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per diletto nella pace; falconi, cani, e tutte l'altre cose che s'appartengono ai piaceri de' gran signori e dei popoli: come a' nostri di avemo veduto fare il signor Francesco Gonzaga marchese di Mantua, il quale a queste cose par più presto re d'Italia che signor d'una città. Cercherei ancor d'indurlo a far magni edificii, e per onor vivendo, e per dar di sè memoria ai posteri: come fece il duca Federico in questo nobil palazzo, ed or fa Papa Julio nel tempio di san Pietro, e quella strada che va da Palazzo al diporto di Belvedere, e molti altri edificii: come faceano ancora gli antichi Romani; di che si vedeno tante reliquie a Roma ed a Napoli, a Pozzolo, a Baje, a Cività Vecchia, a Porto, ed ancor fuor d'Italia, e tanti altri lochi, che son gran testimonio del valor di quegli animi divini. Così ancor fece Alessandro Magno, il qual, non i contento della fama che per aver domato il mondo con l'arme avea meritamente acquistata, edificò Alessandria in Egitto, in India Bucefalia, ed altre città in altri paesi; e pensò di ridurre in forma d'uomo il monte Atos, e nella man sinistra edificargli una amplissima città, e nella destra una gran coppa, nella quale si raccogliessero tutti i fiumi che da quello derivano, e di quindi traboccassero nel mare: pensier veramente grande, e degno d'Alessandro Magno. Queste cose estimo io, signor Ottaviano, che si convengano ad un nobile e vero principe, e lo facciano nella pace e nella guerra gloriosissimo; e non lo avertire a tante minuzie, e lo aver rispetto di combattere solamente per dominare e vincer quei che meritano esser dominati, o per far utilità ai sudditi, o per levare il governo a quelli che governan male: chè se i Romani, Alessandro, Annibale e gli altri avessero avuto questi risguardi, non sarebbon stati nel colmo di quella gloria che furono.

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XXXVII. Rispose allor il signor OTTAVIANO ridendo: Quelli che non ebbero questi risguardi, arebbono fatto meglio avendogli; benchè, se considerate, trovarete che molti gli ebbero, e massimamente que' primi antichi, come Teseo ed Ercole: nè crediate che altri fossero Procuste e Scirone, Cacco, Diomede, Anteo, Gerione, che tiranni crudeli ed empii, contra i quali aveano perpetua e mortal guerra que

sti magnanimi Eroi; e però per aver liberato il mondo da cosi intolerabili mostri (che altramente non si debbon nominare i tiranni), ad Ercole furon fatti i tempii e i sacrificii e dati gli onori divini; perchè il beneficio di estirpare i tiranni è tanto giovevole al mondo, che chi lo fa merita molto maggior premio, che tutto quello che si conviene ad un mortale. E di coloro che voi avete nominati, non vi par che Alessandro giovasse con le sue vittorie ai vinti, avendo instituite di tanti buoni costumi quelle barbare genti che superò, che di fiere gli fece uomini? edificò tante belle città in paesi mal abitati, introducendovi il viver morale; e quasi congiungendo l'Asia e l'Europa col vincolo dell' amicizia e delle sante leggi: di modo che più felici furono i vinti da lui, che gli altri; perchè ad alcuni mostró i matrimonii, ad altri l'agricoltura, ad altri la religione, ad altri il non uccidere ma il nutrir i padri già vecchi, ad altri lo astenersi dal congiungersi con le madri, e mille altre cose che si porian dir in testimonio del giovamento che fecero al mondo le sue vittorie.

