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apparecchiandosi egli a mettersi ne' panni di Francesco Baroncelli, non gli doveva sfuggire qual partito c'era da trarre dalla singolare corrispondenza de' voti espressi nella canzone co' fatti compiuti da Cola; né doveva perciò trascurare di porre in rilievo come, non già un barone romano, non già un senatore, ma Cola di Rienzo, uno del popolo, il vincitore de' baroni, colui che aveva soppressa la magistratura de' due senatori annuali, aveva fatto ciò che baroni e senatori non avevan voluto, o saputo. Se l'anonimo scrittore della diceria trascurò proprio quello, che gli sarebbe giovato notare, se in essa intercalò frasi della canzone senza citarne l'autore, vuol dire che egli e i contemporanei tenevan per certo lo Spirto gentile fosse Cola: testimonianza, questa, assai valida.

Qui è opportuno richiamar l'attenzione sul fatto non mai, o non abbastanza messo in rilievo, che quanto il poeta chiedeva facesse lo Spirto gentile per la salute e il rinnovamento di Roma, tutto, per filo e per segno, Cola di Rienzo lo fece; sicché la canzone potrebbe, con una frase moderna, esser chiamata il programma di governo del tribuno. È coincidenza casuale? Niun altro de' personaggi, ai quali essa si è creduta rivolta, merita la lode di aver seguito almeno in parte, di aver almeno tentato di tradurre in realtà i consigli e i voti del poeta. E c'è singolare corrispondenza fra essa e il racconto, la difesa, l'apologia, che, in varie occasioni, fece Cola del suo governo e delle sue gesta. Sin dall'ottobre del 1347 scriveva al papa: « Populus Urbis.... emittente Deo lucem suam, ad lumen libertatis, pacis et justitie mirabiliter est reductus, et Domina gentium, Sanctissima urbium, que tot Sanctorum Corporum venerabile meruit sepulchruum existere, de tributo erepta, et quorum spelunca erat, expurgata latronibus dinoscitur reformata.... Late namque patent vie et

itinera, silve, colles et loca quelibet secure undique peregrinis.... Credo indubie, quod depressisse tyrannos cum Ecclesie Sancte vexillo, relevasse pauperes, pupillos et viduas adjuvisse, Ecclesias, Monasteria et alia pia loca tueri, equa lance omnibus exhibere justitiam, conservare bonos et plectere digne malos, uxores ad viros, discordes ad pacem, ad cultum Divinum reduxisse dissolutos etc. non opera Sancte Matris Ecclesie esse inimica ». E il 15 agosto 1350 scrisse all'arcivescovo di Praga: << Nonne ego, Deo auctore scandalicis omnibus erroribus propulsis omnes Romanos invicem emulantes.... inter se ad pacem sinceram.... revocavi?.... Quis unquam in corruptissimarum stratarum custodia vigilantior et in latronum ac infamium omnium purgatione severior? Quis in miserabilium protectione ferventior, in tyrannorum humiliatione prestantior, in populorum unione et exaltatione commodior? » 2 Non dirò, come ne verrebbe voglia, che nelle parole del tribuno si senta quasi l'eco de' versi del Petrarca; torno solo a domandare: è corrispondenza casuale?

Da ultimo ricorderò un particolare conservatoci dal biografo del tribuno: « Canzoni volgari e versi per lettere de' suoi fatti fatte foro ». 3 Nessun' altra poesia composta per quell'occasione si conosce. E il biografo registra il fatto immediatamente dopo aver toccato delle lettere mandate da Cola, il 7 giugno, << a dichiarare lo stato buono e pacifico e giusto, lo quale cominciato aveva », e del ritorno d'un corriere da Avignone. L'aver collocato proprio lì questo particolare fu anche un puro caso?

1 PAPENCORDT, Doc., XI, pp. 373-74.

2 Ivi, Doc., XVII, pp. 414, 416. Cfr. la lettera di Cola a' Fiorentini, a p. 27 di questo volume.

3 Vita, cap. X, ediz. Le Monnier, p. 14.

VI

Il confronto della canzone con le epistole dirette dal Petrarca a Cola di Rienzo ci ha indotti a credere che non vi sia contraddizione tra la prima e le altre. Abbiamo anche avuto agio di segnare alcune somiglianze. Ma, più che rassomigliarsi in certo modo, sono identici i concetti, le immagini, l'intonazione e sin le parole di parecchi altri passi della canzone e delle epistole. Furono già indicati in gran parte dal Re e dal Papencordt; ma sarà utile ritornarvi sopra. Nella canzone leggiamo:

non senza destino alle tue braccia,

È or commesso il nostro capo Roma.

