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MARCO TABARRINI.

Nacque a Pomarance, nei Volterrano, ai 30 agosto 1818. Studio a Volterra nel collegio degli Scolopj, e a Pisa, ove strinse amicizia col Giusti e col Montanelli, si laureò in legge nel '42. Recatosi in Firenze, presto ebbe familiarità con G. P. Vieusseux, e coi dotti e liberali uomini che si raccoglievano intorno a lui, e che subito apprezzarono le sue non ordinarie doti d'ingegno e d'animo. Quando sopravvennero i tempi nuovi, egli, che già vi era preparato colla serietà degli studj e la maturità del senno, fu cooperatore al giornale La Patria. Poi, col grado di capitano parti coi volontarj pei campi lombardi, e sempre si dolse di non aver potuto combattere, perchè fu richiamato a Firenze dal ministro Ridolfi per consigli ed aiuti in quei difficili momenti. Sedè deputato nel Consiglio generale, e il Capponi, nel suo breve ministero, lo volle sempre accanto a sè; e quando dopo il 12 aprile fu restaurato il governo granducale, colla speranza che la Costituzione non fosse violata, il Tabarrini resse il Ministero dell'istruzione. Venuti gli Austriaci, andò a Torino, dove il d'Azeglio, allora ministro, avrebbe voluto trattenerlo seco, e pose il suo nome nel l'atto di sepoltura di Re Carlo Alberto. Ma consuetudini ed affetti domestici lo richiamavano in patria, ove fu fatto segretario del Consiglio di Stato, che era ufficio non politico, e dove poteva pur farsi del bene. Riprese gli studj storici prediletti, e fu assiduo cooperatore dell'Archivio Storico, inserendovi quei lavori che poi, per la maggior parte, formarono il volume Studj di critica storica (Firenze, Sansoni, 1876). Dopo la morte del Giusti, del quale avrebbe voluto scriver la vita, e niuno l'avrebbe potuto far meglio, ne raccolse e ordinò sui manoscritti originali i Versi editi ed inediti (Firenze, Le Monnier, 1852), aggiungendovi la Spiegazione di alcune voci e locuzioni tratte dalla lingua parlata, ed usate dal poeta. Dell'edizione si sarebbe voluto fare il sequestro, e accompagnarvi un processo, ma poi non fu fatto nulla. Lesse parecchie Memorie all'Accademia dei Georgofili, della quale più tardi narrò Gli studj e le vicende nel primo secolo di sua esistenza (Firenze, Cellini, 1856). Appartenne dal '56 all'Accademia della Crusca, della quale fu talora Arciconsolo (1866-69), tal'altra Segretario (1869-73), leggendovi relazioni e commemorazioni di illustri defunti: e di queste ultime è in gran parte formato il volume, notevole per copia e sicurezza di notizie e temperanza di giudizj su cose ed nomini del tempo, di Vite e Ricordi d'Italiani illustri del sec. XIX (Firenze, Barbèra, 1884). Giunto il '59, il Ricasoli lo volle al suo fianco ad opera di consiglio e di penna, e quando fu governatore della Toscana, lo prepose all'Istruzione pubblica. Prese parte all'Assemblea Toscana, che votò la decadenza dei Lorenesi e l'unione col Piemonte. Fu poi Consigliere di Stato; indi Presidente fino

