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figliuolo, allorchè, trattando nella sua istoria delle guerre turchesche, sarebbe venuto a descrivervi la vittoria di Lepanto ». 1 A noi non son pervenuti se non i due primi libri dell'opera. 2

L'ultimo lavoro di Camillo fu il Sommario delle più notabili cose che si contengono nel regno di Napoli, scritto per il vicerè Innico Lopez de Mendoza marchese di Montejar, che tenne il governo dal 10 luglio 1575. L'autore aveva sperato dalla destrezza, dalla prudenza e dalla bontà del marchese, rimedio ai tanti e si gravi mali del regno; ma i fatti non corrisposero all' augurio. Il Mendoza lasciò Napoli il giorno 8 novembre 1579: il Porzio morì un anno dopo.

Il Sommario è una breve scrittura, nella quale son raccolte alla meglio notizie storiche, topografiche e statistiche. Tra le non poche, ma pur scusabili inesattezze, merita attenzione la cura con cui son descritte. a larghi tratti le provincie, enumerati i prodotti principali, indicate l'indole e la maniera di vivere degli abitanti. E forse tutta la relazione fu un pretesto, cercato dall'autore per trovar modo di rappresentare al nuovo vicerè le tristissime condizioni del regno, ciò ch'egli fece brevemente, con garbo, ma coraggiosamente, nella conclusione: - « « Saprà dunque V. Ecc. che gli uomini di questo regno, ancorchè sieno di tre sorte Plebei, Nobili e Baroni, nondimeno hanno tra loro le qualità comuni, come sono l'esser desiderosi di cose nuove, poco timorosi della giustizia, far molta stima dell'onore, amar più l'apparenza della sostanza,

1 BONAINI, Gli archivi delle provincie dell' Emilia, cit. dal BELTRANI a p. 248.

2 Il secondo libro fu pubblicato dal MONZANI nella seconda edizione Le Monnier delle opere del Porzio (1855).

coraggiosi, micidiali e che è del tutto il peggiore, sono concordemente del presente dominio poco contenti. Nasce in lor tutti questa poca contentezza non da odio che portino al loro Re, che lo amano e lo celebrano; ma per vedersi i plebei dalle soverchie gravezze e dagli alloggiamenti impoveriti e distrutti, in continua carestia, il che, quantunque sia peccato della natura, essi l'attribuiscono a' Governatori. Veggonsi in continua guerra, perchè se manca l'esterna, non manca l'interna di fuorusciti, di ladri e di corsari. I nobili si vivono in dispiacere per non avere alcun trattenimento del pubblico, e per vedersi quasi chiusa la strada alle dignità dell'armi e delle lettere. Gli officii e beneficii, che al tempo de' Re Aragonesi eran tutti loro, in maggior parte li veggono in mano de' forestieri. I Baroni ancor essi sono mal soddisfatti, perciocchè vengono sopra le lor forze gravati di donativi, e perchè si è dato da' magistrati regii tanto ardire a' loro sudditi che appena gli possono dominare. Oltre di ciò essendo i baroni di animi superbi, non possono tolerare che per ogni minimo peccato sieno chiamati alla corte, e non sia fatta nè nel procedere, nè nel punire, se non pochissima differenza tra essi e gli altri sudditi ».

Il Sommario è tirato già alla buona, probabilmente in fretta e furia. La Storia d'Italia non fu compiuta e quella parte, che ce ne resta, non ebbe l'ultima mano. La forma di essa è certamente inferiore a quella della Congiura. Riguardo alla sostanza, sol che la si paragoni, non dico co' documenti sincroni, ma, per la parte contenente il racconto della ribellione napoletana del 47, con le cronache del Rosso e del Castaldo e con la storia del Summonte, si vedrà qnanto essa sia povera di particolari. Qualcuno ha tentato scusare il Porzio osservando che « l'opera doveva correre presto per le mani dei contemporanei, e però non contenere

tutte quelle circostanze che pur essendo conformi al vero, avrebbero potuto recare offesa allo stato o politico, o morale, o sociale dei viventi ». 1 E sia; ma quando lo stesso scrittore giudica la Storia « più un lavoro di arte, che una produzione di materia prima », non posso non avvertire che l'arte del Porzio è qualcosa di molto diverso da quella, che siamo ormai avvezzi a trovare ne' grandi storici contemporanei. Commetterei un grave errore storico se pretendessi che uno scrittore del secolo XVI avesse lavorato co' criteri del secolo XIX; ma mi par utile procurare che non s'ingeneri confusione, almeno nelle menti de' giovani. Ora, i fatti del 1547 a Napoli, a Genova, a Piacenza furono altamente drammatici; ma il Porzio non mostra di essersene accorto nemmeno, tanto è freddo e languido il suo racconto. L'arte sua è tutta esteriore; è l'arte delle concioni più o meno conformi al vero, delle descrizioni generiche, delle sentenze, dei periodi cadenzati e delle frasi elette, non l'arte moderna dello storico, quella che ci fa sentir l'eco delle passioni e de' sentimenti di altri tempi e fa rivivere il passato innanzi agli occhi nostri. Meglio si rivive quella vita leggendo i cronisti rozzi, che non leggendo lo storico elegante, perchè egli, seguendo del resto la via battuta, trascurava quello appunto, che era, come materia di storia, più importante e, come materia di arte, più caratteristico.

