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si accenna, e che già le guerre di Cesare e di Agrippa avevano data (26). Egli è vero che in favore della tesi sostenuta dal Niebuhr si aggiunge anche il fatto, che Dionigi d'Alicarnasso, il quale pubblicò per la prima volta le sue Storie nell'anno 747 di Roma, non mostra di avere alcuna conoscenza o notizia di Livio. Ma non poche ragioni soccorrono a spiegare e a farci intendere il silenzio del Retore (27). E, d'altra parte, la notizia comunicataci da Livio, nel libro primo delle Storie (c. 19, 3), intorno al tempio di Giano, il quale sarebbe stato chiuso per l'ultima volta da Ottaviano dopo la battaglia d'Azzio, cioè nell'a. 725 di Roma, ci assicura che almeno la prima parte dell'opera dovesse esser pubblicata anteriormente al 729. In quell'elenco si trova difatti esclusa interamente la memoria di quest'anno, che fu pur famoso per la chiusura del tempio di Giano (28). Se a questa considerazione si aggiunge, che Ottaviano non è ricordato da Livio altrimenti che col nome di Augusto, la data di questa prima pubblicazione ne sarà anche meglio circoscritta. Perchè, non rimontando quel titolo più indietro del 727 (29), si vede di leggieri che Livio non può aver messo mano alla sua trattazione prima di quest'epoca, cioè in età di 30 o 32 anni.

A questo medesimo risultato conduce anche l'eco lamentevole delle guerre civili e dei loro funesti effetti, che risuona in tutta quanta la prima decade (30). E, per di più, vi si aggiunge il titolo stesso di templorum omnium conditor ac restitutor, con cui Augusto vien celebrato nel quarto libro delle Storie (c. 20, 7), titolo che egli aveva di già conseguito, come appare dal monumento Ancirano (31), fin dal 726 della fon

(26) Cfr. Ces. b. gall. 6, 24 segg.; Floro, 1, 44; Dione Cassio 51, 21; 53, 29. (27) Come, ad es., la grande probabilità che Dionigi avesse di già composta la prima parte dell'opera, quando Livio pose mano alla sua; poichè non fa d'uopo dimenticare che, se il primo pubblicò l'opera intera nel 747, il secondo non l'aveva ancora finita 17 anni d. Cr.

(28) Cfr. il Monumento Ancirano e Dione Cassio 54, 11, il quale afferma che questa seconda chiusura del tempio di Giano per opera di Augusto ebbe luogo dopo la vittoria sui Cantabri.

(29) Nella periocha del libro 134 vien ricordato, che Ottaviano nell'anno 727 di R. Augustus cognominatus est ».

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(30) Cfr. Praef. 4; 2, 44, 7; 3, 66, 1; 6, 12, 5; 7, 25, 9. 40, 2; 9, 19, 15. (31) Mon. Ancyr. IV, 17; Dione Cassio 53, 2.

dazione di Roma. Oltre a tali fatti si noti, che il libro nono dovè esser sicuramente composto prima del 734. Infatti, mentre in esso si accenna alla disfatta d'Antonio (c. 18, 9), Livio non fa punto menzione, contro i detrattori del nome romano, della splendida rivincita riportata da Augusto, appunto nel 734, sul re dei Parti Fraate (32). Ora, in vista di simili risultati, parrà assai degno di considerazione questo periodo di tempo, che si svolge tra il 725 e il 735 di Roma, come epoca splendida in cui attesero a glorificarne le origini e la storia il più grande dei suoi poeti e il più potente dei suoi storici, Virgilio e Tito Livio.

Quanto alla terza decade, poichè in essa (33) si accenna alla conquista definitiva della Spagna, si può ben credere che Livio intendosse di riferirsi non solamente alla guerra combattuta da Augusto tra il 727 e il 729 di Roma, ma anche alla vittoria trionfale riportata da Agrippa contro i Cantabri nell'anno 735 (34). Riguardo ai libri successivi, scritti forse tutti senza interruzione, mancano accenni sicuri per poterne precisare la data. Ma dalla notizia, che è inserita nelle perioche a partire dal libro 121 (35), si fa manifesto che le tre ultime decadi furon pubblicate, se non composte per intero, dopo la morte di Augusto; e che, nei tre anni che gli sopravvisse, Livio attese tuttora a dar l'ultima mano all'opera sua, non interrotta forse dalla stanchezza, ma dalla morte.

