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porre ch'egli e il Belcari si servissero entrambi di un dramma liturgico, o d'un dramma umbro anteriore.

IV

Divenuta lavoro facilissimo e meccanico la composizione d'un dramma sacro, sarebbe il genere cessato per naturale esaurimento, oppure, rivolgendosi a trattare soggetti più graditi al pubblico scettico e colto delle città, rompendo i deboli legami, che ancor lo tenevano congiunto col culto, avrebbe acquistato nuovo vigore? La seconda ipotesi pare la più probabile. Infatti, prima che si pensasse a far rivivere il teatro latino (rappresentando sia le commedie classiche, sia le imitazioni moderne di esse), o contemporaneamente, parecchi, sul modello della rappresentazione sacra, foggiarono componimenti drammatici, la materia dei quali trassero dalla mitologia, da' classici, da novelle, da avvenimenti contemporanei. Il 12 maggio 1488 gli scolari di Paolo Comparini recitarono in Firenze i Menecmi, i quali due anni prima erano stati recitati alla corte di Ferrara. Ma già, non più tardi del 1483, Angiolo Poliziano aveva compiuto la prima redazione della Favola d' Orfeo, servendosi dell'ottava rima, dell'annunziazione, della scena immobile e duplice (Terra e Inferno) << mettendo in dialogo ed esponendo cronologicamente in tutte le sue parti una narrazione ».

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1 « Nell'Orfeo primitivo, semplice e breve, rispetto all' Orfeo posteriore diviso in cinque atti, la scena rappresenta una pianura con fontana, presso la quale tre pastori pascolano i loro armenti: nel fondo è un monte, sul quale poi apparirà Orfeo, cantando sulla lira versi latini in onore del mecenate della festa, il cardinal di Mantova. Euridice traversa la scena, perseguitata da Aristeo, e vien morsicata da un serpe dietro il monte, ed un Pastore arreca ad Orfeo la trista

La differenza tra l'Orfeo e le altre rappresentazioni, a giudizio del Carducci, è in questo: « che il Poliziano alle storie de' due Testamenti e alle leggende ha sostituito la egloga; v' ha portato maggior poesia di forma e di stile, non però maggior verità o passione, e più varietà di metri per segnare il passaggio da una condizione di persone a un'altra da uno ad altro affetto; ha dato larga parte alle forme liriche, trattate del resto da gran maestro ». 1 L'ossatura, o, meglio, il congegno semplice della rappresentazione, si rinviene nella Fabula di Caephalo di Niccolò da Correggio (1486, 26 gennaio), nel Timone di Matteo Maria Boiardo, - che segue quasi a passo a passo, e spessissimo traduce un dialogo di Luciano, tranne nell'atto quinto, ch'è invenzione dell'autore dell' Orlando Innamorato

nella Virginia di Bernardo Accolti (1494), tratta della novella IX della Giornata III del Decameron, nella tragedia di Filostrato e Panfilo di Antonio Cammelli, riduzione in versi d'un'altra novella del Boccaccio (Giornata IV, Nov. IX). Prevalsa l'imitazione de' classici, a poco a poco la rappresentazione sacra esulò nelle campagne e ne' conventi. Però essa fioriva

novella. Allora Orfeo si muove, e cantando giunge all' Inferno, che doveva occupare una parte del palco. Ivi sta Plutone con Proserpina, probabilmente in sedia, come tutti i Re ed i Potenti delle Rappresentazioni. L'Inferno era raffigurato secondo le idee pagane, con Cerbero, le Furie, la Morte, e fors’anche Issione, Sisifo, le Belidi e Tantalo. Una Furia si opponeva ad Orfeo, quando egli cercava ritornare alla reggia di Plutone, dopo che Euridice gli era stata di nuovo rapita. Quando l'afflitto cantore deliberava di sprezzare gli animi femminili e fuggire il femminil consorzio, venivano in scena le Baccanti, che lo inseguivano, lo uccidevano, e ne portavano la testa in trionfo, terminando con una specie di Canto Carnascialesco ». V. D'ANCONA, op. cit. II, p. 142.

1 V. Le Stanze, l'Orfeo e le Rime di A. A. P., Firenze, G. Barbèra, 1863, p. LXIV.

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ancora, quando sorsero la Farsa e l'Egloga a contrastarle il favore del pubblico.

Alla farsa del secolo XV convien poco, a parer mio, la definizione del Cecchi:

La Farsa è una terza cosa nuova,
Fra la Tragedia e la Comedia: gode
Della larghezza di tutte due loro,
E fugge la strettezza lor; perchè
Raccetta in sè li gran signori e principi;
Il che non fa la Comedia; raccetta,
Com'essa fosse o albergo o spedale,
La gente come sia, vile e plebea:
Il che non suol mai far donna Tragedia;
Non è ristretta ai casi: chè li toglie
E lieti e mesti, profani e di chiesa,
Civili, rozzi, funesti e piacevoli;

Non tien conto di luogo: fa il proscenio
Ed in chiesa ed in piazza e in ogni luogo:
Non di tempo: onde s'ella non entrasse

In un dì, lo torrebbe in due o in tre.

