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la morte naturale? Or poichè di questo passo medesimo fa gran caso un altro critico, il Brückner (in Zeitschrift für die Altertumswissenschaft 1841, p. 424 e segg.), che pur conchiude alla morte naturale di Scipione, e pur sembra non voler tenere conto di tutti gli altri, ci sia lecita un'osservazione. Per negare o dubitare che Cicerone creda alla morte violenta dell'Africano, occorre in realtà tutta la preconcetta fede, che i due citati critici hanno nell'opinione loro. Si riscontrino, oltre tutti i passi citati sopra, i seguenti:

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Pro Mil. 7, 16 Quantum luctum in hac urbe fuisse a patribus nostris accepimus, cum P. Africano domi suae quiescenti illa nocturna vis esset illata!'.

De Fato, 9, 18 'Sic si diceretur « Morietur noctu in cubiculo suo vi oppressus Scipio» vere diceretur: id enim fore diceretur quod esset futurum, futurum autem fuisse ex eo quia factum est, intellegi debeat'.

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Se dunque nel passo De Amicitia, 3, 12 si parla di semplice sospetto (quo de genere mortis difficile dictu est: quid homines suspicentur videtis') ciò non può esser fatto senza ragione. Nel passo ora citato le parole sono messe in bocca a Lelio. Or sulla morte di Scipione Emiliano Cicerone conosceva un documento solenne di Lelio stesso, l'orazione funebre che Lelio scrisse, e recitò Q. Fabio Massimo Allobrogico (pro Murena, 36). Di tale orazione ci è stata conservata l'ultima parte negli Scolii Bobiensi alla Miloniana, p. 283 Or.-Bait., che noi riporteremo: Quapropter neque tanta diis immortalibus gratia haberi potest, quanta habenda est, quod is cum illo animo atque ingenio hac civitate potissimum natus est: neque ita moleste atque aegre ferri, quam ferundum est, quum eo morbo mortem obiit et in eodem tempore periit, quum et vobis et omnibus qui hanc remp. salvam volunt, maxime vivo opus est, Quirites. Che Cicerone conoscesse tale orazione, si deduce dal fatto che la cita e ne riporta parole pressochè simili (Mur. 36). Or poichè qui Lelio parla di morte avvenuta in seguito a malattia, era naturale che Cicerone non ponesse in bocca

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a lui tali parole, che recisamente affermassero la violenza. Tal ragione c'induce anzi a dubitare, che colga nel segno l'opinione di coloro che in De Amic. 12, 41 ['quid in P. Scipione effecerint '], ove pur parla Lelio, veggono l'allusione a P. Scipione Nasica, non a Scipione Emiliano. Che poi Lelio veramente credesse alla morte per malattia, è questione, nella quale non sarebbe possibile un giudizio. Certo nella funebre orazione poteva essere desiderio suo non fare scandalo, ed accettare la versione imposta dal partito popolare, specie essendo di natura sua così mite, e rifuggente dagli appassionati rinfocolamenti di ire partigiane.

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Non fu senza ragione che dalle accuse mosse ai Gracchi noi prendessimo le mosse.

Pur l'argomento nostro si dilarga a più ampia serie di fatti, e lasciando ora da parte l'argomento della morte dell'Emiliano, cui pur tosto riverremo, sarà da esaminare la posizione dei partiti politici in quel tempo a Roma. Scaturirà, spero, dal confronto dei testi qualche notizia affatto nuova, per la storia delle agitazioni politiche in quel periodo: qualche notizia che insieme ne darà modo di ricostruire le cause che spinsero alcuni faziosi a spegnere in una notte nefanda il primo capitano di quel tempo.

Che fino ad una certa epoca, e specialmente prima della spedizione di Numanzia, Scipione non fosse recisamente del partito senatorio, anzi mostrasse qualche inclinazione verso il partito popolare, se ne ha qualche indizio. Così ad esempio nel 617, quando L. Cassio Longino propose la legge tabellaria che sostituiva nei giudizii popolari al suffragio orale la tabella scritta, si agitarono dall'una parte e dall'altra i due partiti: il partito degli ottimati temeva la licenza e la corruzione della tabella: il popolo vi vedeva la sua libertà: Cicer. p. Sest. 48, 103 Tabellaria lex ab L. Cassio ferebatur. Populus libertatem agi putabat suam. Dis

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sentiebant principes, et in salute optimatium temeritatem multitudinis et tabellae licentiam pertimescebant'.