all'ultimo suo giorno di cotesto alto consesso. Nel '71 fu eletto a far parte del Senato, del quale prima fu segretario, poi, dal '76 in giù, vicepresidente. Negli ultimi anni fu anche Presidente della Deputazione Toscana di storia patria, dell'Istituto storico italiano, e del Consiglio degli Archivi di Stato, e membro nazionale dell'Accademia dei Lincei. Alternando cogli uffiej amministrativi gli studj e i lavori, nel '68 pubblicò gli Scritti editi ed inediti di Vincenzo Antinori (Firenze, Barbèra), nel '72 gli Scritti politici e letterarj di Massimo d'Azeglio premettendovi una biografia dell'autore (Firenze, Barbèra, 2 vol.); poi anche gli Scritti editi ed inediti di Gino Capponi (Firenze, Barbėra, 2 vol., 1877). A questi fece seguire il volume Gino Capponi, i suoi tempi, i suoi studj, i suoi amici (Firenze, Barbèra, 1879), che in giusta mole contiene tanta parte di storia di Toscana e d'Italia, e con molta ponderazione narra fatti ed espone giudizj. Cooperò poi col Gotti alla preziosa raccolta di Lettere e documenti del bar. Ricasoli (Firenze, Succ. Le Monnier, 10 vol., 1867-95). Altri suoi scritti trovansi sparsi in pubblicazioni speciali: ma non è da tacere di un suo racconto Dio e la povera gente, stampato prima nella Rassegna Nazionale (1883) e poi a parte (Bologna, Zanichelli, 1891), che è un giojello di sentimento e di stile. Del resto, come scrittore, il Tabarrini è degno di nota specialmente nel saper raccogliere e condensare la materia e rappresentarla lucidamente; e se talvolta si può nelle sue scritture desiderare un poco più di vivezza, ci si compiace di trovarvi sempre un garbo spontaneo e una come a dire, affabile bonarietà e temperanza, rispondenti a molta rettitudine di intelletto e di cuore. Mori in Roma il 14 gennaio 1878.

[Vedi su di lui, AURELIO GOTTI, M. T. in Nuova Antolog., 1o febbr. 1898; OR. TOMMASINI, in Bollettino dell'Ist. Stor. Ital., n. 19; ISID. DEL LUNGO, in Rivista d'Italia, febbr. 1898; G. MAZZONI, in Atti della R. Accad. della Crusca, Firenze, Cellini, 1899; Per M. T., Discorsi (di A. GOTTI ed altri) per lo scoprimento di una lapide in Pomarance, Firenze, Barbèra, 1899; UGO BALZANI, Commemoraz. presso la R. Deputaz. di storia patria tosc., in Archiv. Stor., 1 disp. del 1891.]

Massimo D'Azeglio. Il 15 di gennaio del 1866 si spense a Torino questa nobile vita, così piena di pensiero e di azione. L'Italia, al solito, provò più dolore di perdere uomo siffatto che non aveva sentito compiacenza di possederlo. Onori funebri gli furono decretati dai Municipi, se ne dissero le lodi in molte pubbliche adunanze. Gino Capponi, che il D'Azeglio soleva chiamare fratello, ne commemorò la morte nella Nuova Antologia con tanto affetto e tanta verità, da lasciare ad altri campo a più lungo discorso, non a più degno elogio. Torino gli inalzerà un monumento: sebbene egli n'abbia già uno anche più durevole nella storia

nazionale di quest'ultimo ventennio, e negli scritti che lascia alla posterità; ciascuno dei quali è un atto coraggioso ispirato dal più schietto amore della patria, un documento storico del risorgimento italiano. Felice chi può intrecciare cosi la storia della sua vita e del suo ingegno, alla storia della sua nazione!