Due pensieri, espressi da Livio a varie riprese nella sua Storia, ci confermano l'entusiasmo sempre crescente, con cui egli vi si dedicò. In uno di questi, nella foga del lavoro, egli paragona l'opera sua a quella di un timido nuotatore, il quale trasportato dalla corrente in mezzo al mare—sente crescersene continuamente dinanzi la profondità e la distesa (36). E nel

(32) Cfr. la periocha del 1. 141.

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(33) Liv. 28, 12, 12: (Hispania) prima Romanis inita provinciarum, quae quidem continentis sint, postrema omnium nostra demum aetate ductu auspicioque Augusti Caesaris perdomita est ».

(34) Cfr. Dione Cassio, 53, 25; 54, 11; Tac. Ann. 4, 5.

(35) Accanto al libro 121, nel codice Nazariano delle perioche, si legge: qui editus post excessum Augusti dicitur ».

(36) Liv. 31, 1, 4: me quoque iuvat, velut ipse in partes laboris ac periculi fuerim, ad finem belli Punici pervenisse: nam etsi profiteri ausum, per

l'altro, già presso a giungere in porto, stanco ma non ancor soddisfatto, si sentirebbe quasi indotto a cullarsi sugli allori già mietuti, se il suo animo irrequieto trovasse altrove riposo che nel proprio lavoro (37).

Quest'ultimo cenno, l'alta rinomanza che Livio aveva già levata di sè perfino nella Spagna (38), i proemii premessi a diverse parti dell'opera (39), nonchè l'accusa di padovanità inflittagli da Asinio Pollione e il nome di Pompeiano attribuitogli da Augusto, sono tutte prove più che sicure del modo come la sua Storia venne data alla luce, e messa di mano in mano a disposizione e cognizione del pubblico.

Lo scopo, che Livio ebbe in animo di raggiungere, apparisce assai chiaro dalla splendida introduzione che precede all'opera intera. Mirando a distrarre il proprio spirito dalla contemplazione dei mali presenti, egli l'applicò con trasporto allo studio della storia antica, col vivo desiderio di inalzare alla memoria del più gran popolo della terra un monumento che fosse degno della sua fama. Nè, a dire il vero, gli faceva difetto alcuna di quelle virtù, che si giudicano più comunemente indispensabili per una vera e propria resurrezione o rappresen

scripturum res omnes Romanas, in partibus singulis tanti operis fatigari minime conveniat, tamen, cum in mentem venit tres et sexaginta annos aeque multa volumina occupasse mihi, quam occuparint CCCCLXXXVII anni ab urbe condita ad Ap. Claudium consulem; iam provideo animo, velut qui proximis litori vadis inducti mare pedibus ingrediuntur, quidquid ingredior, in vastiorem me altitudinem ac velut profundum invehi et crescere paene opus, quod prima quaeque perficiendo minui videbatur ». Ci sembrano per lo meno indiscreti, per non dire addirittura strani, gli apprezzamenti che fa il Weissenborn, intorno a questa confessione di Livio, nella introduzione latina premessa alle opere di quest'ultimo, p. LI. A commento del pensiero di Livio ci permettiamo di ricordare un sentimento quasi identico, che manifestò Virgilio pel suo capolavoro (Macrob. 1, 24, 11), e la risposta data dal Goethe all'Eckermann intorno all'incommensurabilità del soggetto del Faust.

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(37) Plin. N. H. praef. 16: profiteor mirari T. Livium, auctorem celeberrimum, in historiarum suarum, quas repetit ab origine urbis, quodam volumine sic orsum: satis iam sibi gloriae quaesitum et potuisse se desidere, ni animus inquies pasceretur opere ».

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(38) Plin. Ép. 2, 3, 8: numquam legisti Gaditanum quendam T. Livii nomine gloriaque commotum ad visendum eum ab ultimo terrarum orbe venisse statimque ut viderat abisse ? ».

