Immagini della pagina
PDF
ePub

senza dolore, ciò ch'io sento dell'Italia occidentale del Denina; imperocchè io la memoria di lui amo, venero ed onoro, ed egli mi soleva pur chiamare suo nipote in istoria, a cagione che ei fu maestro di Tenivelli, e Tenivelli il mio.

Considerati gli storici, restano da considerarsi le età; il che farò brevemente ed avendo riguardo specialmente alla natura della civiltà, per cui ciascuna di loro si rese ragguardevole. La civiltà romana ai tempi dell'antica repubblica era una civiltà, per cosi dire, cittadina rispetto ad un' altra che più generale è, e che sparsa si potrebbe chiamare. Tutto il sapere e tutta la civiltà di un cittadino romano consistevano unicamente nelle cose concernenti la sua patria ed il modo di governarla. In ciò aveva l'ingegno molto svegliato e molto uso di pratica; dal che nasceva che raramente s' ingannava nelle deliberazioni da prendersi e nelle persone da eleggersi. Ciò fu l'effetto dell'educazione data da Romolo a quel popolo, e che fu continuata, anzi perfezionata ai tempi dei consoli. Nissun popolo ebbe mai tanta istruzione e tanta sensatezza quanto il romano in tutto ciò che risguardava alle faccende pubbliche. In tutto il resto era ignorantissimo, e non che letterato fosse, le lettere o non sapeva che fossero al mondo, o poco le stimava.

ra, al tempo in cui i Romani la Grecia soggiogarono, i Greci già erano molto cambiati da' bei tempi antichi: già le guerre civili gli desolavano, già i sofisti gli traviavano. Queste pesti contaminarono anche i Romani, ed ogni nervo proveniente dalle virtù civili spensero e soffocarono. I sofisti di Grecia, che prima avevano fatto un gran male alla patria, ne fecero poi a Roma; e Carneade recò più danno a quest'ultima città che Cesare ed Antonio. Bene se n'era accorto Catone che quel famoso sofista greco fe' cacciar via da Roma; ma non era più tempo.

In queste contingenze appunto Tito Livio scrisse le sue storie: le memorie dell'antica libertà viveano ancora, ma la virtù era spenta, la patria non più segno d'amore, ma di preda. Scrisse adunque romanamen te fra Romani corrotti; il che ottimamente espresse con quella magnifica sentenza nella sua prefazione: Ad haec tempora, quibus nec vitia nostra, nec remedia pati possumus, perventum est.

Spenta la virtù civile, prevalse la forza soldatesca: vendevasi e compravasi l'imperio, romano sangue versato da romane mani beveano le terre italiche e forestiere; ogni cosa in peggio ed in ruina. Scrisse allora Tacito le sue storie, e tali le scrisse, quali l'età le dava: ciò fece con più che umano ingegno.

Da tali condizioni, oltre l'attitudine al ben La vasta mole andava sfasciandosi e cagovernare ed al ben essere governato den- dendo, venne la forza da settentrione e del tro, il che era un effetto buono, procedeva tutto l'abbattè. Sorse allora il medio evo, poi che fosse barbaro fuori, cioè verso le desolata età, massime per l'Italia: ignorannazioni forestiere, il che era un effetto cat-za, forza e barbarie allora dominarono. I tivo. Si vede adunque che l'antico popolo romano fu e si conservò libero, perchè fu ignorante, avendo però una instruzione ed educazione speciale, molto estesa e molto profonda pel governo proprio. Questa fu la sua civiltà cittadina.

Ma quando per le conquiste vide ed imparò nozioni e costumi forestieri, e di loro s'impressionò e loro accettò, in propria sapienza e costume convertendogli, allora divenne altro da quel che era. Cambiati e corrotti gli animi, le abitudini patrie e l'amore verso la patria si perdettero, e la repubblica arrivò ad un punto che vivere con la libertà più non poteva. Un tale cambiamento successe più specialmente dopo la conquista della Grecia, perchè il famoso popolo che l'abitava, pel solenne grido che aveva sparso di sè nel mondo per tanti fatti di sapienza, di gusto, di virtù e di valore più impressionava di sè stesso altrui che qualunque altro. Per soprapiù di sventu

sofisti non poterono rovinare nè Alani, nè Goti, nè Vandali, perchè queste nazioni non gli ascoltavano, ma piuttosto davano loro delle labarde su per la testa. Bene i sofisti rovinarono l'imperio d'Oriente, perciocchè male coi sillogismi e colle sofisterie si combatteva contro le ottomane spade. In tutta quest'epoca storie non vi sono, ma sconce, stupide ed insipide cronicacce.

