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leggiero disturbo ; e fu tale. Essendo giunti colà il giorno quinto di marzo tre ambasciadori del re di Portogallo, il primo de'quali era suo consigliero, e chiamavasi Giacomo de Silva, il secondo era teologo, detto Giacomo Govea, il terzo legista, nominato Giovanni Paez, suscitossi contesa di luogo fra loro, e fra quei del re de' Romani. Onde il giorno de' diciannove di marzo fecesi lunga discussione di ciò, sì fra i padri e gli uni e gli altri oratori, ciascun de' quali conchiudeva con molte ragioni per la sua parte, come poi separatamente fra'soli padri. In ultimo fu statuito, che per quella volta il principale orator portoghese avesse la sedia in mezzo a' vescovi e dirimpetto a' presidenti, e quindi sponesse la sua ambasciata d'ubbidienza, mentre gli oratori di Ferdinando dimoravano nella camera del Legato. Ciò si pose in esecuzione: ed appresso, fattisi partire gli ambasciadori, fu letta dal segretario la risposta preparata da rendersi loro, la qual ebbe l'approvamento da ciascuno de' padri con la parola piace. Ed indi richiamatigli, fu loro recitata dal medesimo segretario. Di poi ri

manendo accesa la lite per l'altre volte quando insieme vi dovessero intervenire o nelle congregazioni o nelle sessioni, ed essendosi affaticati indarno i presidenti ei minori padri per la concordia, ne fu rimessa la decisione al pontefice. Il vescovo di Zagabria, uno degli oratori di Ferdinando, scrisse intorno a ciò ad un ministro del papa in Roma, raccomandandogli le ragioni del suo signore, e richiedendolo, che gli somministrasse qualch' esempio favorevole e che procurasse la sentenza del pontefice a sua vittoria, o considerato Ferdinando come re de' Romani, o come re d'Ungheria, il qual parea titolo più efficace, essendo di regno non solo sperato, ma posseduto: e a titolo di questo reame appunto esercitava quel vescovo l'ambasceria. Ma da Roma gli fu risposto (1), che, fattesi le diligenze, trovavasi la controversia antica, nè mai decisa intorno a ciò nella cappella pontificia e che nel concilio di Gostanza erasi ordinato generalmente, che quivi fra gli ambasciadori s'osservasse il rito della

(1) A'3d'aprile 1552.

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cappella onde il papa niente volea determinare senza aver udite le parti. Il più agevole compenso parere, che essendo gli ambasciadori di Ferdinando vescovi, sedessero nell'ordine episcopale, ma sopra gli altri, e'l maggiore de' Portoghesi, come laico, avesse luogo fra gli oratori laici. Quando ciò non soddisfacesse, cercassero altro spediente co'padri Tridentini. Restò il litigio nè sentenziato, nè composto, fin a'ventiquattro d'aprile: nel qual di convenne tener la generale adunanza, e non in casa del Legato secondo il solito, per giacer egli allora mortalmente infermo, ma in chiesa: onde richiedendosi per decoro e per costume la presenza di tutti gli ambasciadori, fu preso accordo, osservatosi tanto in quella giornata quanto nella prossima, ed indi nell'altra propinqua de' ventisette, nelle quali si raunarono tali assemblee, e similmente nell'immediata poi de' vent' otto, in cui si celebrò la sessione sesta ed ultima sotto Giulio, che si desse luogo a'Portoghesi rimpetto agli oratori di Cesare, cioè alla destra innanzi a'seggi de' presidenti, dove già solevano star gli elettori imperiali ecclesia

stici, partitisi allora dal concilio, e che gli ambasciadori di Ferdinando sedessero dalla banda sinistra presso al cesareo: premessa da' presidenti publica e solenne dichiarazione, che ciò si facea per questo sol caso, consentendovi le parti per amor della quiete, e senza che dovesse recare alcun pregiudicio alle ragioni o di quelle, o di chi altro si fosse. E per impedire un tal pregiudicio dalla prelazione, non si prestò nella messa cantata il giorno della sessione la consueta onoranza della pace, o . dell'incenso a veruno degli oratori. E del successo intero, e da capo vollero i Portoghesi un'autentica testimonianza da'presidenti segnata il di quinto di maggio. Ma tali cose avvenner dipoi, benchè narrate in questo luogo per esporre ad un medesimo sguardo tutto l'avvenimento: dovendo spesso l'istoria rassomigliare certa maniera di specchi, in cui varii oggetti fra loro divisi rappresentano un volto unico.

Ora, ritraendo indietro il racconto, ammalò tra pochi giorni (1) il Legato: e

(1) A' 25 di marzo, come nel Diario del maestro delle cerimonie.

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com'è solito, che le malattie de' grandi sieno imputate sempre ad interne afflizioni, quasi in loro, al contrario degli altri uomini, non fosse passibile l'animo mediante il corpo, ma il corpo sol mediante l'animo, così fu creduto, ch'egli infermasse di travaglio, perchè 'l concilio sotto la sua condotta facesse passi meno felici delle concepute speranze, e mostrasse indizii di presto disfacimento. Al cardinale, per un effetto assai consueto di chi sta con gli umori del corpo disposti alla morte, la sera innanzi al corcarsi infermo parve di veder nella stanza un can grande e nero con occhi torvi, onde, chiamati due camerieri, impose loro che'l discacciassero dicendo che s'era posto sotto la prossima tavola. Ma dopo molto cercamento non fu da essi tal cane ritrovato in altro luogo che nella fantasia del padrone, nella quale affermano che rimase a perturbarla fin ch'ei fu vivo. Nella malattia di lui esercitava le prime parti il Pighino. Or avvenne in questo tempo, che le mine dei protestanti scoppiarono contra l'imperadore. L'elettor Maurizio, recandosi e ad offesa che non avesse mai conseguita la

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