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le scuse approvate. E cadde opportunamente l'introdurre questo trattato, avanti che giugnesse una lettera del conte di Luna (1), la quale smorzava tutto il calore de' preceduti ufficii reali coi prelati spagnuoli per distorli da quell'impresa. Imperò che il conte, nel significare ad Ercole Pagnani la sua destinazione a quell' ambasceria, gli aggiugneva: avere il re ricevuta informazione dal Vargas, che i Francesi erano forte invogliati di sì fatta dichiarazione; onde si stava in avventura, che se questa s'impedisse, quelli si partissero. E non intendendo il re ad altro che al servigio di Dio, non avrebbe voluto che i suoi ufficii nocessero all'union della Chiesa, ed alla continuazione, o almeno alla riputazion del concilio. Però esser mente sua, che in ciò si tenesse un cauto, e soave modo co' vescovi uniti di speciale affezione a sua maestà; e senza industrie nè troppo scoperte nè troppo ardenti. Ed in simil concetto parlava l'instruzione data dal re a Luigi d'Avila (2) commendator maggiore d'Alcantara, depu(1) A' 14 di dicembre 1562.

(2) Col segno de' 30 di novembre 1562.

tato (1) ambasciadore a Roma, da poi che il papa gran tempo s'era (2) lagnato, che i negozii caminassero per sinistre vie, perchè, massimamente intorno agli affari del concilio, non aveva oratore del re cattolico a se confidente. Dicevasi nella prenominata instruzione, che l'ambasciadore confortasse il pontefice a procedere in quella materia della residenza con maturità: si che dall' un lato non si togliesse al concilio la libera balia di far la dichiarazione; dall'altro non s'offendesse l'autorità, e la preminenza della sede apostolica. Adunque dal braccio del re non poteva sperarsi una virtù impressa tanto robusta che ritenesse il corso di quelle si fervide

ruote.

Ora incominciandosi nel decimo giorno di dicembre a dir le opinioni sopra il decreto antidetto (3), e parlando in suo luogo prima di tutti il cardinal di Lore

(1) La destinazione dell'Avila appare da una Jettera del re al papa de' 15 d'ottobre, comunicata a' Legati con una del cardinal Borromeo a' 21 di novembre 1562.

(2) Appare dalla risposta del papa a’28 di marzo 1563.

(3) Lettere de'Legati al cardinal Borromeo, e

no, con un bel misto di senno, di gravità, di dottrina, e d'eloquenza fe pronosticare ai Legati, ch'egli era per avere molto d'autorità nel concilio non meno in virtù del suo dire, che del suo essere.

I concetti suoi furon questi: che raccoglievasi dalla Scrittura, tre mali principalmente esser venuti per l'assenza di coloro ai quali da Dio era commessa qualche cura: il primo la tempesta nel mare, allora che Giona fuggiva di predicare alle genti a cui era mandato: il secondo l'idolatria, quando, assente Moisè, fabricossi il vitello: il terzo la dispersion delle pecorelle di Cristo, dicendosi nel capo decimo di san Giovanni: il lupo disperge le pecore. Tre mali corrispondenti vedersi avvenuti nella Chiesa per l'assenza dei prelati. La tempesta delle calamità, il corrompimento della fede nell'eresia, e l'errore del gregge nei dissoluti costumi. In quella causa essere a un'ora i padri e giudici e rei: onde tanto più erasi per imputare a loro se il rimedio non si usasse efficace. Professandosi pastore lo stesso Cristo, non

dell'arcivescovo di Zara al cardinal Cornaro ambedue in quel giorno, e Atti di Castello.

doversi vergognare i prelati o di questo nome, o di quest' ufficio. Nel mentovato capo decimo di s. Giovanni tre cose noverarsi che appartenevano all'ufficio di buon pastore. Ciò sono, diss'egli: che le pecorelle odano la nostra voce: che ponghiamo la vita per esse: che le pasciamo bene, e troviamo lor buoni pascoli. Non essere dunque fuori di convenienza che 'l concilio nella prima entrata di questa materia insegnasse quali fosser le condizioni di buon pastore, affinchè i pastori dell'anime potesser vantar quella cura che vantò Giacobbe col suocero (1), quando in capo a vent'anni lasciò di pascolare il suo gregge. Che sopra quell' articolo della residenza sarebbe convenuto udir prima i teologi e i canonisti; e che lo stesso sarebbesi dovuto fare in tutti i capi più gravi della riformazione. Che per suo credere la residenza era di comandamento divino: in prova di che addusse molti luoghi della Scrittura portati con forza d'ingegnose ponderazioni. Aggiunse nondimeno, ch'essendo mandato affermativo, obligava sempre, ma

(1) Nel Genesis cap. 21.

non a sempre. Nel discorrere sopra l'escusazioni legittime, non fu contento di quelle sole ch'esprimeva il decreto: anzi ne accontò altre assai, e specialmente il maggior servigio o della Chiesa particolare o della universale, o della republica. Quest'ultima cagione esser convenevole, come partenente alla carità: d'altro modo non sarebbono potuti gli elettori ecclesiastici dell'imperio andare alle diete, nè i pari di Francia alla corte per gli affari del regno, com'eran tenuti, nè i vescovi esser chiamati ai consigli del re: il che sarebbe riuscito a danno gravissimo della Chiesa. E conchiuse, quanto era ai casi speciali, doversi queste cagioni lasciare al giudicio del papa, e nei paesi remoti, degli arcivescovi, o del vescovo più antico, si come ordinavasi nel decreto fatto in tempo di Paolo III, o de' concilii provinciali: i quali conveniva tornare in uso, e leggere in essi e ne' diocesani il presente decreto. Ma quanto s'era detto delle cagioni, volersi intendere si fattamente che l'assenza nè sia perpetua nè lunga: onde si conosca che l'abitazione del vescovo, quantunque lontano per accidente, è ferma nella sua

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