Rifulsero finalmente di nuovo, per opera massimamente degl'Italiani, le lettere e le scienze, ma i costumi testè usciti dal medio evo erano barbari. Tutti volevano fare come Attila ed Alboino, cioè soperchiare altrui; dei mezzi, quali fossero, non si curavano. Vidersi allora gli Eccellini e gli Scaligeri, vidersi poco dopo i Borgia e gli Oliverotti: sporca, crudele ed orrenda eredità aveva lasciato il medio evo. Il nome d'Italia non suonava in cuore di nessuno, o gare municipali da una ad un' altra città, o cupidigia di rubare ed ammazzare. La lega lombarda

stessa poco aveva di generoso, percioc Preparati in tale modo gli spiriti, ed adchè fu crudele contro altre patrie città che dolciti i costumi, e ciascuno fatto meglio altre insegne seguitavano: era un motto consapevole di quanto di ragione gli siapguelfo e ghibellino, non italico. Fra i Bor- partiene tanto verso lo stato, quanto verso gia e gli Oliverotti, fra le ruberie, gli as- i particolari, venne il secolo decimottavo sassinamenti e le usurpazioni d' imperii so- portando con sè due grandissimi cambiapra le innocenti città scrissero Macchiavelli menti, l'uno buono, l'altro pessimo. Quee Guicciardini: l'età, qual essa cra, dipin- sto fu, che non contentandosi di ampliare sero nei loro scritti, elegantissimi scritti sino al diritto la potestà dei principi verso per la forma, schifosi per la sostanza, uti- la Chiesa, molti si misero a scheruire la lissimi pei popoli e pei re. religione, come se la religione non fosse un potentissimo fondamento dello stato, o come se fosse possibile nello stato attuale degli spiriti fondarne una nuova, distrutta l'antica. Da questa fonte nacquero le vergogne ei disastri, che ci scandalizzarono e spaventarono. Quell'altro poi, cioè il cambiamento buono fu, che si mandarono ad esame le materie, che nella pratica più toccano l'uomo vivente in società, e molte utili riforme furono proposte e molte effettuate nelle correlazioni fra il principe e i cittadi ni, e fra i cittadini fra di loro. Sorsero da queste riforme l'egualità civile, e grandissimi miglioramenti nelle materie criminali, immensi benefizi entrambi, che debbono render cara la memoria degli scrittori che gli proposero, e dei principi che gli accettarono e mandarono ad esecuzione.

Le lettere intanto e la religione ridottasi a più sane pratiche, e perciò più rispetta bile divenuta, andavano appoco appoco purificando i costumi, ed i feroci animi ammansando. Ma quivi due effetti notabilissimi si debbono osservare. Il primo si è, che spargendosi i lumi universalmente fra ogni genere di persone ed in tutta l' Europa, quella civiltà cittadina sopra da noi mentovata, cioè individua per un paese, si rendeva sempre più impossibile. La civiltà generale, spegnendo il patriotismo cittadino, ne andava producendo uno generale, che è quanto a dire, nullo: i cosmopoliti, o per parlare più accuratamente, i filocosmi, non sono patrioti. Quest' effetto fu maggiormente, anzi potentissimamente aiutato dal trovato della stampa che congiunse tutte le nazioni insieme, e ne fece, per così dire, di molte una sola. D'allora in poi il patriotismo si ridusse ad una vanità nazionale d'una nazione verso l'altra, non a vero amore d'interna libertà.

Il secondo dei mentovati effetti fu che i sofismi e le sofisteric si voltarono dai soggetti dello stato a quelli della religione, e non più fra le consulte dei reggitori delle nazioni e nei libri dei politici, ma nei chiostri, nei presbiterii e nei libri dei controversisti le lambiccature, le sottigliezze e le astrazioni si rinvennero : accidente utilissimo, perchè nissuna generazione più perpiziosa per gli stati havvi nel mondo che quella dei sofisti. I più fra i sofisti hanno veramente spirito, ma sono ambiziosi e superbi; poi lo spirito è nemico capitale del buon senso, che solo sa regolare gli stati. Nissuna qualità è più preziosa nel maneggio delle umane faccende che il recte sapere; ma questo recte sapere è per sciagura degli uomini molto raro.

