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dalle fatiche insieme e dal sonno, e a quelli, che avevano gli occhi aperti, una folta nebbia, che allora per accidente s'era distesa in città, offuscava la vista: finalmente entrato tutto l'esercito si destaro, ma per soltanto sentire i loro mali; e solo nell' essere uccisi credettero d'esser presi.

XXX. Ma i Romani per la rimembranza del quanto patirono nell'assedio non ebbono risguardo nè compassione a persona, ma dall' alto della città giù cacciando il popolo verso il piano facevano gran macello. Quivi eziandio a chi avea forze ancor per combattere, la malagevolezza de' luoghi tolse ogni mezzo a difendersi. Perciocchè affoltandosi in mezzo alle strade, e giù sdrucciolando per lo pendio rimanevano dalla furia dell' armi, che loro dall' alto piombavano in capo, sepolti. Questo sospinse parecchi ancor de' più bravi, ch' erano intorno a Giuseppe, a uccidersi di lor mano; perchè veggendo, che non potevano dare a morte nessun Romano, antivennero il dover essi cadere per man de' Romani, e raccoltisi nell' estreme parti della città ammazzaronsi da se stessi. Tutte poi quelle guardie, che al primo sentore del prendersi, che si faceva la terra, salvare si poterono colla fuga, racchiusisi in una delle torri a tramontana colà si difesero per alcun poco; ma soverchiati in folla dagl' inimici domandarono mercè troppo tardi, e si offersero prontamente alle spade romane, ch' erano loro alla gola per iscannarli.

XXXI. Sarebbon potuti i Romani andar lieti di non essere il fine di quell'assedio costato lor sangue, se un sol centurione, che fu Antonio, mentro appunto pren

devasi la città, non ci avesse lasciata la vita. Morì tradito; perciocchè un di quelli, che rintanaronsi nelle spelonche (e di tal fatta ve n'erano assai) si fe' a sup◄ plicare Antonio, che gli sporgesse la destra in fede di sicurezza e in ajuto da uscir di colà. Egli bonariamente gli dava la mano; ma colui di laggiù prevenutone l'atto, il ferisce coll' asta di sotto al fianco, e di presente lo batte morto in terra. Per quel giorno adunque i Romani furono paghi d'uccidere quella gente, che si parò loro innanzi; ma i giorni appresso andandone in traccia pei nascondigli misero a morte, quanti erano in ispelonche ed in tane, e corsero per tuttequante l' età, risparmiati solo i bambini e le donne. Di prigioni pertanto si fe' una ragunata di mille e dugento persone; e i morti tra nella presa della città e nelle passate battaglie contaronsi fino a quarantamila. Vespasiano comanda, che spiantisi la città, e tutte distrugge col fuoco le sue fortezze. Così fu presa Giotapata l'anno tredicesimo dell'impero di Nerone il primo di di Ranemo (26).

CAPITOLO VIII.

Giuseppe tradito da una femmina ama meglio di darsi in mano a' Romani. Come parlasse a' suoi, che nel distoglievano, e a Vespasiano, innanzi a cui fu condotto. Come il trattò Vespasiano.

I. Ora i Romani, mentre cercavano di Giuseppe tra per isdegno privato, e per la grande premura, che avevane il generale, dacchè l' averlo in potere a sommo

vantaggio tornerebbe di tutta la guerra, mettevano sottosopra i cadaveri e i nascondigli segreti della città. Ma egli nel cadere che fece testè in man deʼnimici la terra, ajutato da non so qual man celestiale s'invola di mezzo a loro, e gettasi con un salto in certo pozzo profondo, che aveva dallato congiunta un'ampia caverna invisibile a que' di sopra. Quivi trova appiattate quaranta persone delle più illustri col bisognevole a mantenersi, che basterebbe a parecchi giorni. Fra giorno adunque e' tenevasi colà dentro, intantochè i nimici razzolavan per tutto e di notte uscivane per trovar qualche via da fuggirsene, e stava osservando le sentinelle. Ma perciocchẻ in risguardo di lui custodivansi tutte le torri, onde non c'era verso di farlo nascostamente, tornavasi nella caverna. Due giorni interi visse non osservato

