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pronunziar la condanna; l'imputato si ritenne assolto, ma il processo fu ripreso dagli accusatori e portato innanzi ai comizii tributi. Questi pronunziarono la condanna; sulla quale si ha doppia tradizione: ch'ei fosse precipitato dalla rupe Tarpeia, che aveva salvato; e questa risale a un motivo evidentemente rettorico; ch'ei fosse verbere necatus, ed è la fonte migliore (v. Mommsen, Röm. Fo. II, p. 195). L'altro caso è quel di P. Claudio Pulcro, di cui fa menzione lo scoliaste a Cic. in Clod. et Cur. 5, 4, p. 337 ed. Bait. Ob id factum dies ei dicta perduellionis a Pullione et Fundanio trib. pl. Quum comitia eius rei fierent, et centuriae introducerentur, tempestas turbida coorta est. Vitium intercessit. Itaque, actione mutata, eisdem accusantibus, multa inrogata' (dai comizii tributi). Ora in realtà la tradizione stessa conferma che ciò pure avvenne per Scipione Africano. Giacchè il Rein, De iudiciis populi Romani provocatione non interposita habitis, p. 13, ha mostrato come questo cambiamento di procedura doveva essere imposto da speciale legge del Senato; ora risulta che al Senato fu portata la questione mediante la rogatio Petillia; v. Studii romani, I, p. 28-29.

È noto come Scipione stracciò i conti in Senato. E dopo questa seduta, egli prese probabilmente la via dell'esilio. Ma non si poteva con ciò fermare la procedura giudiziaria. Anzi le fonti ci riferiscono delle nuove citazioni fatte a Scipione, mentr'egli andava in esilio. Liv. 38, 52, 1 'die longiore prodicta in Literninum concessit, certo consilio ne ad causam dicendam adesset'. Ed un frammento di Dione Cassio (framm. 70 Peir.), par che appunto accenni a tal fatto, dicendo che Scipione si ritirò in Literno, dopo essere intervenuto alla prima citazione (cioè a quella in cui il popolo lo segui al Campidoglio): ' τῇ γοῦν Αφρικανοῦ ἐς Λίτερνον ἀναχωρήσει, κἀνταῦθα μέχρι τῆς τοῦ βίου τελευτῆς ἀδείᾳ . τὴν μὲν γὰρ πρώτην ἀπήντησε, νομίζων τῇ τῆς ἀρετῆς ἀληθείᾳ περιέσεσθαι. Di più la tradizione stessa ci dice che Scipione cominciò ad essere citato assente: Liv. 38, 52, 3 ubi dies venit citarique absens est coeptus, L. Scipio morbum causae esse

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cur abesset excusabat'. E ci dice pure che la scusa non fu ritenuta valida dai tribuni quam excusationem cum tribuni qui diem dixerant, non acciperent.... Subito dopo la tradizione continua, narrando (38, 52, 8-11) che il collegio dei tribuni deliberò fosse rimandata la causa; ma uno solo di essi, Ti. Sempronio Gracco intercedette perchè non avesse séguito l'accusa, ossia, come oggi diremmo, perchè la causa fosse cancellata dal ruolo. Or, per quest'ultima parte, e cioè per l'intercessione di Ti. Sempronio' Gracco noi mostrammo (St. rom. I, p. 15-16) come nel racconto liviano, o meglio valeriano, vi sia sdoppiamento dell'azione sua. Egli intercedette in realtà in favore di L. Scipione Asiatico, non di Publio; e Gellio (VI[VII], 19) ci ha conservato memoria del decreto ch'egli fece, decreto che se non è autentico, riproduce però, come anche il Mommsen ammette (Röm. Fo. II, p. 419) il contenuto del decreto genuino. Noi mostrammo pure per quali ragioni la tradizione valeriana abbia sdoppiato l'azione di Ti. Sempronio Gracco, e come quindi sia ineccepibile il racconto gelliano della sola intercessione a favore di L. Scipione Asiatico (St. rom. I, p. 15-16).