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Il partito degli ottimati aveva dalla sua parte il tribuno della plebe M. Anzio Brisone, che pose per lungo tempo il suo veto, e solo per autorità di Scipione Emiliano mutò parere e lasciò passare la legge: Cic. Brut. 25, 97 cuius [L. Cassii] legi tabellariae M. Antistius Briso tribunus plebis diu restitit, M. Lepido consule adiuvante; eaque res P. Africano vituperationi fuit, quod eius auctoritate de sententia deductus Briso putabatur. Legg. 3, 16, 37 'Cassiae legis culpam Scipio tuus sustinet, quo auctore lata esse dicitur'.

Quale fosse anzi intorno a quel tempo l'autorità ch'ei godeva sul popolo e l'amicizia sua per Ti. Sempronio Gracco, il dimostra il seguente fatto. Nel seguente anno (618) C. Mancino, il quale senza l'autorizzazione del Senato, aveva, insieme con Ti. Sempronio Gracco, fatto alleanza coi Numantini, fu, su proposta di L. Furio e di Sesto Atilio, consegnato ai Numantini stessi (Cic. De off. 3, 109): solo il popolo perdonò a Ti. Gracco, e principalmente per l'autorità di Scipione Emiliano: Plut. Ti. Gracc. 7 ‘▲okeî dè kaÌ Σκηπίων βοηθῆσαι, μέγιστος ὤν τότε καὶ πλεῖστον δυνάμενος Ῥωμαίων . Subito dopo, par che però cominciassero i primi rancori. L'origine di essi Plutarco (Ti. Gracco 7) assegna alla soverchia ambizione di Tiberio, e specialmente all'opera degli amici di quest'ultimo, che cercavano in ogni maniera di elevarlo: Tò δὲ πλεῖστον ἔοικεν ἐκ φιλοτιμίας καὶ τῶν ἐπαιρόντων τὸν Τιβέριον φίλων καὶ σοφιστῶν ἐκγενέσθαι τὰ τῆς διαφορᾶς'. Cio ne mostra come già fin d'allora Scipione Emiliano cominciasse a nutrire quel sentimento, del quale ei non seppe più liberarsi, che cioè Ti. Gracco per ambizione tendesse a diventar tiranno.

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Dopo l'uccisione di Tiberio Gracco, Scipione Emiliano prese un atteggiamento più apertamente ostile al partito popolare. Si vedeva più che mai il pericolo che la democrazia si convertisse in oclocrazia, la libertà in tirannide (Pol. VI, 57). E che cosa ei sentisse di Tiberio, lo abbiamo da testimonianze ben sicure. Il

fatto che Tiberio s'ingraziasse il favore del popolo, che tre o quattro mila persone lo accompagnassero sempre fuor di casa (Asellione presso Gellio II, 13, 5, Diodoro, Rell. 1. 34 e 35, 6), che fin di notte il popolo gli facesse la guardia alla porta (Plut. Ti. Gracc. 16), e che infine ei chiedesse gli fosse per un altro anno prolungata la potestà tribunizia (Plut. Ti. Gracc. 16, App. 14), tutto ciò non lasciò nella coscienza dell'Emiliano dubbio alcuno, ch'ei volesse diventar tiranno. Già al sentir l'annunzio della morte, egli recitò il verso d'Omero