Ma nel D'Azeglio l'uomo valeva anche più dello scrittore. Chi lo ha conosciuto ne può far piena fede. Le qualità più diverse coesistevano in lui in grado eminente; l'ingegno dai concepimenti più alti si abbassava fino alle cose più umili; la volontà che a momenti pareva fiacca e inerte, à un tratto doventava ferrea e operosissima; impaziente nelle cose lievi, sapeva aspettare nelle grandi; fantasia di poeta nell'immaginare, freddezza calcolatrice di banchiere nel preparare l'esecuzione. Lo stesso era dei suoi costumi; il più compito cavaliere nelle sale dorate, si mutava nel commensale più disinvolto all'umile tavola d'una brigata di artisti; il pittore spensierato e geniale, deposti i pennelli, si trasformava senza sforzo nel presidente del Consiglio dei Ministri. Mirabile accordo di facoltà e di attitudini, proprio della natura italiana, ma che appena ha riscontro nei nostri antichi. Il fine della sua vita fu la grandezza e la libertà della patria, acquistate per virtù di sacrifizio, per merito di opere virili ed onorate; e ciò quando c'era chi per redimerla volea porle in mano un coltello e spingerla helle vie del delitto. Vivo al pari del sentimento del giusto e del vero, era in lui il sentimento religioso. Senza entrare nei misteri della sua fede, dico che egli sentiva Dio, sentiva il bisogno della preghiera, credeva l'anima immortale. Nè poteva essere altrimenti: chi opera sulla terra e non guarda in alto, ordinariamente opera per conto suo, quand' anche faccia le viste di darsi da fare per gli altri. E tale non fu sicuramente Massimo D'Azeglio. Quanti uomini politici in Italia e fuori potrebbero oggi senza ipocrisia scrivere di propria mano nel loro testamento le belle parole con le quali egli nel 1857 cominciava il suo? « Primieramente prego il mio Signore Iddio ad accogliere l'anima mia immortale, concederle perdono, e condurla in quel luogo per il quale l'ebbe creata e tenuta su questa terra. » E queste non sono formule di notari, ma voci interiori dell' anima che presente i suoi destini. Nè si creda che tali sentimenti fossero un portato della vecchiezza, perchè anche non pochi anni prima del 57, trovo che scriveva: «Credo che la Provvidenza aiuta gli uomini di cuore retto, e che basta esserlo davvero, si finisce coll'avere la ricompensa. »

Sopra quest'alto concetto che aveva dell'umanità, si fondava il suo amore sincero e non punto speculativo per gli uomini. Per istinto amava i poveri, i deboli e tutti quelli che patiscono o son fatti patire. Stava volentieri con loro, ne intendeva il linguaggio, ne indovinava gli affetti;

ed anche quando non li poteva soccorrere come avrebbe voluto, li sapeva consolare. Cosa che riesce a pochi; giacche i più de' signori che bazzicano con la gente minuta, o voglion farle sentire, anche nei beneficaria, che sono di un' altra pasta, o fanno con lei abietta comunanza e ricambio di vizj. Parecchi guadagni che il D'Azeglio ritraeva dal dipingere, andarono a sollevare infortuni e miserie; e Cesare Cantù rammenta in una lettera a Giorgio Briano, che quando fu imprigionato dagli Austriaci a Milano nel 1833, il D'Azeglio mise un suo quadro in lotteria per soccorso della famiglia in angustie.

Io per me credo che da queste relazioni col popolo cominciate nella prima gioventù e non mai rotte nel corso della vita, egli derivasse quella rara facilità di tradurre in lingua volgare le più intrigate questioni politiche, applicandovi i criterj del buon senso, ed esponendole in una forma che non fa mai intoppo al pensiero. E questa forma viva ed originale, in cui se togli qua e là qualche parola e qualche frase che sente il francese, tutto è di buona lega, egli la trovò nella sua natura e l'adoperò primo in Italia; e riusci scrittore popolare efficacissimo, perchè con l'educazione e le maniere di gentiluomo, ebbe l'animo schiettamente popolano. Anche prima di Montesquieu e di Buffon, Seneca aveva scritto, talis hominibus fuit oratio qualis vita.