(39) Cfr. Liv. 6, 1, 1; 21, 1, 1; 30, 1, 1; Plin. praef. 16.

tazione storica del passato. Se a riprodurre e mettere in viva luce quel conflitto di passioni, da cui la storia è dominata, occorre la fantasia del poeta e lo slancio dell'oratore, nessuno poteva considerarsi a tale impresa più adatto di Livio. Il quale, mentre aveva sortito da natura il dono della poesia, senza l'abito forse o pur la passione di mettere in versi i proprii pensieri, d'altra parte aveva fatta della retorica quasi un'occupazione assidua della sua vita. Se ad intendere i fatti nei loro vicendevoli nessi di causa ed effetto occorre l'intuito divinatore del filosofo, nessuno penserà che Livio fosse sprovvisto dell'attitudine per penetrare nella vita intima del passato. E, se a conseguire pienamente il proprio intento, è indispensabile un caldo entusiasmo per l'opera propria e piena sincerità di convinzioni e di propositi, solo pochi potranno vantarsi di aver posseduta l'una e l'altra qualità in grado così eminente (40).

La storia di Roma si può evidentemente considerare sotto un duplice aspetto. Come storia esterna, essa ha per obbiettivo la conquista del mondo; come storia interna, ne forma lo sfondo la lotta ferma e costante della plebe contro il patriziato, fino alla conquista dei diritti civili e alla fusione completa dei due ceti. Or in forza di quali virtù e di quali mezzi Roma venne a capo dell'uno e dell'altro obbiettivo? Quanto al primo punto, Livio non lascia mai occasione di ricordare, che il cammino costante e glorioso delle legioni Romane sulla via della vittoria si spiega soltanto colla forza e la pertinacia dei vincitori, di fronte alla debolezza e all'ignavia dei vinti. All'indomani dell'occupazione di Roma per parte dei Galli, Camillo incita alla riscossa le sue milizie con un discorso, dove son chiaramente indicate le cause, che debbono scortarli alla;

(40) Quint. 10, 1, 101: at non historia cesserit Graecis, nec opponere Thucydidi Sallustium verear. Neque indignetur sibi Herodotus aequari T. Livium, cum in narrando mirae fucunditatis clarissimique candoris, tum in contionibus supra quam enarrari potest eloquentem; ita quae dicuntur omnia cum rebus tum personis accommodata sunt; affectus quidem, praecipueque eos qui sunt dulciores, ut parcissime dicam, nemo historicorum commendavit magis. Ideoque immortalem illam Sallustii velocitatem diversis virtutibus consecutus est; Tac. Ann. 4, 34: T. Livius eloquentiae ac fidei praeclarus in primis ».

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vittoria. "Gens est, egli dice," cui natura corpora animosque magna magis quam firma dederit: eo in certamen omne plus terroris quam virium ferunt. Argumento sit clades Romana; patentem cepere urbem; ex arce Capitolioque his exigua resistitur manu. Iam obsidionis taedio victi abscedunt, vagique per agros palantur; cibo vinoque raptim hausto repleti, ubi nox adpetit, prope rivos aquarum sine munimento, sine stationibus ac custodiis, passim ferarum ritu " sternuntur, nunc ab secundis rebus magis solito incauti „ (41). E, quando più tardi Gneo Manlio si troverà in Oriente, ancor un'altra volta, di fronte a questo nemico così pericoloso per Roma, si scorge assai chiaramente dalle parole di lui, come l'esperienza contratta nel passato cooperasse all'esito felice delle lotte romane. Non me praeterit, milites,, egli dice alle sue milizie, " omnium quae Asiam colunt gentium Gallos " fama belli praestare. Inter mitissimum genus hominum ferox natio, pervagata bello prope orbem terrarum, sedem cepit: * procera corpora, promissae et rutilatae comae, vasta scuta, praelongi gladii; ad hoc cantus ineuntium proelium et ululatus et tripudia et quatientium scuta in patrium quendam * morem horrendus armorum crepitus: omnia de industria com" posita ad terrorem. Sed haec, quibus insolita atque insueta sunt, Graeci et Phryges et Cares timent. Romanis, Gallici " tumultus assuetis, etiam vanitates notae sunt. Semel primo 1 congressu ad Alliam eos olim fugerunt maiores nostri: ex eo tempore per ducentos iam annos pecorum in modum con" sternatos caedunt fugantque; et plures prope de Gallis triumphi, quam de toto orbe terrarum, acti sunt. Iam usu hoc * cognitum est, si primum impetum, quem fervido ingenio et caeca ira effundunt, sustinueris, fluunt sudore et lassitudine * membra, labant arma: mollia corpora, molles, ubi ira con"sedit, animos sol, pulvis, sitis, ut ferrum non admoveas, - prosternunt, (42).

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La filosofia della storia non è, nell'opera di Livio, come una

(41) Liv. 5, 44, 4.

(42) Liv. 38, 17.

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