Le cose si mutarono in bene dopo tanti contrasti suscitati dall'ambizione; ma la civiltà sparsa non potrà mai dare il medesimo zelo per una patria qualunque che la civiltà cittadina, e i lumi universalmente diffusi più nuocono in questo che giovino.

Un altro peggior male sovrasta alle presenti generazioni, e questo sono i sofisti, i quali, lasciate dall'un deʼ lati le materie religiose, di nuovo, come anticamente, si voltano e si gittano, come sottilissimi insetti, sopra lo stato, e le lambiccature ele astrazioni e le astruserie e le sottigliezze loro in questo proposito sono tante e tali che tutte le entelechie dei teologi non ne starebbero al paragone: funestissimi Carneadi! Questo è un grande segno di decadenza, nè maggiore indizio di corruzione in una nazione vi può essere che questo: i raffinatori delle idee sono la rovina degli stati. I sofisti hanno perduto la libertà greca, hanno perduto la libertà latina, e perderanno la libertà europea, se coloro che recte saCosi passossi il decimosesto ed il deci- piunt non sono valevoli ad oppor loro un mosettimo secolo, andando sempre le let-argine bastante, e se il buon senso non vintere e le scienze ammaestrando e mollifican- ce lo spirito. do gli spiriti, e il principato ampliando la sua autorità verso la Chiesa, e la Chiesa perdendone verso il principato.

с

Parigi, 2 febbraio 1832.

CARLO BOTTA.

STORIA

D'ITALIA

LIBRO PRIMO

SOMMARIO

Morte di Clemente VII, sommo pontefice, ed esaltazione di Paolo III. Qualità dell'uno e dell'altro. Stato delle opinioni e dei costumi in Italia, nel tempo in cui comincia la presente storia. Condizioni politiche. Lettere e belle arti. Triumvirato di sovrani, tutti tre grandi e possenti: Carlo d'Austria, Francesco di Francia, Solimano di Turchia; che pensassero e che volessero. Cenni sulla repubblica di Venezia, su Carlo III di Savoia, su Alessandro di Toscana e sulla repubblica di Genova. Che cosa fosse il banco di san Giorgio. Lega fra certi principi ed a qual fine. Origine e progressi del'eresia di Lutero, Intimazione del concilio in Trento. Francesco I, re di Francia, prepara guerra contro Carlo V imperatore, d'Austria. Contenzioni tra esso Francesco e Carlo III, duca di Savoia. Francesco spinge Solimano ai danni di Carlo austriaco. S'incomincia la guerra. I Francesi occupano la Savoia e gran parte del Piemonte con Torino, città capitale, ritiratusi il duca Carlo a Vercelli. Sdegno di Carlo imperatore per la guerra rottagli dal re Francesco, e sue aspre querele contro di lui in Roma nel concistoro in cospetto del papa. Risposta di Francesco. Guerra in Piemonte, gli Austriaci vi si ingrossano. Carlo invade con forze potenti la Provenza, e quel che ne nasce. I Francesi s'avanzano in Piemonte. Stato lagrimevole di questo paese. Tregua di dieci anni tra i due potenti avversari.

Monto
onTo sul fine di settembre del 1534 Cle- |
mente VII, sommo pontefice, fu il dì dodici
del seguente ottobre, con generale e subito con-
senso di tutto il conclave assunto al pontifi-
cato Alessandro di casa Farnese, con grande
allegrezza dei Romani, per vedere la sedia apo-
stolica ricaduta, dopo cent'anni d'interruzione,
in una famiglia d'origine romana, e che in Roma
aveva tenuto per lungo tempo seggio, grado e
nome onorato. Nè dispiacque alla corte la sua
esaltazione, essendole oggimai venuta a noia la
parsimonia, anzi la grettezza di Clemente, giunta
ad una durezza e crudeltà accresciute più del
solito, dopo ch'egli fu dall'ultima infermità,
che fu lunga e variata di molti accidenti, op-
presso. Le sue incertezze ancora ed ambiguità
sulle faccende del concilio che a suo tempo già
cominciavano fortemente ad agitarsi, l'avevano
reso odioso alla corte, gravemente perturbata
ai moti religiosi della Germania.