Se dunque quest'ultima parte della tradizione circa il processo dell'Africano, è dovuta ad un equivoco, all'incontro la prima parte riproduce uno svolgimento normale e razionale di fatti, quale ci è dato dagli altri esempii della procedura criminale romana. Il limite della parte accettabile nella tradizione è dunque questo: che il tribuno accusatore non ritiene valida la scusa di malattia, addotta per P. Africano, e il collegio dei tribuni delibera sia rimandata la causa e venga fatta a Scipione un'altra citazione (Liv. 38, 52, 8). Che cosa ne fu poi di quest'altra citazione? Qui la tradizione tace, o per meglio dire, innesta il racconto falso della intercessione di Ti. Sempronio Gracco. Ma nella mancanza di notizie particolari al fatto, vediamo quale sarebbe stata la conseguenza di tal citazione. Anzitutto è da osservare che il cambiamento di procedura, come abbiamo visto per il caso di P. Claudio Pulcro (p. 7) portava ad un processo di multa innanzi ai comizii

tributi. Per l'Africano infatti la questione portata in Senato fu quella riguardante il danaro di Antioco; de pecunia regis Antiochi fu l'orazione di Catone; il Senatoconsulto dovè quindi autorizzare il processo per peculato. L'Africano avrebbe dovuto, non presentandosi al giudizio, assoggettarsi ad essere arrestato: è noto infatti che il magistrato aveva, in forza del suo imperium il jus prehensionis. Si aggiunge che non essendo stata accettata la scusa di malattia, presentata per l'Africano, egli, non comparendo, doveva esser considerato come latitante. La differenza tra latitanza ed assenza è chiaramente stabilita dal seguente passo di Cicerone (p. Flacco 32, 78) 'decrevit, cum ibidem esses, cum prodire nolles; non est hoc in absentem sed in latentem reum'. Or come latitante, doveva il magistrato ordinarne l'arresto: Cic. p. Clu. 13, 39 ‘Extrahitur domo latitans Oppianicus a Manlio'. Al termine fissatogli, l'Africano dunque sarebbe dovuto comparire al giudizio, se voleva evitare l'onta estrema dell'arresto.

Pure dell'esito di tal processo, del dibattimento, dell'assoluzione o della condanna non rimane assolutamente memoria alcuna: nè è credibile che se Scipione fosse stato arrestato o si fosse di nuovo spontaneamente presentato al giudizio, un sì solenne fatto non avrebbe avuto menzione: è da credere quindi che il processo non abbia avuto luogo, e che cioè Scipione sia morto prima del giorno del dibattimento. Gli stessi indizii cronologici, confortano, mi pare, questa argomentazione. Noi poniamo col Nissen (Untersuch., p. 218) e contro la tradizione comune e l'opinione del Mommsen (Röm. Fo. II, p. 481) il processo all'Asiatico anteriore a quello all'Africano, unico modo, parmi, per ispiegare l'intervento dell'Africano in aiuto di Lucio (v. St. rom. I, p. 20). Il processo all'Africano potè seguire al principio del 570, o al fine del 569, giacchè Livio trovò nei magistratuum libri che il tribuno accusatore M. Nevio entrò nel tribunato il 10 dicembre 569 (Liv. 39, 52, 4). Ammettendo nel corso del 570 il primo processo e la rogatio Petillia in Senato; indi sul declinare dell'anno il ritiro dell'Africano nell'esilio, comincerebbe di qui la seconda fase, quella del cambiamento di

procedura, imposto dal senatoconsulto; seguirebbero le citazioni in contumacia, a distanza di un mese l'una dall'altra: le scuse di malattia presentate al collegio dei tribuni dal fratello Lucio; indi alla fine del 570 la morte del fratello Lucio (Mommsen, Röm. Fo. II, p. 478, nota 128) annunziata a Publio nell'esilio (Seneca, cons. ad Polyb. 14, 4); indi l'approssimarsi del termine della nuova citazione stabilita dal collegio dei tribuni (Liv. 38, 52, 8), citazione che come già abbiamo detto, doveva essere la definitiva; e, prima della scadenza di tal termine, nel 571, la morte dell'Africano (la data è di Polibio e di Rutilio, v. Livio, 39, 52; vedi la discussione e conferma di tal data in Mommsen, Röm. Fo. II, p. 481-489).

