusta misura Anco estimar potrà dell'uman seme, Poco men lievi ancor subitamente Annichilare in tutto Dipinte in queste rive Son dell' umana gente Le magnifiche sorti e progressive (12). Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e vôlti addietro i passi, E proceder il chiami. Al tuo pargoleggiar gl' ingegni tutti, Ch' a ludibrio talora T'abbian fra sè. Non io Vadi Dante Con tal vergogna scenderò sotterra . E ben facil mi fòra Imitar gli altri, e vaneggiando in prova Mostrato avrò quanto si possa aperto : Bench'io sappia che obblio Preme chi troppo all' età propria increbbe. Di questo mal, che teco Mi fia comune, assai finor mi rido. Libertà vai sognando, e servo a un tempo Sol per cui risorgemmo Dalla barbarie in parte, e per cui solo Si cresce in civiltà, che sola in meglio Così ti spiacque il vero Dell'aspra sorte e del depresso loco Magnanimo colui Che sè schernendo o gli altri, astuto o folle, Uom di povero stato e membra inferme |