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trario che ciò e alla gerarchia instituita da Cristo, e ad ogni regola di buon governo. Replicar essi per tanto, che in si fatte materie doveva il pontefice esser legislatore e legge a se stesso. Con sua santità ne trattasse l'imperadore, ed avrebbe trovata in lei tutta la prontezza, come dimostrava la riformazion della corte già dal papa cominciata, e assiduamente proseguita.

Or in quest'ultima parte, ch'era la più pericolosa, perchè la più vistosa all'invidia della moltitudine, e però la più promossa dagli occulti fautori dell'eresia, il cardinal di Loreno allargò assai l'animo de' Legati con assicurarli, che Cesare voleva salda ed intera l'autorità del papa, fermíssimo non solo di non mutar mai la religion cattolica, ma di non levarsi mai dall' ubbidienza del suo capo, e specialmente di Pio IV, di cui aveva la maggiore e la miglior opinione che si potesse aver d'un pontefice, sperandone tutto il bene non disperabile nella Chiesa, pur che non patisse inganno da' suoi consiglieri, come certamente pareva a sua maestà che fosse accaduto davanti. Imputava Ferdinando

la (1) potissima colpa a' consigli di due valenti cardinali, Morone, e Cicala: secondo il costume, che le durezze, e le dispiacenti azioni de' principi siano ascritte a que' ministri, i quali più ne posseggono la confidenza, e più ne dimostrano il zelo.

Passossi dal cardinal di Loreno a ciò che avea ragionato l' imperadore contra la resistenza usatasi per addietro, sì a lasciar dichiarare la giurisdizion e l'obligazion de' vescovi come di legge divina, si levare la particella: proponenti i Legati. Dell'uno e dell'altro gli fu risposto: e mostrando egli soddisfazione quanto era al primo, disse nel secondo (e l'effetto verificò il presagio) che i Legati fossero certi, dovere in quel punto esser più ardente e inesorabile il re Filippo, che Ferdinando: imperò che il concilio non rimaneva libero e se i principi aveano quivi la lingua annodata, non sapeano a quale opera colà si mandasser gli ambasciadori. Ma il cardinal Seripando soggiunse: portar egli credenza di comprendere ottimamente quella materia, e che desiderava di

(1) Scrittura del Visconti al cardinal Borromeo de' 3 di marzo 1563.

conferirne a maggior agio col cardinale, e fargli sentire, che quelle parole lasciavano la libertà illesa, affinch'esso poi e colla sua autorità, e colla sua eloquenza rendesse intendenti gli Spagnuoli ed ogni altro del medesimo vero. Di che il Lorenese ancora si mostrò forte bramoso. Finì, e raccomandando a' Legati la prestezza del procedere, a che gli trovò dispostissimi, e affermando che di tutto quel ragionamento volea dar contezza per sue lettere al papa. Il che tanto più facea segno, che egli tendesse ad apparirgli benemerito, non a dichiararglisi avverso: però che, trattandosi co' maggiori, il servigio si cerca di porre in luce con le parole, il diservigio ascondesi nel silenzio.

La propinquità dell' imperadore, continuante la sua dimora in Ispruch per celebrarvi una dieta, avea fatto muovere (1) il duca di Mantova suo genero per andare

(1) Lettera del Visconti al cardinal Borromeo del primo e de' 4 di marzo, e de' Legati allo stesso de' 3, e de' 4 di marzo. Il Diario al giorno 2 di marzo 1563, e lettera del Foscarario al cardinal Morone de' 25, de' 28 di febraio, e de' 4 di marzo, e Atti del Paleotto.

a riverirlo: e per lo stesso fine, ma di più lento e donnesco passo, venivagli dietro Eleonora sua moglie. Con l'opportunità di questo viaggio era il duca arrivato in Trento poche ore dopo il cardinal di Loreno: e trovandovi il zio aggravato dal male, l'amore e 'l dovere il costrinse a fermarsi: fin che fra tre giorni, cioè la seconda sera di marzo, vide il tristo spettacolo della sua morte. Ne furono incolpati i medici, i quali, non conosciuta la vera sua malattia, non gli avessero applicato l'acconcio medicamento: ma come in molte professioni il difetto degli artefici è trasportato nell' arte, così spesso nella medicina il difetto dell'arte è imputato agli artefici.

Lasciò di vivere in età di cinquantott'anni (1), trentasei de' quali ne aveva ornati la porpora. Ebbe altezza d'ingegno conforme al nascimento, pazienza di studio non conforme al nascimento. In lui si congiunse lo splendore di principe coll'edificazion d'ecclesiastico, e l'estimazione

(1) Vedi il Ciaccone all'anno 1527, coll'aggiunte dell' Ughello, e del Vitorello, e gli autori da essi allegati, e'l conclave dell'elezione di Pio IV.

della prudenza politica con la venerazione della pietà cristiana. Rimase chiaro nelle laudi principalmente di due letteratissimi cardinali, del Bembo, e del Sadoleto. Le due maggiori corone fra loro emule convenivano in volerlo per padre della cristianità. Chi l' escluse, non gli oppose difetto, ma eccesso di pregi: e fu l'unico suo demerito per non salire, l'esser troppo alto. Illustrollo nondimeno ancora il pontificato non conseguito, nè tanto perchè, meritato, quanto perchè non desiderato, o almeno così temperatamente nel cuore, che nulla ne trasparisse nell'opere. Andò presidente al concilio contra sua voglia e per ubbidienza, e continuovvi per ubbidienza: ma con si grande applicazione, che mostrò, non esser violento alla virtù il molesto, qualora onesto. Quivi fra tanta varietà d'intelletti, e d'affetti, non era chi non gli desse le prime lodi: si che quando trattò d'appartarsene, tutta l'assemblea si commosse, tutti i principi della cristianità vi si opposero, l'imperadore s' inchinò alle preghieil papa forse più, venendo al comandamento. Poco innanzi al morire, per

re,

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