ma il terzo giorno fu da una donna schiava scoperto insieme cogli altri; e di presente Vespasiano spedisce con sollecitudine due tribuni Paolino e Gallicano con ordine di assicurare sotto la sua fede Giuseppe, e animarlo ad uscire di là. Giunti i tribuni esortavan Giuseppe e promettevangli certo scampo; non però lo piegarono. Perciocchè da quel molto, che secondo ogni probabilità avrebbe dovuto patire chi tanto avea fatto, non dalla naturale dolcezza di chi lo pregava, trasse i motivi di sospettare, e temette non forse allettasserlo per vendicarsi; se non che Vespasiano gli manda per giunta un terzo tribuno, ch'era Nicanore, personaggio noto a Giuseppe e antico suo famigliare. Appressatosi questi gli venne mostrando e le naturalmente mansuete persone, ch'erano verso chi avevano soggiogato la prima volta i

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Romani, e ch' egli pel suo valore era più ammirato, che non odiato da' capitani, e che il generale cercava di lui, non per trarlo al supplizio, a che per altro potrebbelo sottoporre senza bisogno, che gli venisse dinanzi, ma per desio di salvare un valent' uomo. Aggiugneva, che Vespasiano a tradirlo non si sarebbe valuto mai d'un amico, perchè un' ottima apparenza coprisse un pessimo fatto, l'amicizia cioè una fellonia, nè egli stesso per ingannare un amico sarebbesi indotto a venire colà. Pure Giuseppe anche dopo il parlar di Nicanore stando in forse la soldatesca sdegnatane voleva cacciare fuoco nella spelonca; ma tenuegli il capitano per voglia di prendere vivo Giuseppe. Ora, perciocchè pur Nica nore lo pressava colle preghiere, e vennergli udite le minacce de' soldati piene di furor militare, sovvennegli allora de' sogni notturni, per cui prenunziògli Iddio le future calamità de'Giudei, e l'avvenire intorno a'signori Romani ed egli era nell' interpretare de' sogni buono a comprendere il senso di ciò, che dicevasi ambiguamente da Dio, come quegli, che non ignorava de' sagri libri le profezie, sacerdote ch' egli era per condizione, e per nascita discendente da' sacerdoti. Or esso in quel punto ripien d' uno spirito superiore, e tornatosi colla mente all' orrende visioni de' sogni avuti, porge tacitamente a Dio una preghiera ; « e poichè, disse, a te

piace, che rifiniscasi la nazione giudaica, che tu stesso » creasti, e la prosperità è passata tutta a' Romani, e » sollevasti il mio spirito a pronunziar l'avvenire, eb» bene io mi rendo spontaneamente a'Romani, e vivrò; » ma tu mi sii testimonio, che a lor ne vado non tra»ditore, ma tuo ministro ».

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II. Così detto, già si poneva in man di Nicanore; ma que' Giudei, ch' eran seco laggiù appiattati, poichè s'avvidero, che Giuseppe cedeva alle istanze di chi lo pregava, fattiglisi tutti intorno, « deh quanto, sclama»rono, gemeranno le patrie leggi, e si sdegnerà Dio, >> che infuse in cuore a' Giudei uno spirito disprezzator » della morte! Tu dunque, o Giuseppe, cerchi di vi» vere, e ti basta l'animo di mirare con al piede un » ceppo da schiavo il sole? Quanto presto dimenticasti » te stesso ? Quante persone non animasti tu stesso a » morire per la libertà? Ah, che falso fu il concetto » di valoroso, falso ancor quello di accorto, che pur

>>

godesti, quando ti fai a sperare lo scampo da quelli » contro de' quali così fieramente battagliasti, o se pur » ne sei certo, vuoi esser salvo per loro mano! Che » se le prosperità de' Romani t'hanno sì forte abbagliato >> fino a dimenticare te stesso, a noi si conviene di » provvedere alla patria legge; noi presteremti la destra » e la spada; e tu, se muori spontaneo, general dei » Giudei, se a tuo malgrado, morrai traditore. Mentre » così dicevano, dirizzarongli contro le spade, e mi»nacciavano di passarlo fuor fuora, se si rendesse ai >> Romani ».

III. Temendo Giuseppe le loro furie, e credendo, che tradirebbe le commissioni divine, se prima di palesarle morisse cominciò a filosofare con loro sopra la morte. « E a che, disse, bramiamo co tanto, o amici, » d'uccider noi stessi? Perchè disunire cose tra se ami»cissime, corpo vo' dire ed anima? Forse dirà taluno, >> ch' io ho cangiati pensieri. Sanlo pure i Romani, che

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