S'aggiungeva, che dagli uomini generosi sì

d'Italia che d'altrove, era abborrito il nome di Clemente per avere lui ridotto, contro il senso e la lettera della capitolazione, la città di Firenze, sua patria, nella crudele servitù di Alessandro de' Medici, suo figliuolo, il quale nissuna cosa sacra o santa avendo, rendeva dubbio se ne' tempi più barbari i più feroci e lascivi tiranni avessero mai, più di lui, incrudelito contro i popoli dall' ira di Dio a loro assoggettati, o contaminato vite più innocenti e pure: detestavasi la rotta fede, detestavansi ancor di vantaggio i comandati supplizi e le insopportabili corruttele.

Si notava al contrario in Alessandro Farnese una natura assai più pendente al generoso, e si sperava universalmente, da una parte maggior moderazione di desiderii, dall'altra maggiore franchezza nei negozi del pontificato posto in assai difficile condizione non solo per le novità attinenti alla religione sorte in Germania, ma ancora per l'eccessiva potenza di Carlo V

[ocr errors]

imperatore in Italia, della quale era divenuto, dopo la vittoria di Pavia, arbitro e signore assoluto. Ma quelli che per lunga pratica più intimamente conoscevano Alessandro, non ignoravano che era in lui maravigliosa la dissimulazione, della quale anche si vantava come di virtù, e maravigliosa ancora l'ambizione, per satisfar la quale e per innalzare ad alto grado la sua famiglia, ogni mezzo, qualunque ei fosse, avrebbe senza esitazione alcuna adoperato. E quantunque d'età vecchia, anzi che provetta fosse, temevano o speravano i suoi consiglieri più intimi, ed egli stesso confidava che avrebbe tempo di condurre a termine i suoi pensieri smisurati. Assunse nella coronazione il nome di Paolo III.

Era nel mondo una grande aspettazione dei fatti di questo pontefice, poichè e i tempi erano eccessivamente gravi d'importanti accidenti, ed egli ancor prelato e cardinale essendo, versatissimo nei negozi, intelligentissimo delle azioni umane, vivendo con isplendore quasi regio, amico e protettore assai liberale dei letterati, dell'opera dei quali molto volentieri si serviva, aveva dato di sè un grandissimo concetto; ma prima di raccontare quale parte egli abbia avuta nei fatti della sua età, fatti strettissimamente congiunti, anche in regioni lontane, coi decreti della romana cattedra, fia necessario che da noi si descriva qual fosse lo stato d'Italia e di ciascun membro di lei, onde e le ragioni e le cagioni e gli effetti delle cose che saranno il soggetto delle presenti storie, possano essere da ognuno pienamente conosciuti e compresi. Nel primo ingresso della nostra narrazione non possiamo senza maraviglia notare, come in tanto discorso di religione e splendore di lettere, quali veramente si osservavano al tempo in cui ha principio la tela che abbiamo impreso ad ordire, i costumi fossero così corrotti, che perduto il pudore pubblico, i vizi fra i particolari uomini, anche i più ragguardevoli per ricchezze, grado e condizione, non solo cresciuti oltre modo non si celavano, ma ancora si ostentavano; ed i principi e i loro ministri, niun'altra cosa considerando che il conseguire il fine che si proponevano, non abborrivano nei loro negoziati e deliberazioni da quanto la perfidia ha di più odioso, o la crudeltà di più orrendo, non esclusi nemmeno i veleni e gli omicidii occulti. Della quale tristizia molte erano le cagioni, e fra le principali l'aver tirato la illibata religione di Cristo a fini mondani, e non solo a potenza, ma ancora a denaro, peste che incominciata a' tempi barbari, sali poi con maggior arte ed uguale impudenza al colmo, quando incominciò a sorgere la moderna civiltà.

