Che non del ben sollecita Fu, ma dell' esser solo; Purchè ci serbi al duolo, Or d'altro a lei non cal.
So che pietà fra gli uomini Il misero non trova; Che lui, fuggendo, a prova Schernisce ogni mortal.
Che ignora il tristo secolo Gl'ingegni e le virtudi Che manca ai degni studi L' ignuda gloria ancor.
E voi, pupille tremule, Voi, raggio sovrumano, So che splendete invano, Che in voi non brilla amor.
Nessuno ignoto ed intimo Affetto in voi non brilla : Non chiude una favilla Quel bianco petto in sè.
Anzi d'altrui le tenere Cure suol porre in gioco; E d'un celeste foco Disprezzo è la mercè.
Pur sento in me rivivere Gl' inganni aperti e noti; E de' suoi propri moti
Si maraviglia il sen.
Da te, mio cor, quest' ultimo Spirto, e l'ardor natio, Ogni conforto mio
Solo da te mi vien.
Mancano, il sento, all' anima
Alta, gentile e pura, La sorte, la natura, Il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero, Se non concedi al fato, (2) Non chiamerò spietato
Chi lo spirar mi dà.
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi.? ()
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all' opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso e tu solevi Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte, Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch' io sentiva in seno.
Che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura, O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? Perchè di tanto Inganni i figli tuoi? (1)
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno, Da chiuso morbo combattuta e vinta, Perivi, o tenerella, E non vedevi Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome, Or degli sguardi innamorati e schivi; Nè teco le compagne ai dì festivi Ragionavan d'amore.
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce : agli anni miei Anche negaro i fati
La giovinezza Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell' età mia nova, Mia lacrimata speme! (2)
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l' opre, gli eventi Onde cotanto ragionammo insieme? (5)
Questa la sorte delle umane genti?
All' apparir del vero
Tu, misera, cadesti: 'e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano.
Vaghe stelle dell' Orsa, io non credea Tornare ancor per uso a contemplarvi Sul paterno giardino scintillanti, E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo, E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole Creommi nel pensier l'aspetto vostro E delle luci a voi compagne ! allora Che, tacito, seduto in verde zolla, Delle sere io solea passar gran parte Mirando il cielo, ed ascoltando il canto Della rana rimota alla campagna! E la lucciola errava appo le siepi E in su l'aiuole, susurrando al vento I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto Sonavan voci alterne, e le tranquille Opre de'servi. E che pensieri immensi, Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri, Che di qua scopró, e che varcare un giorno Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio! Ignaro del mio fato, e quante volte Questa mia vita dolorosa e nuda Volentier con la morte avrei cangiato.
Nè mi diceva il cor che l' età verde Sarei dannato a consumare in questo Natio borgo selvaggio, intra una gente Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m' odia e fugge, Per invidia non già, che non mi tiene Maggior di sè, ma perchè tale estima Ch' io mi tenga in cor mio, sebben di fuori A persona giammai non ne fo segno. Qui passo gli anni, abbandonato, occulto, Senz' amor, senza vita; ed aspro a forza, Tra lo stuol de' malevoli divengo : Qui di pietà mi spoglio e di virtudi, E sprezzator degli uomini mi rendo, Per la greggia c'ho appresso e intanto vola Il caro tempo giovanil; più caro Che la fama e l'allòr, più che la pura Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo Senza un diletto, inutilmente, in questo Soggiorno disumano, intra gli affanni, O dell' arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell' ora Dalla torre del borgo. Era conforto Questo suon, mi rimembra, alle mie notti, Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro Non torni, e un dolce rimembrar non sorga. Dolce per sè; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio Del passato, ancor tristo, e il dire : io fui. Quella loggia colà, vòlta agli estremi Raggi del dì; queste dipinte mura, Quei figurati armenti, e il Sol che nasce Su romita campagna, agli ozi miei Porser mille diletti allor che al fianco M' era, parlando, il mio possente errore Sempre, ov' io fossi. In queste sale antiche, Al chiaror delle nevi, intorno a queste
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