La fama del Porzio è principalmente raccomandata alla Congiura. Non ripeterò le lodi che le furon date, dal Gaddi, il quale ne commendò la gravità, l'eleganza e via di seguito, - al Giordani, il quale dopo

1 BELTRANI, p. 82.

lungo oblio, annunziò ai giovani italiani che vi avrebbero trovato stile puro, dolce, leggiadro che innamora, avrebbero lacrimato di pietà, vi avrebbero colto ammaestramenti utilissimi a molte parti della vita civile, al Cantù e agli altri, i quali non hanno nemmen pensato alla possibilità di sottoporre ad esame il giudizio del buon Giordani. Certo, studioso de' classici come fu, e vissuto parecchio tempo in Toscana, il Porzio scrisse con purità e forbitezza rara ne' prosatori napoletani del suo secolo: ma le osservazioni che facevo testè a proposito della Storia d'Italia, convengon anche alla Congiura.

Il Monzani giudicò il Porzio discepolo del Machiavelli « le cui storie non par dubbio egli facesse oggetto di non interrotta meditazione ». 1 Discepolo si, ma a patto si usi questa parola nel senso di imitatore, perchè al napoletano mancò e la pratica degli uomini e degli affari politici, e la intelligenza acutissima, e l'alto ideale, e la forma tutte cose del fiorentino. Probabilmente il primo trasse dal secondo, come supponeva il Monzani, l'idea di far precedere considerazioni morali e politiche ad ognuna delle divisioni del suo libro. Io trovo nel discorso del principe di Salerno a Federigo d'Aragona queste sentenze: « Quella causa è giusta ch'è necessaria; quell' armi sono pietose e sante, mediante le quali ciascuno difende la roba, li figlioli e l'onore » che mi paion, salvo alcune modificazioni, copiate dall' ultimo capitolo del Principe. 2 E trovo che la fine della Congiura par modellata su

1 Pref. all'ediz. Le Monnier del 1846, p. XVIII.

2 « Quella guerra è giusta che gli è necessaria: e quelle armi son pietose, dove non si spera in altro che in elle ». MACHIAVELLI, Il Principe, cap. XXVI.

la fine delle Storie fiorentine. Il Machiavelli, dopo aver narrato la morte di Lorenzo de' Medici, si ferma. a ricordare: « come dalla sua morte ne dovesse nascere grandissime rovine, ne mostrò il cielo molti evidentissimi segni; intra i quali l'altissima sommità del tempio di santa Reparata fu da un fulmine con tanta furia percossa, che gran parte di quel pinnacolo rovinò con stupore e meraviglia ciascuno »>. Del pari, il Porzio finisce il suo racconto ricordando che la triste fine de' baroni fu accompagnata da portenti orrendissimi ecclissi, invasione di cavallette, tempeste, terremoti, «una saetta che percosse l'arco di San Niccolò» e uccise messer Filippo Palombello con la mula che cavalcava (vedete un po' quanto opportunamente si mostri tenero della precisione egli, che tante particolarità, assai più importanti, ha tralasciate!) << dai quali segni e prodigii, evidentemente si potette stimare che la calamità de' Baroni era a Dio non men che agli uomini dispiaciuta ».

L'autore della Congiura si giovò anche di Sallustio. Non trovo che l'osservazione sia stata fatta da altri, e me ne maraviglio. Nel paragonare Alfonso di Calabria con suo fratello Federigo, il Porzio forse pose mente meno alla verità storica, che al parallelo istituito dallo storico latino tra Cesare e Catone. 1 Le esorta

1 Scrive il PORZIO, nel libro II: « Era il duca di Calavria persona che con l'astuzia, con l'audacia e con la forza, alla gloria ed agl'imperii oltre modo intendeva. Fu don Federigo uomo che, con l'equità, modestia ed umanità, procurava la grazia e 'l favore degli uomini L'uno per la potenza volle esser temuto, l'altro per la virtù amato. Commendavasi nel duca l'ardire e la prontezza; in don Federigo l'ingegno e l'eloquenza era stimata. A quello rifuggivano tutti gli audaci: a questo tutti gli umili ricorrevano ecc. » E SALLUSTIO: His genus, aetas, eloquentia prope aequalia fuere: magnitudo animi par, item gloria: sed alia alii. Caesar beneficiis atque

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