<< Ho detto cose che a forza di esser vecchie sono sembrate nuove,» scriveva il D'Azeglio di non so quale suo discorso od opuscolo; ed in ciò appunto è il segreto della popolarità dei suoi scritti. Nei quali richiamando gl'Italiani a quel vecchio buon senso che ci ha salvati fino ad ora da tanti pericoli, rese un grande servigio alla patria. Perchè quanti siamo che abbiamo sfogliato libri, tutti ci siamo formati più o meno alle idee francesi; e quei nostri vicini da un secolo e più hanno recato gran confusione nella scienza politica. Elevando a dottrina scientifica il fatto della loro rivoluzione, e sempre metafisicando di diritti e di libertà, senza mai guardare alla realità delle cose, hanno stravolto, le menti in guisa, che non è ancora consumato un mutamento politico che già si dimostra la necessità di un secondo; e così mantengono i popoli in uno stato di perpetua convulsione, in cui non attecchisce nè la libertà, né la servitù, e si consumano le forze di ogni generazione in conati sterili e disperati. Il D'Azeglio che per sua fortuna aveva letto pochi libri e non si era fatto discepolo di nessuna scuola, pigliando la penna di scrittore politico, senza bisogno di annaspare colle teorie, invocò Îla luce del buon senso e disse alla gente: « Fratelli, se volete riuscire, la via maestra eccola qui; se poi volete rompervi il collo, pigliate a mancina e troverete il precipizio. » E gl'Italiani gli diedero retta, e parve loro che avesse scoperto l'Ame

rica, mentre non aveva fatto altro che rimetterli in strada, come fa il villano pratico dei luoghi al viandante smarrito.

Il D'Azeglio chiuse gii occhi contristato del presente e pauroso dell'avvenire. Gli pareva che l'Italia si fosse ailontanata dal concetto morale che aveva informato il suo risorgimento; che s'infangasse nelle corruzioni, e si lasciasse infatuare dai ciurmatori politici. Deplorava che il Papato avesse perduto nel 1819 una grande occasione per riporsi a capo della civiltà, e avvalorare colla sanzione religiosa i veri progressi umani. Studiando le cagioni per le quali l'Italia si era perduta nel secolo XVI, vedeva che anche allora lo scadimento del senso morale, la mancanza di virtù pubbliche, avean prodotto la ruina della nazione. Gli faceva paura più dell'ignoranza del popolo minuto, quella, che egli diceva mostruosa, degli uomini vestiti di panno fine, dai quali pur si traggono i ministri, i senatori, i deputati. La vecchia lite tra poveri e ricchi, che il mondo pagano aveva risoluta con la schiavitù, il mondo cristiano composta colla carità e con la fede nei compensi d' un'altra vita, gli pareva ardua a definirsi oggi che si nega il Cristianesimo e in nome della libertà si prepara il regno della violenza.

Erano questi fantasmi d'una immaginazione malata, o previsioni sinistre d'un uomo di lunga vista? Chi lo sa? Nessuno è giudice spassionato dei propri tempi; e anche gli storici più autorevoli furono quasi sempre estimatori fallaci degli uomini e delle cose della loro epoca. Sicuramente non v'ha civiltà che possa durare se non ha per fondamento la morale; e la morale priva d'ogni sanzione religiosa si risolve in un sogno. Se nella coscienza dei popoli si altera la nozione del bene e del male, anche le buone leggi riescono insufficienti e la libertà distrugge sè stessa. Ed a questo è da temere che si venga, insegnando che l'uomo e la società non sono altro che congegni di forze meccaniche senza ragione nel loro principio, senza fine nei loro effetti. Questa scienza che s'impone a tutti e s'arroga di supplire a tutto, potrebbe tornarci fatale. Lo stesso svolgimento meraviglioso delle industrie e dei commerci che è in gran parte opera sua, può creare una solidarietà d'interessi, ma non può cementare moralmente i frantumi di una società disgregata ad assicurare la civiltà. C'è pur troppo una barbarie che non ha bisogno dei Goti e dei Vandali, e che può coesistere anche con la stampa,.col.vapore e coll'elettrico.

Ora le nazioni europee camminano tutte ad occhi chiusi per questo verso; ma è da sperare che prima o poi, il grido dell' umanità offesa nei suoi sentimenti più nobili, faccia ragione di tanti assurdi. L'Italia per ventura è più indietro di altri popoli in questa via; e le resta ancora tanto di virtù, di senno pratico e di orgoglio nazionale, da arrestarsi e far parte da sè. Ma sia che il buon senso trionfi,

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