XXXVIII. Ma, lasciando gli antichi, qual più nobile e gloriosa impresa e più giovevole potrebbe essere, che se i Cristiani voltassero le forze loro a subjugar gl'infedeli? non vi parrebbe che questa guerra, succedendo prosperamente, ed essendo causa di ridurre dalla falsa setta di Maumet al lume della verità cristiana tante migliaja d'uomini, fosse per giovare cosi ai vinti come ai vincitori? E veramente, come già Temistocle, essendo discacciato dalla patria sua e raccolto dal re di Persia e da lui accarezzato ed onorato con infiniti e ricchissimi doni, ai suoi disse: Amici, ruinati eravamo noi, se non ruinavamo; cosi ben poriano allor con ragion dire il medesimo ancora i Turchi e i Mori, perchè nella perdita loro saria la lor salute. Questa felicità adunque spero che ancor vedremo, se da Dio ne fia conceduto il viver tanto, che alla corona di Francia pervenga Monsignor d'Angolem, il quale tanta speranza mostra di sè, quanta, mo quarla sera, disse il signor Magnifico; ed a quella d' Inghilterra il signor don Enrico, principe di Waglia, che or cresce sotto il magno padre in ogni sorte di virtù, come te

nero rampollo sotto l'ombra d'arbore eccellente e carico di frutti, per rinovarlo molto più bello e più fecondo quando fia tempo; chè, come di là scrive il nostro Castiglione, e più largamente promette di dire al suo ritorno, pare che la natura in questo signore abbia voluto far prova di sè stessa, collocando in un corpo solo tante eccellenze, quante bastariano per adornarne infiniti. Disse allora messer BERNARDO BIBIENA: Grandissima speranza ancor di sè promette don Carlo, principe di Spagna, il quale non essendo ancor giunto al decimo anno della sua età, dimostra già tanto ingegno e cosi certi indizii di bontà, di prudenza, di modestia, di magnanimità e d'ogni virtù, che se l'imperio di cristianità sarà, come s'estima, nelle sue mani, creder si può che 'l debba oscurare il nome di molti imperatori antichi, ed aguagliarsi di fama ai famosi che mai siano stati al mondo.

XXXIX. Soggiunse il signor OTTAVIANO: Credo adunque che tali e così divini principi siano da Dio mandati in terra, e da lui fatti simili della età giovenile, della potenza dell'arme, del stato, della bellezza e disposizion del corpo, a fin che siano ancor a questo buon voler concordi; e se invidia o emulazione alcuna esser deve mai tra essi, sia solamente in voler ciascuno esser il primo e più fervente ed animato a cosi gloriosa impresa. Ma lasciamo questo ragionamento, e torniamo al nostro. Dico adunque, messer Cesare, che le cose che voi volete che faccia il principe son grandissime e degne di molta laude; ma dovete intendere, che se esso non sa quello ch' io ho detto che ha da sapere, e non ha formato l'animo di quel modo, ed indrizzato al cammino della virtù, difficilmente saprà esser magnanimo, liberale, giusto, animoso, prudente, o avere alcuna altra qualità di quelle che se gli aspettano; nè per altro vorrei che fosse tale, che per saper esercitar queste condizioni: chè si come quelli che edificano non son tutti buoni architetti, cosi quegli che donano non son tutti liberali; perchè la virtù non nuoce mai ad alcuno, e molti sono che robbano per donare, e cosi son liberali della robba d'altri; alcuni danno a cui non debbono, e lasciano in calamità e miseria quegli a' quali sono obligati; altri danno con una certa mala grazia e quasi dispetto, tal

che si conosce che lo fan per forza; altri non solamente non son secreti, ma chiamano i testimoni e quasi fanno bandire le sue liberalità; altri pazzamente vuotano in un tratto quel fonte della liberalità, tanto che poi non si può usar più.