Viveano adunque gli esempi di Francesco Sforza e di Lodovico il Moro, viveano quelli di Alessandro VI e del suo scelerato figlio, vi

[ocr errors]

veano quelli di Leone X e della sua rilassata corte, viveano finalmente le dottrine del Macchiavello, tirando i potenti a mezzo di governo ciò che il profondo segretario fiorentino avea scritto per modo di descrizione di questa portentosa e poco intelligibile umana natura. Scapestrate pertanto le intenzioni, abbominevoli i modi, molta la superstizione, poca la religione, e conquassata per iscandali là dove veramente ella doveva avere il suo santuario ed il suo propugnacolo.

Il ministerio delle lettere non bastava a metter argine a tanta corruttela. Lento è l'operar loro, e prima ch'elle possano scacciar dagli animi i fraudolenti pensieri e le truci voglie, è richiesto assai tempo. Nè tutti i letterati dell'età erano immuni dalla universale colpa. Se si eccettua l'infelice Torquato, tanto amabile per incorrotta virtù, quanto maraviglioso per la sublimità dell'ingegno, nissun Dante, nè nissun Petrarca era al mondo, nè virtù o libertà per le italiane contrade andava gridando. Visse Dante tutta la vita sua perseguitando il vizio ovunque ei s'annidasse, visse la sua Petrarca predicando la virtù da dovunque sbandita fosse, dell'italica libertà ambidue solleciti, generosi ed alti animi ambedue, e degni d'eterno culto. Ma i letterati contemporanei di Leone e di Clemente, praticando continuamente per le corti e di nissun altro proposito gelosi che di quello di adular i potenti, guastavano coi fatti ciò che procuravano cogli scritti, poichè nissun di loro scrisse sdegnoso contro il vizio, come il cantor di Beatrice, nè amabile per la virtù, come il cantor di Laura.

Pure i semi si gettavano, restavano gli scritti generatori di dilicato costume, il tempo spegneva la memoria delle azioni, l'adulatorio stile appoco appoco perdeva la forza dell'esempio. Per l'efficacia delle lettere era per venir stagione, in cui l'orrore farebbe astenere da certe azioni, cui le credenze e la religione stessa non avevano potuto impedire; la gentilezza più che la persuasione era per operare a benefizio dell'umana generazione.

Nè è da tacersi che il salutifero influsso delle lettere era impedito molto potentemente dagli accidenti politici e militari del tempo. Guerra ardeva in Italia, e guerra continua per le lunghe emulazioni di Carlo V imperatore, e Francesco I re di Francia. Scacciati or l'uno or l'altro dalle forze dell'avversario dal Milanese, tentata Napoli, sebbene indarno, dalle armi francesi, sconvolta e sanguinosa la Toscana per le armi di Carlo chiamato da Clemente, Venezia paventosa per le minacce del Turco, Genova turbata dalle fazioni, Roma ancor bruttata da soldati barbari condotti da un traditore, Piemonte passo, stanza ed arena di combattimenti fierissimi; ogni cosa tirava alla barbarie, ogni cosa ad ignoranza, mentre le lettere

accennavano a civiltà: rozzezza e culto si mescolavano insieme.

Gran differenza si vede fra i tempi dell' invasione di Carlo VIII donde ha principio la storia del Guicciardini, e quelli dai quali incomincia la nostra. La spedizione del re di Francia aveva ridesto, rispetto all' Italia, gli appetiti dei forestieri che già per lungo spazio parevano sopiti. Ne seguitarono lunghe guerre, mutazioni stupende, e quella importunissima infermità degl' Italiani di parteggiare per questo o per quell'altro forestiero. Ancorchè le artiglierie già vi fossero conosciute, tale nondimeno fu la perfezione recata dai Francesi in questi stromenti del combattere, che ne fu cambiato il modo delle battaglie e l'arte del condur le guerre: le fortezze stimate sin allora inespugnabili, cedettero facilmente all'impeto loro, e gli stati, se si eccettuano gl' impedimenti naturali delle montagne, fiumi, paludi e simili, diventarono aperti e quasi senza difesa contro chi gli veniva ad assaltare. La quale condizione durò sino a tanto che nuovi modi di propugnare fossero trovati contro il nuovo e terribil modo di oppugnare. Quindi avvenne che gli assedii si convertirono in oppugnazioni, e gli attacchi si fecero più risoluti, succedendo in tale guisa la forza alla fame per indurre la necessità della dedizione.

