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parenza, ma deturpata dalla fama, sempre invidiosa a'potenti e parziale a'miseri, con ogni più enorme sceleraggine di fini: quasi il re Ferdinando avesse aspirato con quell'orribile ingratitudine ad occupar gran tesoro, il quale, secondo la volgar opinione (ritrovata poi falsa) era in mano del cardinale, e a disobligarsi da una pensione annuale d'ottantamila scudi promessagli in premio de' servigi passati. Ma queste cose erano troppo difformi sì alla cristiana pietà e alla natural giustizia e mansuetudine di Ferdinando, il cui difetto era più tosto di reprimere con freddo zelo i malvagi, che d'incrudelire con volontaria malvagità negl'innocenti, sì eziandio al suo pro terreno, al quale sarebbe stato di gran vantaggio, per mantenersi lo scettro nuovo e vacillante, la vita di chi gliel'aveva posto in mano, se in esso con l'autorità fosse anche perseverata la fedeltà. E così appunto si fatte voci con la lenta ma sicura luce del tempo si discopriron bugiarde. Fra tanto per liberarsi dall'infamia popolare, divolgò il re un lungo manifesto (1) scritto a Francesco Vil

(1) Sta registrato nel Bzovio all'anno 1552.

laquio vescovo di Raab, suo vicerè in Ungheria, dove rendeva minuto conto del fatto. E lo stesso più legittimamente cercò di giustificare appresso al pontefice, che aveva citato lui, e delegati commessarii per questa cognizione. Onde fra pochi giorni uditesi in Roma le difese del re, fu distinta (1) nel concistoro la sua causa da quella degli ucciditori del cardinale: e fu egli giudicato fuori di colpa, non provandosi la commessione. Indi gli stessi ucciditori venuti a Roma, ottennero l'assoluzione onorevolmente, nella quale il fatto si dichiarava per salutifero alla cristianità. Ma come suol avvenir che delle congiure non sia mai creduta la trama quando è troncata innanzi al fin della tela, così nell'opinione del mondo rimase poi sempre incerta l'innocenza, o la tradigione del cardinale.

In ciò che s'aspetta al medesimo Ferdinando, occorse anche in Trento fra questo tempo un altro benchè assai (2) più

(1) A'12 di febraio, come negli Atti Concistoriali.

(2) Tutto sta negli Atti autentici di Castel sant'Angelo sotto Giulio.

chessa nel governo della giurisdizione, e de' beni, ed esercitandovi meramente con l'opera di Ridolfo Baglione il dominio dell' armi che non si tenesse quivi maggior milizia, che la bastevole alla guardia e che 'l re, e 'l duca promettessero, che per niuna di queste parti sarebbe molestato o'l papa, o anche l'imperadore quando volesse entrar nell'accordo: che'l re fosse buon figliuolo del pontefice, e lasciasse venir dal suo regno a pigliar le Bolle de' beneficii nella dateria di Roma. Questo era il modello della trattata concordia.

Ma Cesare, quantunque distratto dai movimenti onde il minacciavano l'armi de' protestanti, e però impotente di forze per imprese straniere, ritirava con ogni studio il pontefice da tal composizione, e nello stesso volere concorreva Giambattista del Monte nipote e capitan generale del papa : il quale fervido ed animoso per gioventù, e oltre modo vago ed intendente dell'arte militare, e sprezzatore in essa delle fatiche e de' pericoli, s' esponeva con egregio valore alle più ardue e formidabili avventure, ed era cupidissimo d'il

lustrarsi in quell'impresa. Onde non gli permettendo l'età di scernere il vistoso dal virtuoso, era trascorso ad una magnifica, ma inconsiderata denunziazione, che, ove il zio avesse mancato alle sue parti, non però egli l'avrebbe seguito in ciò, ma continuata l'opera della spada come soldato di Cesare il che poneva il pontefice in gran travaglio. Ma ne fu tosto liberato da un travaglio maggiore. Avea Giambattista nelle mischie sotto alla Mirandola mostrata egualmente l'abbondanza del valore, e la mancanza della cautela: onde era incorso in gravi e propinqui rischi, non distinguendo quanto vaglia al suo signore la vita d'un privato fante, e quella d'un general condottiero, e perciò la disugual cura, che, secondo la diritta fortezza, la quale, come l'altre virtù, prende regola dalla prudenza, deono essi tenerne. Tanto che'l papa con ogni sollecitudine l'avea fatto di ciò ammonire, (1) prenunciandoli che la morte di lui sarebbe stata il fin della guerra a pro de'nemi

(1) Lettera del cardinal Dandino in nome del papa a Gio. Battista del Monte da Roma a' 12 di gennaio 1552.

T. VII.

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ci: e che non volea per veruna condizione trarre dall'assedio della Mirandola 'un frutto così funesto. Ma l'ardente giovane, idolatra della gloria, e di quella gloria ch'è un simulacro composto dall'aura del popolo, e non una luce risultante dall'approvazione de'savii, dispregiò, quasi vil tenerezza di zio, quell'avvertimento che era giudiciosa considerazione di principe. Onde in certa zuffa maneggiando l'armi con singular coraggio, e più cupido del sangue altrui, che stimatore del proprio, non conosciuto da' nemici, dando e ricevendo molte ferite, rimase morto. E di poi quel cadavero costò molte vite sì agli uccisori ambiziosi di guadagnarlo, come a' suoi, che, infiammati di vergogna e di sdegno, vollero costantemente difenderlo e vendicarlo. Quest' accidente fe, che 'l papa conchiudesse una sospensione d'armi, imponendo tosto alle sue genti il cessar da ogni opera ostile sotto Parma e sotto la Mirandola, con dar tuttavia per un certo spazio di giorni facultà agl'imperiali di sottentrare ne'medesimi forti. Ma o perchè i soldati di Cesare mandati a quella fazione fosser nuovi e poco esperti, come

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