ὡς ἀπόλοιτο καὶ ἄλλος ὅτις τοιαῦτα γε ῥέζοι

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(Plut. Ti. Gracc. 21 in f.; Diod. Rell. 34 e 35, 33). E nel circolo di Scipione si riteneva ch'egli avesse in realtà regnato per alcuni mesi o tentato di regnare. Posidonio di Rodi dice: Tupavveîv Éπιуειρησaντα (Diod. Rell. XXXIV e XXXV, 33; vedi Meyer, Unters. zur Gesch. der Gracchen, 1894, p. 9 e 26), e Cicerone fa dire a Lelio, De Amic. 41 Ti. Gracchus regnum occupare conatus est, vel regnavit is quidem paucos menses' (invece Memmio, che era infestus potentiae nobilitatis' Sall. lug. 27, così ne riferisce presso Sall. Iug. 31. 7 'quem regnum parare dicebant'). Ancor più caratteristico è un passo della Republ. di Cicerone conservatoci da Macrob. I, 4, 2 sq., e che non è tra le recuperate parti dell'opera intera. (V. De Rep. VI, 8, 8, Bait. ed Halm.). Ivi si dice che a Scipione fu data occasione di narrare il sogno suo dal lamento che mosse Lelio, che a Nasica, l'uccisore del tiranno, non si elevassero pubbliche statue: Cum enim Laelius' quereretur nullas Nasicae statuas in publico in interfecti tyranni remunerationem locatas, respondit Scipio post alia in haec verba: Sed quanquam sapientibus conscientia ipsa factorum egregiorum amplissimum virtutis est praemium, tamen illa divina virtus non statuas plumbo inhaerentes nec triumphos crescentibus laureis, sed stabiliora quaedam et viridiora praemiorum genera desiderat ›.

L'ostilità contro il partito popolare si fece però più viva quando le idee e i disegni di Tiberio Gracco furono riprese da un tribuno

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da strapazzo, C. Papirio Carbone, quello stesso che poi in seguito trovò più opportuno abbandonare la causa del popolo e darsi di nuovo alla nobiltà (Cic. De legg. 3, 16, 35). C. Papirio Carbone, tribuno della plebe nel 623 propose la legge de tribunis plebis reficiendis, con la quale si stabiliva (Liv. Per. 59) 'ut eundem tribunum plebi, quotiens vellet, creare liceret'. Pose in arte tutte le blandizie e tutta l'arte perchè trionfasse coi suffragi popolari : De Amic. 96Quibus blanditiis C. Papirius nuper influebat in aures contionis cum ferret legem de tribunis plebis reficiendis ' ed ebbe naturalmente l'appoggio di Caio Gracco: Livio Per. 59 'C. Gracchus contra suasit rogationem'. Stettero dalla parte contraria Lelio il sapiente e Scipione Emiliano: Lelio presso Cic. De Amic. 96: dissuasimus nos, sed nihil de me, de Scipione dicam lubentius. Quanta illa, di immortales, fuit gravitas, quanta in oratione maiestas!' Poichè Carbone s'accorse, dall'orazione di Scipione esser tratti gli animi a ripudiar la legge, tentò le vie sediziose (Cic. Mil. 3, 8), ed a Scipione domandò che cosa egli sentisse della morte di Tiberio (Vell. Pat. 2, 4, 4, 4; Cic. De Orat. 2, 106, 170, Val. Mass. 6, 2, 3). La domanda non era estranea alla sua tesi: se Tiberio fosse stato rieletto tribuno, non sarebbe stato ucciso. Doveva dunque esser noto il giudizio che di quella morte si faceva nel circolo di Scipione. Questi rispose (Vell. 2, 4, 4) 'si is occupandae reipublicae animum habuisset, iure caesum (men completamente è riportata la risposta in Livio Per. 59 rogationem eius P. Africanus gravissima oratione dissuasit, in qua dixit Ti. Gracchum iure caesum esse'; De Orat. 2, 106; Mil. 8; de vir. ill. 58, Val. Mass. 6, 2, 3). Plutarco dice solo (Ti. Gracc. 21 in f.) čhei dette risposta οὐκ ἀρεσκομένην τοῖς ὑπ ̓ ἐκείνου teπolitevμévois', e che il popolo sdegnato gli schiamazzò contro, il che dette a lui ragione di acerbo biasimo. E quale si fosse quest'altra acerba risposta da lui data al popolo, sappiamo da altri passi: [Aur. Vitt.] De vir. ill. 58: Gracchum iure caesum videri respondit; obstrepente populo, Taceant, inquit, quibus Italia noverca non mater est, et addidit, Quos ego sub corona vendidi '

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