XL. Però in questo, come nell'altre cose, bisogna sapere e governarsi con quela prudenza, che è necessaria compagna a tutte le virtù; le quali, per esser mediocrità, sono vicine alli dui estremi, che sono vizii; onde chi non sa, facilmente incorre in essi: perchè così come è difficile nel circolo trovare il punto del centro, che è il mezzo, così è difficile trovare il punto della virtù posta nel mezzo delli dui estremi, viziosi l'uno per lo troppo, l' altro per lo poco, ed a questi siamo, or all' uno or all' altro, inclinati: e ciò si conosce per lo piacere per lo dispiacere che in noi si sente; chè per l'uno facciamo quello che non devemo, per l'altro lasciamo di far quello che deveremmo; benchè il piacere è molto più pericoloso, perchè facilmente il giudicio nostro da quello si lascia corrompere. Ma perchè il conoscere quanto sia l' uom lontano dal centro della virtù è cosa difficile, devemo ritirarci a poco a poco da noi stessi alla contraria parte di quello estremo al qual conoscemo esser inclinati, come fanno quelli che indrizzano i legni distorti; chẻ in tal modo s'accostaremo alla virtù, la quale, come ho detto, consiste in quel punto della mediocrità: onde interviene che noi per molti modi erriamo, e per un solo facciamo l'officio e debito nostro; così come gli arcieri, che per una via sola danno nella brocca, e per molte fallano il segno. Però spesso un principe, per voler esser umano ed affabile, fa infinite cose fuor del decoro, e si avvilisce tanto che è disprezzato; alcun altro, per servar quella maestà grave con autorità conveniente, diviene austero ed intolerabile; alcun, per esser tenuto eloquente, entra in mille strane maniere e lunghi circuiti di parole affettate, ascoltando sè stesso tanto, che gli altri per fastidio ascoltar non lo possono.

XLI. Si che non chiamate, messer Cesare, per minuzia cosa alcuna che possa migliorare un principe in qualsivoglia parte, per minima che ella sia; nè pensate già ch'io estimi che voi biasmiate i miei documenti, dicendo che con

quelli piuttosto si formaria un buon governatore che un buon principe; chè non si può forse dare maggior laude nè più conveniente ad un principe, che chiamarlo buon governatore. Però, se a me toccasse instituirlo, vorrei che egli avesse cura non solamente di governar le cose già dette, ma le molto minori, ed intendesse tutte le particolarità appartenenti a'suoi popoli quanto fosse possibile, nè mai credesse tanto nè tanto si confidasse d'alcun suo ministro, che a quel solo rimettesse totalmente la briglia e lo arbitrio di tutto 'l governo; perchè non è alcuno che sia attissimo a tutte le cose, e molto maggior danno procede dalla credulità de'signori che dalla incredulità, la qual non solamente talor non nuoce, ma spesso sommamente giova: pur in questo è necessario il buon giudicio del principe, per conoscere chi merita esser creduto e chi no. Vorrei che avesse cura d'intendere le azioni, ed esser censore de' suoi ministri; di levare ed abreviar le liti tra i sudditi; di far far pace tra essi, ed allegargli insieme de'parentati; di far che la città fosse tutta unita e concorde in amicizia, come una casa privata; popolosa, non povera, quieta, piena di buoni artefici; di favorir i mercatanti, ed ajutarli ancora con denari; d' esser liberale ed onorevole nelle ospitalità verso i forestieri e verso i religiosi; di temperar tutte le superfluità: perchè spesso per gli errori che si fanno in queste cose, benchè pajano piccoli, le città vanno in ruina; però è ragionevole che 'l principe ponga mêta ai troppo sontuosi edificii dei privati, ai convivii, alle doti eccessive delle donne, al lusso, alle pompe nelle gioje e vestimenti, che non è altro che un argomento della lor pazzia; chè, oltre che spesso, per quella ambizione ed invidia che si portano l'una all' altra, dissipano le facoltà e la sostanza dei mariti, talor per una giojetta o qualche altra frascheria tale vendono la pudicizia loro a chi la vuol comperare.

XLII. Allora messer BERNARDO BIBIENA, ridendo, Signor Ottaviano, disse, voi entrate nella parte del signor Gaspar e del Frigio. Rispose il signor OTTAVIANO, pur ridendo: La lite è finita, ed io non voglio già rinovarla; però non dirò più delle donne, ma ritornerò al mio principe. Ri

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