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cardinal di Santa Fiora camerlingo, avendo servito lungamente con tre sue galee il re Arrigo, divisava di passare alle parti di Cesare per conformarsi agli altri fratelli, specialmente dopo la presa di Siena, al cui territorio confinavano i più riguardevoli feudi della sua casa ed erasi perciò ritirato di Francia. Ma non trovava agevole il ricoverar le sue galee per la suspicione già di lui conceputa. S'argomento ed ottenne il priore di persuadere a Nicolò Alamanni, il quale ne governava due a nome del re, che le conducesse a Civitavecchia, donde poi meglio corredate ritornerebbono in Francia. Come dunque le galee furon venute in quel porto, così intenti in segreto a ricuperarle, andarono colà con molti uomini armati Mario Sforza ed Alessandro cherico della camera, fratelli del priore; il quale, per tener lungi ogni gelosia, non vi comparve. Ed introdotti amichevolmente dall'Alamanni, gliele tolsero a forza, e tentarono di trasportarle altrove. Ma rimasero impediti dal castellano, che stimò debito suo il non permettere nel suo porto una tal violenza. Di che avvisato il camerlingo, impetrò sollecita

mente con l'opera del segretario Lottino, che Giovanni conte di Montorio, fratello maggiore del cardinal Caraffa, ed a cui era sottoposto quel castellano, scrivesse a lui con imporli di rilassare i due legni; o ignorando, o dissimulando il conte la forza fattasi al comandante di Francia. Ed era Giovanni d'animo, sì come più mite, così più spagnuolo che 'l cardinale: a cui pel vantaggio dell'età soprastava allora altresì nell'autorità. Adempiutasi dal castellano la commessione, i legni subitamente furon menati a Napoli in potere di Bernardino Mendozza, che vi governava in luogo del duca d'Alba, assente per comandare all'esercito cesareo in Piemonte. Richiamaronsi tosto acerbissimamente i ministri francesi col papa dell'ingiuria patita da loro nel suo porto. Ed egli uditala se ne commosse fuor d'ogni termine, come colui che geloso dell'autorità per natura, aveva oltre a ciò piene le orecchie delle continue lamentazioni, le quali per venti anni s'erano fatte nella corte tra per verità e per invidia contro alla baldanza de' fratelli Sforzeschi: dicendosi, ch'essi molti di numero e affidati dall'esser sangue di Paolo III, e

dipoi dal bisogno ch'era stato in Giulio dell'opera loro ne' contrasti co' Farnesi, e dalla piacevolezza di quel condescendente pontificato, non avevano mai saputo di soggiacere ad altra legge che del proprio talento. Onde Paolo IV avea prese le redine del governo con proponimento di frenare e la licenza detestata de'baroni in universale, e di questi in particolare; contra i quali rendevalo insensibilmente più avverso la notizia delle opposizioni a se fatte dal camerlingo. Il conte di Montorio, vedutane l'alterazione del zio, non s'attentò di manifestargli l'intero e fra tanto s'ingegnò di mutarne in suo discarico l'apparenza, come tosto riferirassi. Onde Paolo mandò tosto ordinazioni sotto gravissime pene ad Alessandro ed a Mario Sforza che facessero immantenente ritornar le galee. E'l medesimo fe dinunziare in voce con forti maniere al camerlingo, quasi a complice, e a moderator de' fratelli; non ammettendogli le scuse o che'l fatto fosse loro e non suo, o che i vasselli stessero già in potere non degli Sforzeschi, ma del Mendozza. Il cardinale, confidatosi di smorzar l'ira del papa col freddo

dello spavento, raunò la stessa notte nella sua casa una congregazione di personaggi aderenti a Cesare, nella quale intervennero il marchese di Saria suo ambasciadore ordinario, il conte di Cincione orator d'ubbidienza in nome del re Filippo, i Colonnesi, i Cesarini, ed altri signori assai; essendo piene le camere, le scale, e'l cortile di minori partigiani, e servidori. E qui scrivono che taluno sparlò di Paolo con indegno disprezzo; e fu chi minacciollo (1) delle calamità d'altri papi infesti a' baroni. Nè mancovvi chi ardisse di porre in dubbio con frivoli argomenti il valore della sua elezione. Di tutto ciò non solo giunse al pontefice un confuso romore per fama e per le insolenti parole, che molto più de' padroni avea diffuse ne' colloquii di quella notte la temeraria turba de' cortigiani; ma narrano, che 'l cardinal di Burgos, riputandosi obligato dal debito del suo grado, ne l'informasse distintamente, e che perciò fosse poi richiamato in Ispa

(1) In una lettera del cardinal Farnese de' 24 d'agosto 1555, al cavalier Tiburzio, si raccontano queste minacce come profferite da Marcantonio Colonna.

gna, caduto quivi di grazia. Ricuperò fra questo mezzo il conte di Montorio la lettera da lui scritta al castellano, sustituendone un'altra di tenore assai più generale e giustificato, e imputando al Lottino d'aver ingannato e se, e'l castellano insieme fraude che, se per quel tempo cagionò al Lottino un lungo e penoso carcere, scopertasi in altra stagione, concorse all'estremo supplicio del suo autore. Ma prestandogli fede il zio, fe subito imprigionare il Lottino, e minacciò d'alti e prossimi risentimenti il padrone. Onde il marchese di Saria, a fine di mitigare il pontefice, chiese udienza : e non impetratala, andò personalmente a palazzo, affermando che avea negozii gravissimi del suo signore; ma nulla gli valse, e fu escluso. Egli benchè nel cociore dell' onta ne desse contezza per ispecial corriere a Cesare, quasi a vilipeso nel suo rappresentatore, nondimeno ad animo riposato confortò il Mendozza, che per non involgere il loro principe in travagliosi contrasti, rimandasse le galee. Ma gli Sforzeschi, prevedendone la perdita irreparabile, vi ripugnarono, chiedendo almeno per condizione la

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