Nell' hortatoria: « Vos vero, cives, hunc virum caelitus vobis missum credite ». E nella terza sine titulo: « Tu, quem tantae rei ducem fata constituunt, perge quae coepisti ». 1

La stanza sesta allude alle famiglie de' signori romani così:

Orsi, lupi, leoni, aquile e serpi
Ad una gran marmorea colonna
Fanno noia sovente et a sè danno.

Di costor piagne quella gentil madre

Che t'ha chiamato a ciò che di lei sterpi

Le male piante che fiorir non sanno.

1 Secondo il D'OVIDIO «È or commesso il nostro capo Roma, dà più idea di un'autorità regolarmente conferita, che di una violentemente assunta ». Pure, il PETRARCA, nella Pietas pastoralis, disse di Cola:

genitrix sibi rura gregemque

Credidit

Tu marito, tu padre,

Ogni soccorso di tua man s'attende.

Nell'egloga Pietas pastoralis, diretta a Cola, il poeta nascose << sub ferarum vocabulo quorumdam ex tyrannis vel nomina, vel naturas vel armorum signa »: 1

teneris ab ovilibus arcent

Fortia claustra lupos, tristis non murmurat ursus,
Sanguineus non saevit aper, non sibilat anguis;
Non rabidi praedas agitant de more leones,
Non aquilae curvis circumdant unguibus agnos.

Alle immagini delle fiere fa antitesi quella del pastore:
Excelso perdulce canens sedet agere custos,

del quale, poco prima, il poeta aveva detto:

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jam fundamenta domorum

Sede locat patria; genitrix sibi rura gregemque

Credidit, et nati gremio secura quiescit.

La nova gente son gli adventitios et alienigenas dominos dell' hortatoria.

Passiamo alla stanza seguente:

Rade volte adiven ch'a l'alte imprese
Fortuna ingiurïosa non contrasti,
Ch'a gli animosi fatti mal s'accorda:
Ora, sgombrando 'l passo onde tu intrasti,
Fammisi perdonar molt' altre offese;
Ch'al men qui da se stessa si discorda:
Però che, quanto 'l mondo si ricorda,
Ad uom mortal non fu aperta la via

Per farsi, come a te, di fama eterno.

Precisamente le stesse cose, talora con le stesse parole, il Petrarca disse nell' hortatoria: « Tu quidem

1 Lett. var., XLII. Cfr. FRACASSETTI, vol. V, p. 371.

tibi vir egregie ad immortalitatem nominis aperuisti aditum; perseverandum est, si cupis ad terminum pervenire.... Hoc autem calle gradienti multa periculosa, multa perplexa, multa aspera se ostendunt; sic virtus arduis, patientia difficilibus delectatur. Adde quod multa difficilia primum aggredientibus visa sunt, quae longius progressis apparuere facillima ». 1 Cade in acconcio ravvicinare i tre ultimi versi (7°, 8° e 9°) con quegli altri della prima stanza:

Io parlo a te, però che altrove un raggio
Non veggio di vertù ch'al mondo è spenta;

perchè insieme ci danno intero un concetto della lettera, che il poeta mandò a Cola, da Genova, il 29 novembre 1347: « Et quid, oro te, virtute altius ac gloria, quarum in vertice conscenderas nostris temporibus inaccesso? Tamque impigre et tam insueto calle ad summa perveneras, ut haud sciem usquam formidolosior cui sit ruina ». 2

La fine della stanza:

Quanta gloria ti fia

Dir: gli altri l'aitar giovene e forte;

Questi in vecchiezza la campò da morte,

compendia un altro passo dell' hortatoria: « Brutus ab uno, tu a multis tyrannis usurpatam libertatem vindicas. Camillus ex novis et adhuc fumantibus, tu

1 Se lo Spirto gentile, a parere del D'OVIDIO, arrivò tranquillamente all'uffizio onorevole, se fu un magistrato di carriera, perchè il Petrarca avrebbe usato le espressioni: Sgombrando il passo onde tu intrasti, -- quant' il mondo si ricorda, Ad uom mortal non fu aperta la via Per farsi, come a te, di fama eterno, che accennano a cosa insolita e difficile, a tutt'altro che tranquilla carriera?

2 Lett. Fam., lib. VII, 7. Cfr. FRACASSETTI, vol. II, p. 188.

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