Gli stati, sottomessi a maggior facilità d'invasione, dovettero pensar ai rimedii: nè gli potevano trovare che in una celerità più grande si nell'adunar soldati, come nell' ammaestrargli. I principi avevano da per sè stessi pochi soldati, ed in qualche paese nissuno, dipendendo in tutto da quelli che loro erano somministrati dai feudatari in virtù degli ordini feudali. Ora, un tal modo di raccorre le milizie portava con sè molta tardità, perchè non una, ma più volontà erano richieste per fare che si raccogliessero; e non di rado ancora la mala disposizione di uno o più feudatari era d'impedimento.

armi proprie e dipendenti intieramente da loro. Non è ora nel proposito nostro l'investigare sino a qual punto una così grave mutazione abbia contribuito a tôrre autorità ai feudatari, a dare independenza ai principi, a conferire maggiore o minore libertà ai popoli. Bene questo diremo, che sorsero allora in Italia gli eserciti fermi al soldo del principe; e sebbene questa, non so se mi dica salutare o pestifera invenzione, non abbia avuto il suo compimento che nei secoli posteriori, si vede ciò non ostante che dai tempi e dalle cagioni che descriviamo ebbe il suo principio.

Per verità, i Veneziani possessori di una capitale piuttosto marittima che terrestre, abitata da una popolazione assai numerosa se se ne fa paragone con quella della terraferma, vivendo senza sospetto di rivoluzioni popolari nel cuore della loro potenza si per gli ordini politici che avevano instituiti, come per l'uso prevalso che la maggior parte dei cittadini voltassero i pensieri e l'attività loro verso il commercio e la navigazione, e da un altro lato non temendo i soldati fermi perchè non avevano nissuna necessità d'introdurgli nella metropoli, già molto prima avevano creato una soldatesca stabile scegliendo, sotto il nome di cerne, a grado loro e con assoluto imperio nelle province a ciò destinate gli uomini atti al servizio della milizia. Ma quello che i Veneziani avevano fatto antivedendo il pericolo delle invasioni, gli altri sovrani il fecero dopo di lui, e da una ineluttabile necessità costretti.

Nacque da tutto ciò una notabile diversità di guerra; perchè se prima era fattibile il correre improvvisamente l'Italia da una estremità all'altra, dopo sorse la necessità di conquistarla passo a passo, e se Carlo si precipitò dall'Alpi allo stretto di Messina per un solo impeto, Francesco fu arrestato a Pavia o sotto le mura di Napoli od anche nel vicino e stretto Piemonte. Nè bisogna credere che solo dalle ordinanze stabili dei Tedeschi e degli Svizzeri nascessero queste nuove difficoltà di guerre e queste accanite battaglie, perchè anche soldati Italiani militarono o per questa parte o per quella, e non di rado, caso deplorabile, per ambidue, e combattevano valorosamente in quei conflitti dove ne andava troppo spesso l'utilità dei forestieri, e qualche volta la libertà o la servitù della patria.

Ne nasceva anche per un altro conto una gran debolezza negli eserciti di quei tempi; imperciocchè poca era la riverenza ed affezione che questi soldati portavano al sovrano, tenendosi ciascun di loro piuttosto soldato del feudatario che del principe. È ben vero che quel che si chiamava onore operava fortemente nell' animo dei signori delle terre per fare che prontamente soccorressero al sovrano; ma in tutti Insistendo in questo soggetto degli ordini minon era quest'onore, e spesso ancora la super- litari, si scorge che, supponendo anche il cobia di voler gareggiare col principe, il dimi- raggio uguale nei soldati alle due età anteriore nuiva. Si vede in ciò la cagione, per cui a quei e posteriore, la grandissima strage che facevano tempi grandissimi apparati di guerra partori- anche di lontano le artiglierie, ha dovuto far vano non di rado effetti di pochissimo momento. pensare ai mezzi di preservarsene. Dal che riAdunque le subite invasioni, a cui diede oc- sultò che divennero meno frequenti le battacasione il trovato delle artiglierie, e quella mas-glie, e che le guerre si vinsero più per astuzia simamente tanto terribile di Carlo VIII, fece che per forza, richiedendosi nei capitani si susorgere nei principi il pensiero di procurarsi premi che subalterni maggior arte che coraggio.

BOTTA, Storia d'Italia

3

« IndietroContinua »