Come si vede, anche la vita dell'esule sdegnoso a Literno dovette essere travagliata da agitazioni ed angoscie non lievi; e solo alla pietà degli amici può risalire il modo onde gli scrittori la rappresentarono. Giacchè nol fecero conturbato da niun male, nè fisico, nè morale; dilettarsi, come dice Seneca (De brevit. vitae, 17) del suo contumace esilio'; e nell'austera solitudine attendere ai campestri lavori, nè aver desiderio della città (Liv. 38, 53, 8 sine desiderio urbis ). Così infatti ci è rappresentata, nella tradizione letteraria, la figura del grande esule:

Seneca, Epist. 51, 11 Literni honestius Scipio quam Baiis exsulabat: ruina eius non est tam molliter conlocanda '.

Seneca, Epist. 86 'exercebat enim opere se, terramque, ut mos fuit priscis, ipse subigebat'.

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Plutarco, Cato maior, 24, 12 Σκηπίων ὁ Ἀφρικανὸς διὰ τὸν ἀντικρούσαντα πρὸς τὴν δόξαν αὐτοῦ φθόνον ἀποστραφεὶς τὸν δῆμον ἐκ μεταβολῆς ἐποιήσατο τοῦ λοιποῦ βίου τέλος ἀπραγμοσύνην.

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Dione Cassio, framm. 70 Peir.: τῇ γοῦν Ἀφρικανοῦ ἐς Λίτερνον ἀναχωρήσει, κἀνταῦθα μέχρι τῆς τοῦ βίου τελευτῆς ἀδείᾳ. Dione Cassio 28, 26 [Σκιπίων] ἀλύπως ἐν Λιτέρνῳ κατεβίω (5).

(5) Si aggiunga che Plinio, N. H., XVI, 85, 234, parla degli alberi pian

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E fecero pure gli scrittori che gli si prestasse adorazione e culto quasi divino pur da coloro, onde meno si sarebbe desiderato ed aspettato, e cioè dai complures praedonum duces' dei quali narra Valerio Massimo, II, 10, 2. - Il vero è che neppure nei pochi mesi di esilio a Literno fu doma l'ira dei nemici, e che la morte giunse in tempo a liberarlo dall'onta estrema dell'arresto.

Or se consideriamo il seguito e lo svolgimento dei fatti, e questi mettiamo a riscontro col carattere fiero di Scipione, dobbiamo ritenere che tal serie delle vicende sue sia in realtà la più probabile. Scipione, vistosi impotente a domar l'ira dei suoi nemici, si allontanò da Roma; lo scopo di tal mossa sua ci è tramandato in un passo di Plutarco, che pur sembra risalire a tal fonte, che sia estranea a tutto il ciclo di racconti, che fan capo a Lelio e a Polibio. Dice adunque Plutarco nei Πολιτικά παραγγέλματα, 15, 10, che Scipione con l'andare in esilio ebbe l'intento di smorzare la forza dell'invidia e dar respiro a tutti coloro che sembravano dovere rimanere oppressi dallo splendore di sua gloria: ̔ὁ καὶ Σκιπίων ὁ ̓Αφρικανὸς ἐποίει, πολὺν χρόνον ἐν ἀγρῷ διαιτώμενος, ἅμα καὶ τοῦ φθόνου τό βάρος ἀφαιρῶν, καὶ διδοὺς ἀναπνοὴν τοῖς πιέζεσθαι δοκοῦσιν ὑπὸ τῆς ἐκείνου δόξης. Era naturale però che, a commuovere gli animi, ei facesse comparire ben più alta e ben più fiera e sdegnosa la ragione del suo esilio; e alle genuine dichiarazioni sue, possono quindi risalire le parole che gli si attribuiscono in Seneca, Epist. 86 (= Moral. 13, 1, 2) Nihil, inquit, volo derogare legibus, nihil institutis. Aequum inter omnes cives ius sit. Utere sine me beneficio meo, patria. Causa tibi libertatis fui, ero et argumentum: exeo, si plus tibi

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tati dalla mano di Scipione a Literno e che ancor rimanevano ai suoi tempi: Ex his [arboribus] quas memoria hominum custodit durant in Liternino Africani prioris manu satae olivae, item myrtus eodem loco conspicuae magnitudinis; subest specus, in quo manis eius custodire draco traditur '. Vedi Gerlach, P. Cornelius Scipio Africanus der Aeltere und seine Zeit, Basel, 1868, p. 150-154.

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