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April degli anni, altrui giocondo e primo Dono del ciel, ma grave,

amaro, infesto

A chi patria non ha. Te punge e move
Studio de' carmi e di ritrar parlando
Il bel che raro e scarso e fuggitivo
Appar nel mondo, e quel che, più benigna
Di natura e del ciel, fecondamente
A noi la vaga fantasia produce,

E il nostro proprio error. Ben mille volte
Fortunato colui che la caduca
Virtù del caro immaginar non perde
Per volger d' anni; a cui serbare eterna
La gioventù del cor diedero i fati;
Che nella ferma e nella stanca etade,
Così come solea nell' età verde,
In suo chiuso pensier natura abbella,
Morte, deserto avviva. A te conceda
Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo
La favella che il petto oggi ti scalda,
Di poesia canuto amante. Io tutti
Della prima stagione i dolci inganni
Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
Le dilettose immagini, che tanto
Amai, che sempre infino all' ora estrema
Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
Or quando al tutto irrigidito e freddo
Questo petto sarà, nè degli aprichi
Campi il sereno e solitario riso,
Nè degli augelli mattutini il canto
Di primavera, nè per colli e piagge
Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia
Ogni beltate o di natura o d'arte,
Fatta inanime e muta; ogni alto senso
Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
Del mio solo conforto allor mendico,
Altri studi men dolci, in ch' io riponga

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L' ingrato avanzo della ferrea vita,
Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali
E dell'eterne cose; a che prodotta,
A che d'affanni e di miserie carca
L'umana stirpe; a quale ultimo intento
Lei spinga il fato e la natura; a cui
Tanto nostro dolor diletti o giovi ;
Con quali ordini e leggi a che si volva
Questo arcano universo; il qual di lode
Colmano i saggi, io d' ammirar son pago.
In questo specolar gli ozi traendo
Verrò chè conosciuto, ancor che tristo,
Ha suoi diletti il vero. E se del vero
Ragionando talor, fieno alle genti
O mal grati i miei detti o non intesi,
Non mi dorrò, chè già del tutto il vago
Desio di gloria antico in me fia spento;
Vana Diva non pur, ma di fortuna
E del fato e d'amor, Diva più cieca.

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Maneâr gli usati palpiti,
L'amor mi venne meno,
E irrigidito il seno
Di sospirar cessò !

Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la vita;
La terra inaridita,
Chiusa in eterno gel;

Deserto il dì; la tacita

Notte più sola e bruna ;
Spenta per me la luna,
Spente le stelle in ciel.

Pur di quel pianto origine

Era l'antico affetto :
Nell' intimo del petto

Ancor viveva il cor.

Chiedea l' usate immagini

La stanca fantasia;

E la tristezza mia

Era dolore ancor.

Fra poco in me quell' ultimo

Dolore anco fu spento

E di più far lamento

Valor non mi restò.

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Giacqui insensato, attonito,

Non dimandai conforto :

Quasi perduto e morto,
Il cor s'abbandonò.

Qual fui! quanto dissimile
Da quel che tanto ardore,
Che sì beato errore
Nutrii nell'alma un dì!

La rondinella vigile,
Alle finestre intorno
Cantando al novo giorno,
Il cor non mi ferì:

Non all'autunno pallido In solitaria villa,

La vespertina squilla,

Il fuggitivo Sol.

Invan brillare il vespero
Vidi per muto calle,
Invan sonò la valle
Del flebile usignol.

E voi, pupille tenere,
Sguardi furtivi, erranti,
Voi de' gentili amanti
Primo, immortale amor,

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Ed alla mano offertami
Candida ignuda mano
Foste voi pure invano
Al duro mio sopor.

D'ogni dolcezza vedovo,
Tristo, ma non turbato,
Ma placido il mio stato,
Il volto era seren.

Desiderato il termine
Avrei del viver mio;
Ma spento era il desio
Nello spossato sen.

Qual dell' età decrepita
L'avanzo ignudo e vile,
lo conducea l'aprile
Degli anni miei così:

Così quegl' ineffabili
Giorni, o mio cor, traevi,
Che sì fugaci e brevi
Il cielo a noi sortì.

Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi ridesta?
Che virtù nova è questa,
Questa che sento in me?

Moti soavi, immagini,
Palpiti, error beato,
Per sempre a voi negato
Questo mio cor non è?

Siete pur voi quell' unica
Luce de' giorni miei ?
Gli affetti ch' io perdei
Nella novella età ?

Se al ciel, s' ai verdi margini,
Ovunque il guardo mira,
Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.

Meco ritorna a vivere

La piaggia, il bosco, il monte;
Parla al mio core il fonte,
Meco favella il mar.

Chi mi ridona il piangere

Dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
Cangiato il mondo appar?

Forse la speme, o povero
Mio cor, ti volse un riso?
Ahi della speme il viso
Io non vedrò mai più.

Propri mi diede i palpiti
Natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
L'ingenita virtù ;

Non l'annullâr: non vinsela

Il fato e la sventura;

Non con la vista impura

L'infausta verità.

Dalle mie vaghe immagini

So ben ch'ella discorda:
So che natura è sorda,
Che miserar non sa.

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