Che importa? E insomma, ell'è la più piacevole
E più accomodata foresozza

E la più dolce, che si trovi al mondo,

E si potrebbe agguagliarla a quel monaco

Il qual volea promettere all' abate
Fuor che l'ubbidïenza ogni altra cosa.

Ecc. 1

ri

Convien poco, perchè, nel Quattrocento, la farsa, che fu letteraria (allegorico-morale) e popolare, mase un semplicissimo embrione, senza pretese di sorta, poverissima di situazioni, priva di vero intreccio. L'allegorico-morale, occasione e pretesto a pompe sceniche, piuttosto che componimento per sè stesso attraente, si contentò di tirar su la scena personaggi mitologici, filo

1 Prol. della Romanesca.

sofi e guerrieri dell'antichità, personificazioni di virtù e di vizi. Una delle prime l'immaginarono nel 1443 i fiorentini dimoranti a Napoli, in occasione dell'entrata trionfale di Alfonso d'Aragona. Collocarono in una torre guardata da un angiolo la Magnanimità, la Costanza, la Clemenza, la Liberalità cantantes suam quaeque compositis versibus cantionem: Giunta la torre presso Alfonso, prima l'angiolo, poi le altre figure recitarono de' discorsetti. D'allora in poi la farsa letteraria piacque alla Corte e ai signori di Napoli: usò il latino, dapprima, poi il volgare, e adottò per suo metro particolare l'endecasillabo con la rima al mezzo. Il Sannazaro ne compose una per festeggiare le nozze di Costanza d'Avalos, due per celebrare la presa di Granata (1492); anche sue, ma più brevi, sono la Farsa dell' ambasciaria del Soldano explicata per lo interprete, La Giovane e la Vecchia, Venere che cerca Amore, La Predica dei XII eremiti. Pietr' Antonio Caracciolo s'immaginò che un Mago, o Magico, costringesse, con sue arti, Aristippo, Diogene e Catone a venire, condotti da Caronte, innanzi a re Ferrante I, per discutere intorno alla miglior maniera di vita; Giosuè Capasso personificò il Bene e il Male, affinchè l'uno lodasse, l'altro biasimasse le donne, innanzi a re Federico: probabilmente egli stesso fece dire le lodi di Beatrice d'Aragona dalla Bellezza, dall' Onestà e da Apollo. Così fatte comparse di personificazioni, di dei pagani, di illustri morti dell'antichità, piacquero anche altrove. Tale fu la Ripresentazione di Bernardo Bellincioni, recitata a Pavia, alla presenza di Ludovico il Moro: v'interloquivano Mercurio, Giunone, le Sette Arti Liberali, Saturno e i Quattro Elementi. A Ferrara, nel 1502, Ercole d'Este, Lucrezia Borgia e la loro corte ascoltarono una disputa tra la Virtù e la Fortuna, decisa dalla Gloria: videro poi la Fortuna

vinta da Ercole, udirono Giunone placar il terribile semidio con la promessa « che nè l'una nè l'altra mai facesse contro la casa d'Ercole, nè contro la casa Borgia de Cesaro ». Sette anni prima, Serafino dell'Aquila aveva messo monologhi in bocca alla Voluttà, alla Virtù, alla Fama, per rallegrare la corte di Mantova. Luminarie, mascherate, danze, lazzi di buffoni accompagnavano quelle tirate gonfie e insipide. Va notato: Giovanni Gonzaga, scrivendo a Isabella d'Este della farsa di Serafino, nomina un Fritellino, buffone di corte, o attor comico di professione, dal quale potè passare il nome a una maschera della commedia dell'arte, resa celebre più tardi da Pier Maria Cecchini.

La farsa popolare mirò a divertire, riproducendo il linguaggio e le usanze ridicole del volgo: talvolta era un monologo, tal'altra una disputa di due sole persone. Pietr' Antonio Caracciolo recitava egli stesso, e sembra sostenesse in qualche sua farsa le parti di vari personaggi. Il metro delle farse del Caracciolo, cioè il rimalmezzo, rimase alle Cavaiole, delle quali durò la voga sino al Seicento, e che è permesso supporre cominciassero ad averne alla fine del Quattrocento. Il Caracciolo mise in scena de' cavaioli, e le Cavaiole tolsero il nome appunto degli abitanti di Cava, dei quali contraffacevano e beffavano la grossa piacevolezza. In alcune di quelle conosciute sinora, composte, o trascritte tra la fine del secolo XVI e il principio del XVII, parlano con sufficiente vivacità di dialogo molti personaggi. Si crede fossero farse le filastrocche, ricordate nella Suocera del Varchi, « che facevano già venti o venticinque anni sono Nanni cieco e Messer Battista dell'Ottonajo, che duravano un'ora ogni volta che si riscontravano per la via a dir spropositi senza conchiuder mai cosa nessuna, e le brigate stavano d'attorno a udirgli a bocca aperta, e molte volte v'en

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